Il protocollo Italia-Albania va contro il diritto dell’Unione Europea
Il viaggio lampo di Giorgia Meloni in Albania – con l’annuncio elettorale che dal primo agosto dovrebbe andare a regime il Protocollo d’intesa firmato con Edi Rama, con l’apertura di entrambi i centri di detenzione previsti dall’accordo, nel porto di Schengjin, un Hotspot per le identificazioni, e a Gjader il centro per i rimpatri (CPR), nel quale si dovrebbe ubicare anche una sezione detentiva per chi dovesse commettere reati all’interno della struttura – conferma non solo la dubbia praticabilità dell’intero progetto, ed i suoi costi esorbitanti, ma le gravi violazioni del diritto dell’Unione europea, una grave violazione del principio di parità di trattamento ed un eclatante conflitto di giurisdizione, che erano già prevedibili in base alla Relazione tecnica allegata alla legge di ratifica, approvata dal Parlamento lo scorso febbraio.
Si deve infatti riconoscere, come osservano gli internazionalisti, che “la zona di frontiera… è fondata su una finzione, ma un conto è fingere che una fascia spaziale più o meno ampia, a ridosso del confine e in continuità con esso, non sia ancora territorio interno, ai fini dell’autorizzazione all’ingresso degli stranieri, altro è inventarsi che il territorio di uno Stato terzo, neppure contiguo alle frontiere italiane e collocato a centinaia di chilometri da esse, possa considerarsi una zona di frontiera italiana”. L’istituzione di una zona di frontiera sotto giurisdizione italiana in Albania costituisce quindi violazione della direttiva europea sulle procedure di asilo.
Le procedure previste per la prima identificazione, e poi le procedure accelerate in frontiera per le persone soccorse in acque internazionali da navi militari italiane, provenienti da paesi terzi sicuri, con l’eccezione di un ristretto numero di casi di vulnerabilità, si pongono in contrasto non solo con la vigente normativa europea in materia di procedure di asilo (Direttiva 2013/32/UE) e di accoglienza (Direttiva 2013/33/UE), ma anche con la futura normativa che disciplinerà questa materia, in base al recente Patto sulla migrazione e l’asilo, che dovrebbe entrare in vigore entro due anni, secondo tempi e modalità che saranno fissati dalla nuova Commissione europea.
Come si è già rilevato dagli studiosi di Diritto internazionale, l’art. 43 n. 1 lett. c) del regolamento sulla procedura comune di protezione internazionale dell’Unione, che sostituirà la direttiva precedente, approvato dal Parlamento europeo con risoluzione del 10 aprile 2024, applica la procedura di frontiera, oltre che nei casi di chi sia stato intercettato o si sia presentato volontariamente, anche nell’ipotesi di sbarco «a seguito di un’operazione di ricerca e soccorso» precisando, però, che detto sbarco deve avvenire «nel territorio di uno Stato membro».
Finché resterà in vigore, anche ai richiedenti asilo soccorsi da navi militari italiane in acque internazionali, dunque di fatto già in territorio italiano, una volta sbarcati, o trasbordati con navi traghetto, nei centri, ubicati in Albania ma sotto giurisdizione italiana, e dunque europea, dovrà applicarsi la Direttiva n 33 del 2013, secondo cui il trattenimento del richiedente asilo in frontiera dovrebbe essere adottato solo come extrema ratio e con un provvedimento dotato di una adeguata motivazione individuale sul punto, senza alcun riferimento alla provenienza da un paese di origine sicuro.
Secondo quanto dichiarato dal ministro degli esteri Tajani in visita in Albania alla fine dello scorso anno, “Qui a Shengjin attraccheranno le navi militari che porteranno i migranti soccorsi in acque internazionali. Verranno identificati prima a bordo, poi ci sarà un’altra identificazione albanese sul territorio”. Il ministro ha poi aggiunto: “L’Albania aiuterà l’Italia a raccogliere i migranti che dovranno poi essere riaccompagnati nei loro Paesi di origine, tutti Paesi sicuri”.
La struttura di Shengjin è solo funzionale a quella di Gjader, perché non ha posti letto né spazi per il pernottamento. All’esterno delle strutture i compiti di sorveglianza restano affidati alla polizia albanese e lo stesso avverrà durante i trasferimenti in territorio albanese. Se ci sarà davvero una “identificazione albanese sul territorio” non sarà certo sul territorio di un paese membro.
Potrebbe trattarsi di un ricorso sistematico a veri e propri respingimenti collettivi, anche considerando la posizione giuridica di quei richiedenti asilo che si vedranno respinta l’istanza di protezione, e dunque dovrebbero essere riaccompagnati direttamente dall’Albania, con il concorso della polizia albanese e dunque sotto piena giurisdizione albanese, verso i paesi di origine “sicuri”, con una loro rendition (consegna) illegale ad autorità di un paese terzo (l’Albania), prima del loro rimpatrio forzato. Di certo negli aeroporti albanesi non vi sarà alcuno spazio per l’esercizio della giurisdizione italiana.
