martedì 30 aprile 2013 - UAAR - A ragion veduta

Indonesia, la condanna religiosa dell’innocenza giovanile

Le cronache si riempiono sempre più frequentemente di richieste di condanne in nome di Dio. Nessuno può pensare di essere immune dall’accusa di violazione del sacro: ovunque ci si trovi in minoranza, si può incappare in denunce per “blasfemia”. Ma può capitare di essere denunciati anche quando è evidente che la critica alla religione sta soltanto nella testa di chi si sente offeso.

L’ultima storia arriva dall’Indonesia. Sarebbe tragicomica se non fosse che delle ragazzine rischiano una pena pesante per offese all’islam e già ne stanno pagando indirettamente le conseguenze. Cinque alunne di una scuola di Tilitoli, sull’isola di Sulawesi, si sono riprese in classe con un videofonino mentre in maniera scherzosa alternavano movimenti della preghiera islamica (sholat) con la danza sulle note di One More Night, canzone del gruppo Maroon Five. L’hanno diffuso su Youtube, dove è diventato virale, destando reazioni spropositate. Non solo la scuola le ha espulse e non potranno quindi diplomarsi, ma sono state anche accusate di blasfemia per “offese alla religione”, sulla base del codice penale indonesiano: rischiano in teoria l’incriminazione e la detenzione. Sono seguite anche proteste in piazza da parte degli integralisti islamici contro le ragazzine “blasfeme”, e le autorità religiose locali hanno invocato la punizione.

Un comunicato firmato da Sonja Eggerickx, presidentessa dell’Iheu (l’organizzazione internazionale di non credenti di cui fa parte l’Uaar), ha espresso preoccupazione per l’ostracismo subito dalle adolescenti. “È incomprensibile che qualcuno possa pensare che l’espulsione e l’intervento della polizia contro alcune normali studentesse che si divertono siano necessari, o anche solo logici”, sostiene, “quelli che pensano che un’adolescente che balla e fa la parodia di una preghiera sia una minaccia alla propria religione hanno essi stessi necessità di crescere”. Per l’ennesima volta “il concetto di diffamazione della religione è usato per colpire pesantemente gli individui, in violazione dei diritti e delle libertà di base”, ha aggiunto la presidentessa Iheu, che rilancia l’appello ai governi per abolire le leggi che criminalizzano la blasfemia, spesso usate contro atei e agnostici e contro minoranze religiose, come i cristiani, in maniera strumentale.

È evidente che il video non muove critiche alla religione, ma si limita a mostrare insofferenza per certe pratiche noiose cui i ragazzi sono di fatto costretti vivendo in una società fortemente conservatrice e bigotta. Non si tratta certamente di giovani incredule militanti, tanto che una di queste ragazze ha persino il velo. Chissà che non possano però diventarlo in reazione all’ottusità del fondamentalismo religioso, sempre meno capace di comprendere i giovani i cui comportamenti, grazie anche a scolarizzazione, cultura moderna e nuove tecnologie, appaiono più secolarizzati rispetto alla media. Anche in paesi più legati alle tradizioni religiose e più poveri.

La stretta islamista in Indonesia è da qualche anno però sempre più oppressiva. In diversi stati ormai viene applicata la sharia, ad esempio con fustigazioni pubbliche di donne “immorali” e repressione di comportamenti giudicati anti-religiosi. Come accaduto nei confronti di decine di punk, rapati a zero, imprigionati e costretti a seguire corsi di indottrinamento religioso, e alle ragazze che osano portare minigonne. Eclatante è anche il caso di Alexander Aan, giovane funzionario che ha rischiato di essere linciato dalla folla ed è stato arrestato per aver espresso su internet il proprio ateismo e criticato la religione islamica. L’Iheu ha seguito il caso lanciando un appello per chiederne la liberazione e sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale sulla repressione che nel mondo subiscono atei e agnostici, come ha fatto anche l’Uaar tramite i propri canali.

La tutela del sacro altro non è che la protezione di leader ideologici da ogni forma di critica nei loro confronti. La vicenda delle cinque studentesse indonesiane mostra una volta di più che non esistono limiti reali alla sua applicazione indiscriminata. E che l’arrendevolezza nei confronti delle pretese degli integralisti religiosi non fa altro che alimentarne la volontà di forgiare la società a propria immagine e somiglianza e di opprimere chi la pensa diversamente, tendenza che si manifesta in maniera sempre più aggressiva sul modello del “bullismo”. Approccio che alimenta piuttosto che spegnere i conflitti su base religiosa. Come sta accadendo recentemente anche in Bangladesh, dove gli islamisti a centinaia di migliaia in piazza hanno invocato l’impiccagione per i blogger atei, contro cui il governo ha avviato una stretta repressiva con arresti e chiusure di siti. Proprio l’Uaar, insieme alle altre associazioni umaniste nel mondo, si è mobilitata per chiedere la fine di questo accanimento. Tutto questo dovrebbe far riflettere sia chi ritiene che il sentimento religioso debba comunque essere protetto, sia chi strilla all’”islamofobia” (o alla “cristianofobia: il ragionamento non cambia) ogni qual volta vengono messi in discussione alcuni aspetti, nemmeno i più significativi, della ideologia religiosa. Persino quando lo si fa solo involontariamente. Per rendere impermeabili a ogni critica concetti astratti si mettono a repentaglio la libertà e la vita di persone in carne e ossa. Così vanno purtroppo le cose, quando le autorità politiche non pongono alcun freno alle rivendicazioni religiose.

Visto che in Italia c’è stato un cambio al vertice non da poco al ministero degli Esteri, che ora ha a capo Emma Bonino, ci si augura che il nostro paese sia più sensibile a certi temi. Veniamo da ministri come Franco Frattini e Giulio Terzi, uno che invitava alla santa alleanza internazionale contro gli atei e l’altro che auspicava venissero perseguiti penalmente coloro che “offendono” le religioni perché “nessuno deve permettersi di dileggiarle o di scherzare su questi valori”. Far di meglio non è difficile, impegnarsi perché l’Italia appaia nel mondo come un paese realmente impegnato nella tutela dei diritti civili lo è senz’altro di più.




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