martedì 7 marzo 2023 - Phastidio

Il ritorno di stretta monetaria e rischio recessione

L'inflazione pare non scendere con la rapidità prevista e auspicata, l'economia resta molto tonica e i mercati tornano a scontare nuove strette delle banche centrali

 

Dopo un periodo di alcune settimane in cui i rendimenti di mercato hanno intrapreso una rapida discesa, alimentata dalla speranza che l’inflazione avesse imboccato una ripida china discendente, sono bastati alcuni dati di sostanziale forza congiunturale, soprattutto negli Stati Uniti, per far cambiare idea al mercato e alla sua nota psicolabilità, madre della volatilità.

ECONOMIA ANCORA TONICA

I consumatori americani lottano indefessamente per proseguire a consumare, magari col ritorno alle mode yankee di “tirare” la carta di credito malgrado i tassi più elevati della formula con rateizzazione, il mercato del lavoro resta molto tonico, con ricerca di personale che pare non flettere quanto sperato dai banchieri centrali. Anche in Europa le cose stanno in questi termini, con disoccupazione prossima ai minimi storici.

L’inflazione da servizi, quella dove il fattore umano è dominante, non accenna a flettere mentre quella da merci beneficia dello sblocco delle catene di fornitura con la riapertura cinese post pandemica. Sempre negli Stati Uniti, nel giro di pochi giorni sono usciti dati di inequivocabile robustezza congiunturale, come le vendite al dettaglio. Poi, l’inflazione al consumo di gennaio, sorpresa negativa, e quello dei prezzi alla produzione dello stesso mese, ben peggiore delle attese.

I mercati, dopo aver trascorso settimane a tentare di divinare quale sarebbe stato il peak rate o terminal rate, cioè il tasso massimo raggiunto dalla politica monetaria prima di iniziare la discesa, hanno rivisto le proprie aspettative. Si ipotizzava un picco intorno al 5-5,25%, il che significherebbe solo un paio di ulteriori aumenti di un quarto di punto e inizio della discesa già quest’anno; ora invece crescono le voci di quanti vedono all’orizzonte un minaccioso 6%.

In Eurozona stessa musica, con i due tedeschi della Bce, il capo della Bundesbank Joachim Nagel e la responsabile delle operazioni di mercato ma capo-economista ombra dell’Eurotower, Isabel Schnabel, a pestare sulla grancassa della necessità di alzare ancora per non “sottovalutare” il fenomeno inflazionistico. Stamane, tasso di picco euro a 3,75%.

Negli Stati Uniti, curva dei rendimenti pesantemente invertita, cioè tassi a breve scadenza ben maggiori di quelli a lungo termine, storicamente presagio di recessione. Stessa situazione per la curva dei rendimenti tedesca mentre quella italiana al momento è ancora inclinata positivamente, cioè presenta rendimenti a breve inferiori a quelli a lungo.

PANETTA SUONA BATTISTI

I cosiddetti falchi appaiono in controllo del chiacchiericcio Bce, con le colombe che pigolano e sono ridotte a citare Lucio Battisti, come fatto ieri da Fabio Panetta, prossimo governatore di Bankitalia, che ha invitato ad attendere l’impatto congiunturale dei rialzi sin qui attuati e poi decidere. Appunto, per evitare di “guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere se poi è tanto difficile morire”, negli eterni versi del vate di Poggio Bustone. Il problema del ragionamento di Panetta è che la maggioranza dei suoi colleghi Bce pare essere in modalità panico da banca centrale “dietro la curva”, cioè in ritardo. E quando c’è questo stato d’animo, hai ben da sgolarti con la “funzione di reazione” e “l’attesa dei dati”.

Ma l’italiano ha anche fatto una considerazione molto interessante e inedita: i lavoratori “hanno capito che se qualcuno impone una tassa sulla nostra economia, questa deve essere condivisa fra capitale e lavoro”. Che significa? Che sinora la maggioranza dei suoi colleghi banchieri centrali si è detta preoccupata di evitare la cosiddetta spirale prezzi-salari causata da rivendicazioni salariali eccessive ma nessuno ha sin qui detto che l’inflazione potrebbe originare anche dall’eccessivo potere di mercato delle imprese a protezione dei loro margini, magari aiutate da politiche fiscali espansive durante una stretta monetaria. Insomma, molte cose su cui riflettere, tra politica della concorrenza e dei redditi. Qualcosa mi dice che queste resteranno solo considerazioni teoriche ma bravo Panetta per averle richiamate.

Come finirà? Diciamo che al momento è ripartito l’attacco alla teoria della immacolata disinflazione, che postula che la stretta monetaria rapida e concentrata non sia tale da far scuffiare l’economia e causare una recessione. Restando alla situazione statunitense, sarà interessante vedere in che misura le aziende riusciranno a traslare gli aumenti dei costi di produzione sui prezzi al dettaglio per proteggere i propri margini, spesso assai ricchi.

Se ciò dovesse smettere di accadere, magari perché i consumatori hanno dato fondo ai risparmi pandemici e la carta revolving costa troppo, potrebbe innescarsi la “fase due”, quella dell’attacco al mercato del lavoro a mezzo di licenziamenti massivi. In quel caso, anche il consumatore americano getterebbe la spugna e la disinflazione sarebbe conseguita a mezzo di una recessione “classica”.

GUAI AI DEBITORI

In Europa, ci sono paesi dove l’impulso recessivo pare destinato a originarsi dal mercato immobiliare, cresciuto a bolla negli ultimi anni di tassi stracciati. Fuori dall’euro, la Svezia ha la peggiori previsioni congiunturali della Commissione Ue proprio per questa sindrome del mattone con ampia presenza di mutui a tasso variabile. Ma anche in Eurozona stanno maturando condizioni simili su alcuni mercati nazionali.

Per il momento, vale la solita regoletta: politica monetaria aggressiva uguale sofferenza dei paesi più indebitati. L’Italia, nelle ultime settimane, è stata beneficiata a livello di spread da un consenso di mercato basato sul cosiddetto “atterraggio morbido” (soft landing): niente recessione e disinflazione relativamente rapida. Se questo scenario cambiasse per divenire più maligno, con tassi reali in nuova forte ascesa e impennata del rischio recessione, avremmo delle emicranie in più.

 




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