La Corte di Giustizia UE dovrà intanto affrontare diversi casi di rimessione provenienti dalla Corte di Cassazione e dai Tribunali italiani, in ordine alla compatibilità delle procedure stabilite dal cd. Decreto Cutro (legge n.50/2013) con il vigente diritto dell’Unione europea. Una valutazione, con procedura ordinaria, e non d’urgenza, come richiesto dalla Corte di Cassazione a Sezioni unite, che non potrà esaurirsi prima dell’apertura dei due centri in Albania sotto “giurisdizione” italiana. Che dunque sulla carta dovrebbero essere luoghi nei quali rispettare, finché saranno in vigore, almeno le Direttive europee in materia di procedure di asilo e rimpatri.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con riferimento alle decisioni del Tribunale di Catania che non convalidava i provvedimenti di trattenimento disposti dal questore di Ragusa, affermano come “Da tali pronunce si evince, tra l’altro, che gli articoli 8 e 9 della direttiva 2013/33 ostano a che un richiedente protezione internazionale venga trattenuto per il solo fatto che non può sovvenire alle proprie necessità” […].
Si può quindi prevedere che non appena arriveranno in Albania i naufraghi soccorsi in acque internazionali da unità militari italiane, probabilmente a seguito di trasbordi, già di dubbia legittimità, su navi traghetto che completeranno il tragitto verso i porti albanesi, senza che sia possibile accertare a bordo durante la navigazione, con le dovute garanzie, la provenienza, o meno, da paesi di origine “sicuri”, o singoli casi di vulnerabilità, oltre i casi già previsti per età e genere, seguirà una valanga di ricorsi giurisdizionali al Tribunale di Roma, anche se il governo ha cercato di adottare procedure telematiche che riducono al minimo il ruolo della giurisdizione ed i diritti di difesa delle persone deportate in Albania.
Perché di vere e proprie deportazioni occorre parlare, per l’evidente violazione delle garanzie costituzionali in materia di libertà personale che saranno commesse dalle autorità italiane, in spregio del principio di legalità affermato per tutti i casi di limitazione della libertà personale dall’art.5 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, oltre che dall’art.13 della Costituzione italiana. […]
Si deve anche ricordare che il mancato rispetto dei termini stabiliti dal Decreto Cutro (legge n.50/2023) per le procedure accelerate in frontiera riservate ai richiedenti asilo provenienti da paesi di origine “sicuri”, secondo una giurisprudenza ormai consolidata, impone il passaggio dalla procedura accelerata in frontiera alla procedura ordinaria, e dovrebbe comportare quindi il ritrasferimento del richiedente asilo dall’Albania in Italia, per la prosecuzione di quest’ultimo tipo di procedura. È prevista inoltre, da una sentenza della Corte di Cassazione del 9 aprile 2024, la possibilità di un ricorso anche contro questo mutamento di procedure. […]
Facile prevedere quello che potrebbe succedere in caso di mancato rispetto dei termini nelle procedure accelerate in frontiera esternalizzate in Albania. Ammesso che riesca ad entrare in funzione ad agosto, il “modello Albania” potrebbe andare in stallo già dopo qualche settimana dall’avvio.
L’accozzaglia di paesi europei che si sono raccolti attorno al proposito di estendere il “modello Albania” ad altri casi di esternalizzazione delle procedure accelerate in frontiera, e della detenzione amministrativa, in vista dei rimpatri forzati verso paesi di origine sicuri, non deve illudere una popolazione sempre più tenuta all’oscuro dei fatti, sotto l’implacabile martellamento di una propaganda che non usa argomenti giuridici, ma ricorre ad attacchi personali ed alla logica della demolizione del “nemico interno”.
Nel gruppo dei 15 paesi favorevoli al modello Albania ci sono Danimarca e Repubblica ceca, oltre ad Italia e Grecia, e poi ancora Austria, Polonia, Bulgaria, Romania, Cipro, Estonia, Lituania, Lettonia, Malta, Finlandia e Paesi Bassi. Restano fuori da questa linea di esternalizzazione 12 paesi membri tra cui Francia, Spagna e Germania, ma anche l’Ungheria, alla presidenza UE nel prossimo semestre, paesi determinanti per le politiche migratorie europee.
Quale che sia l’esito delle prossime elezioni, non sembra che l’Unione europea, già a pezzi sulla questione della guerra in Ucraina, e divisa sul conflitto in Palestina, oltre che sui dossier economici, possa raggiungere un’intesa per adottare un modello condiviso di esternalizzazione delle frontiere, che peraltro potrebbe segnare la fine dell’Europa dei diritti e del diritto di asilo. Perché renderebbe ciascun paese arbitro di negoziare con i paesi terzi, al di fuori di una cornice normativa europea, le condizioni per riconoscere il diritto di asilo ed operare i rimpatri forzati, snodi cruciali di una politica europea comune, senza alcun riguardo per i valori fondanti comuni consolidati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
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Il Protocollo Italia-Albania contro il diritto dell’Unione europea