giovedì 27 giugno 2019 - Phastidio

Illiquidi come H2O

Nell’ultimo anno ci sono stati tre casi di società di gestione finite in guai di varia intensità a seguito dello stock di investimenti illiquidi in portafoglio. L’ultimo in ordine di tempo è l’asset manager H2O, controllato dai francesi di Natixis, finito sotto i riflettori dopo che il Financial Times ha evidenziato che i suoi fondi detenevano dei bond privi di mercato emessi da un discusso finanziere tedesco, abbonato a problemi con la giustizia.

La notizia è piombata sul pubblico dei risparmiatori dopo il caso del fondo Woodford Income Equity, un prodotto azionario del riverito gestore Neil Woodford, specializzato in investimenti azionari di tipo value, quelli che in astratto sono “sottovalutati”. Woodford è stato costretto a bloccare a tempo indeterminato le nuove richieste di rimborso, dopo che i pesanti deflussi causati da un andamento persistentemente negativo avevano innalzato fortemente la quota di attivi illiquidi, rappresentati da quote in società di settori “peculiari”, come le biotecnologie. In pratica, un fondo di private equityincastonato in uno regolato da norme UCITS. Ora Woodford sta cercando di trovare una soluzione, in modo da poter rimborsare i clienti senza infliggere loro perdite catastrofiche. Auguri.

 

Il terzo caso, in realtà il primo ad accadere, lo scorso anno, fu quello del fondo obbligazionario a ritorno assoluto del gestore svizzero GAM. In quel caso fu coinvolta una star della gestione, Tim Haywood, poi cacciato per gross misconduct, che poi è la più eclatante ammissione che i dipartimenti risk management e compliance servono a nulla. Come è finita? In un bagno di sangue per gli azionisti di GAM, tra i quali vi sono le due maggiori banche svizzere.

Queste vicende, diverse tra loro anche solo in ordine alla gravità, hanno tuttavia un denominatore comune: la presenza di titoli illiquidi in prodotti di investimento che hanno liquidabilità giornaliera, e la violazione di tale limite a seguito di pesanti richieste di rimborso (ma lo stesso accadrebbe in caso di crash di mercato, con crollo delle quotazioni dei titoli liquidi).

Secondo la normativa europea UCITS, che regola tali prodotti, i fondi possono avere titoli illiquidi per un massimo del 10% del portafoglio. E sin qui, tutto bene. Ma che accade quando si producono forti richieste di rimborso? Che il gestore inizia a vendere i titoli che hanno un mercato. Se i rimborsi sono molto forti, ecco che l’incidenza degli illiquidi sale pericolosamente e può anche rompere la soglia di sicurezza del decimo per patrimonio.

In quei casi, che fare? In quelli più gravi, come quello di Woodford, sospendere la possibilità di chiedere il rimborso pare essere l’unica via, almeno ex post. Ma così facendo si rischia che il nervosismo per tale evento divenga rapidamente sistemico, causando vendite anche su altri prodotti a gestione attiva (prima vendere, poi fare domande), e realizzando la classica profezia che si autoavvera.

La presenza di titoli illiquidi nei fondi a gestione attiva è legata alla caccia al rendimento causata da tassi molto bassi. Almeno, questa è l’interpretazione benevola. Se poi in quel 10% di quota illiquidi (nota nell’ambiente col nome molto esplicativo di trash bucket) ci finisce anche altro, sempre perché i controlli interni non hanno i denti, non è dato sapere.

Questo ci porta al più generale tema delle gestioni attive, il cui scopo è quello di battere un benchmark, o indice di riferimento, oppure (nel caso dei cosiddetti fondi a ritorno assoluto, come quelli H2O), quello di produrre rendimenti stabili e con controllo della volatilità. I fondi a gestione attiva affermano (o millantano, a seconda dei punti di vista) di possedere abilità gestionali superiori e di poter quindi “battere il mercato”. Questo giustificherebbe il pagamento di commissioni elevate.

Un interessante studio di un gestore quantitativo ha cercato di spiegareperché i fondi obbligazionari tendono a battere i propri benchmark assai più di frequente di quelli azionari, studiando 20 anni di risultati di oltre 600 fondi, statunitensi ed internazionali. E ha scoperto che di solito queste sovraperformance non vengono da superiori abilità gestionali quanto da allontanamento dal benchmark, facendo ricorso a strumenti ad alto rendimento ma proprio per questo più rischiosi e meno liquidi.

Obbligazioni High Yield, debito di mercati emergenti, prestiti ad alto rendimento (leveraged loans), sino al private debt, cioè a debiti non quotati da nessuna parte, sono le scelte per battere benchmark più “tranquilli”. Poi ci sono gestori ancor più sofisticati che vendono volatilità, atto gestionale tipico di questo periodo storico, fatto di banche centrali che tengono bassi, nulli o negativi i rendimenti. Tutto bene, sin quando non scoppia il grosso casino che ti fa scoprire che stai raccogliendo monetine davanti ad uno schiacciasassi.

La sintesi? Che la normativa UCITS andrà auspicabilmente rivista, per tenere presenti questi rischi. Che poi sono rischi pesantemente sistemici. Poi, potremmo anche commentare giungendo alla conclusione che in giro non ci sono maghi ma solo personaggi che aggirano le regole, nel mondo della gestione attiva. Che poi è lo schema tipico della “innovazione” finanziaria: aggirare norme che sono in costante ritardo nell’adeguarsi a mutamenti di contesto.

Per il momento, possiamo solo sorridere davanti al contrappasso di una società di gestione che ha scelto come nome la formula chimica di ciò che vi è di più liquido, e che è finita nei guai a causa di investimenti illiquidi.

Addendum – Sia lode al Financial Times, che sta facendo le pulci in profondità al portafoglio illiquido di H2O, e segnala due autentiche perle, una pure di nome oltre che di fatto, relative alla “special relationship” con finanziere tedesco Lars Windhorst. Il fondo ha sottoscritto bond di una entità, di nome Chain Finance, che ha finanziato le spese legali di Windhorst. E ha anche sottoscritto bond della sussidiaria olandese del gruppo di lingerie La Perla (che proprio oggi ha annunciato 100-120 esuberi nel suo impianto di Bologna). Tale bond risulta, dal prospetto di emissione, come subordinato ad altri debiti della sussidiaria britannica dell’azienda, oltre che del prestito che la medesima ha avuto dall’azionista di controllo, sempre Windhorst. Ma non è meraviglioso, tutto ciò?




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