mercoledì 8 luglio 2020 - Phastidio

Il lavoro al tempo del Covid, e oltre

Il miraggio della resilienza, la realtà di sussidi indiscriminati che sclerotizzano il mercato del lavoro, soprattutto in alcuni paesi.

L’Ocse ha pubblicato il proprio Employment Outlook 2020, che mostra l’impatto del Covid come la peggiore crisi occupazionale dai tempi della Grande Depressione. Il rischio, ormai noto, è quello di produrre drammatici aumenti di diseguaglianza ed un forte aumento della povertà, con effetti destinati a durare negli anni a venire, soprattutto se la pandemia non dovesse essere sconfitta in tempi ragionevoli, oltre a contribuire a produrre mutamenti del mercato del lavoro difficilmente reversibili. Che fare?

Sul sito Ocse c’è una animazione raggelante, che mostra il crollo verticale delle ore lavorate, e la “ripresa” post lockdown che descrive (focolai e nuove ondate permettendo) un vera e propria L. Giovani, donne, lavoratori autonomi nei settori più colpiti sono le vittime di questa devastazione.

Secondo l’Ocse, nel rapporto firmato da Stefano Scarpetta, direttore Occupazione, Lavoro ed Affari sociali, ora serve che il mercato del lavoro entri in una fase di “riabilitazione”. Ciò significa continuare a sostenere, nel breve termine, alcuni settori riavviando al contempo i meccanismi di mercato.

Circa un terzo dei lavoratori, secondo le stime, possono lavorare da casa, e ciò deve proseguire, con sforzo dei datori di lavoro di fornire ai dipendenti le attrezzature necessarie, ridisegnando ove necessario l’organizzazione aziendale.

Nei settori e nelle attività che possono riaprire, serve progressivamente staccare i sussidi di cassa integrazione, aumentandone la compartecipazione a carico delle imprese. Per non appesantirle troppo, si può pensare a prestiti statali a tasso zero per la compartecipazione ai costi della cassa. Serve, in altri termini, uscire da quello che in Italia è nota come “Cassa Covid” a oltranza, almeno per chi può.

Anche così, tuttavia, si può immaginare una espulsione di lavoratori da imprese che riprendono su livelli di attività inferiori ai precedenti e/o che hanno ridisegnato i propri processi aziendali. E qui si può solo pensare a sussidi di disoccupazione disegnati in modo razionale, oltre a schemi di formazione e riaddestramento. Sull’efficacia dei quali, chi scrive ha da sempre forti dubbi, forse perché abbiamo sotto gli occhi decenni di esperienza italiana come worst practice.

Pensateci: serve attività di counseling e di supporto a ricerca di lavoro. Che poi, da noi è la missione dei centri per l’impiego, o meglio dei navigator in essi inseriti. Abbiamo forse visto qualche effetto positivo di questa costruzione, prima della pandemia? Se quella del supporto alla ricerca di un impiego e di formazione è la migliore prassi internazionale, in Italia si arriva ad applicarla solo nominalmente, cioè limitandosi all’aspetto di erogazione monetaria. Una scatola vuota, come spesso finisce ad essere l’applicazione italiana delle best practices.

L’Ocse ha elaborato la cosiddetta Jobs Strategy, centrata su resilienza ed inclusività. Non serve solo durante le pandemie, è uno schema strategico generale. La resilienza economica richiede politiche macroeconomiche anticicliche, adeguato sostegno al reddito per tutti i lavoratori, espansione rapida degli schemi di job retention (la cassa integrazione, detto in italiano, o il kurzarbeit detto in tedesco), ma soprattutto un efficace dialogo sociale.

Ancora una volta, si coglie la criticità di una pubblica amministrazione reattiva, proattiva ed adattiva, e di un clima sociale di dialogo e non orientato ad una visione antagonistica ed a somma zero della società. In assenza dei quali, l’esito è un aumento della sclerotizzazione del mercato del lavoro, un crollo del tasso di occupazione, l’aumento di sussidi alla passività del tipo della cassa integrazione italiana degli anni Settanta ed Ottanta, sin quando povertà e dissesto fiscale non ci separino.

Molte imprese, non solo in Italia, avranno paura di tornare a navigare da sole in mare aperto. La forte incertezza tende a spingerle verso il mantenimento dello status quo fatto di sussidi pubblici di cassa integrazione da esse non contribuita. Per contro i governi, terrorizzati all’ipotesi di disoccupazione di massa, risulteranno meno inclini a spingere verso la progressiva normalizzazione di settori ed imprese che potrebbero permetterselo. Da qui, la paralisi e l’esplosione di spesa pubblica che rischia di portare molti paesi a condizioni di dissesto conclamato.

Non sarà per nulla facile uscirne. E ancor meno lo sarà meno per paesi come l’Italia, che hanno un sistema produttivo più orientato sul basso valore aggiunto, con più lavoratori a basse qualifiche, capacità e competenze, una pubblica amministrazione che rappresenta spesso un freno al cambiamento ed al supporto delle imprese, e rapporti sociali che puntano in prevalenza sulla isteresi della conservazione del posto di lavoro e non sulla tutela del lavoratore, producendo aziende e settori zombie.

 

Photo by National Archives at College Park / Public domain

 




Lasciare un commento