lunedì 23 gennaio 2023 - Eleonora Poli

Il lato oscuro dei social, tra cronaca e silenzi

Qualche mese fa un’insegnante aggredita in classe a colpi di pallini e ripresa in diretta con il cellulare dai ragazzi; la settimana scorsa la scomparsa di un trentenne che fino al giorno prima si era rimpinzato di cibi scaduti davanti alla telecamera: non si tratta di fenomeni isolati e inverosimili, sono solo due casi che hanno avuto più attenzione degli altri. Ogni giorno sui social il gioco è più vero della realtà, ma ancora se ne parla troppo poco, non ci si interroga abbastanza. Con colpevole complicità.

Pochi giorni fa - parola di social - è morto Taylor LeJeune, tiktoker da 1,8 milioni di follower, diventato famoso per avere ingurgitato in diretta, e abbastanza a lungo da farsi conoscere, chili di cibo spazzatura; e quando la carne in scatola era scaduta da anni o da decenni le visualizzazioni aumentavano. Pare, almeno, che quest’uomo sia morto, perché in fondo che cosa sappiamo di lui? Non era che una video immagine sul mini schermo dello smartphone, un'entità virtuale tenuta in vita da tutti quelli che si divertivano a guardarlo mentre si ingozzava. Non era un giovane di 33 anni, era Waffler69: questo il suo nome d'arte su TikTok. Ma che fosse vero o finto, che importanza poteva avere per i fan, per chi si nutre di video per ore e ore al giorno, per questo pubblico impalpabile che esiste e allo stesso tempo non esiste, oggi c’è e domani abbandona la community e scompare? La piattaforma digitale cinese TikTok, come altre meno famose, si rivolge a un target formato in larga misura da giovanissimi, tra cui anche minorenni fuori controllo. La storia di Waffler69, come tante altre che ancora non sono state raccontate, non ha proprio niente di eroico o romantico, e anche lo strumento in se stesso non ha nulla di così eccezionalmente innovativo e rivoluzionario da giustificarne il successo, diciamo piuttosto che ha avuto la furbizia di essere nel posto giusto al momento giusto. Quanto a Waffler, non faceva niente di così nuovo. La sua fine, se come sembra è conseguenza della sregolatezza alimentare per fare audience, dovrebbe suscitare scalpore, indignazione, riflessioni sociologiche? Pare proprio di no. Qualcuno obietterà infatti che i recordman sono sempre esistiti, da sempre si sono cimentati nelle sfide e nelle prove più assurde, anche a rischio della vita: roba da guiness dei primati, c'è chi avrebbe dato qualunque cosa, al momento giusto, per poterci entrare. E poi le gare a ingurgitare cibo non sono poi certo una novità di Tik Tok. Sarebbe troppo facile chiuderla così.

· Esiste invece, per chi ha il coraggio di vederla, un’abissale differenza rispetto al passato, determinata dalla mediazione dei social che hanno cambiato in modo lampante le carte in tavola. È una differenza che risiede essenzialmente nel ruolo del pubblico: su TikTok, come su altre piattaforme a diffusione massiccia che mettono l'immagine - in tutte le sue accezioni - al centro della comunicazione, attori e spettatori si scambiano in continuazione la parte. Tutti sono allo stesso livello, contemporaneamente video operatori, modelli da riprendere e pubblico, attivo o pasivo, che guarda. Da una parte all'altra del monitor lo scambio è fluido, le distinzioni sottili e solo contingenti. Ogni azione è facile, a portata di touch screen, potenzialmente accessibile dall'età della ragione in su e a costo contenuto, addirittura zero.

· Peccato che dietro tutto quelli che sembrano videogiochi ci siano esseri umani reali. Forse la storia di LeJeune può sembrare lontana e improbabile, fuori dai nostri schemi, non abbastanza verosimile da suscitare empatia, da farci riflettere sul lato oscuro dei social e sul risvolto che hanno, che potranno avere sulla società nel suo insieme. E tuttavia il fenomeno ci riguarda direttamente, ne siamo coinvolti. Solo per parlare di TikTok, si stima che in Italia conti circa 15 milioni di iscritti. Tutti ne hanno sentito parlare, ci sono fatti di cronaca che lo vedono protagonista indiretto, senz'altro testimone. Pochi mesi fa un'insegnate di Rovigo è stata presa di mira dai ragazzi della sua classe che le hanno deliberatamente sparato addosso pallini con una pistola ad aria compressa, riprendendo la scena con i cellulari e mandandola in diretta sui loro canali social. Una trauma che la professoressa non ha ancora superato, forse anche perché è stata posta crudelmente di fronte all'indifferenza che hanno dimostrato verso l'episodio una buona parte degli allievi e dei genitori della classe. Tutto normale. Intanto, davanti a quei video postati erano fioccati i like, lo scopo era stato raggiunto. Proprio questi like gratuiti e senza impegno che si mettono a caso senza bisogno di capire (in fondo basta un clic!) sono diventati il motore della nostra esistenza virtuale. Non si parla soltanto dei giovani, quelli non violenti e in buona fede, che in fin dei conti lo vedono e lo vivono come un gioco. Per (quasi) tutti indistintamente ormaim i "mi piace" di amici e sconosciuti, nella vita privata come in quella professionale, misurano il successo, il valore, il futuro delle attività come delle esistenze nel loro insieme, sono persino prove d’amore. Ci si nutre di like, per ogni immagine pubblicata, per ogni commento rivolto al mondo in cerca di visibilità. Stiamo parlando di casi estremi? Tutt’altro: di una normalità sempre più diffusa.

La pubblicazione del video dell'insegnante aggredita sul posto di lavoro avrebbe dovuto inorridire almeno quanto l'azione violenta in se stessa, ma non è andata esattamente così. Non sono in pochi a sostenere che a notizie come questa venga dato troppo risalto sui media. In realtà è vero esattamente il contrario: ne hanno troppo poco, di spazio, ed episodi come quello di Rovigo vengono, attraverso certi canali, presentati addirittura come aneddotici, più unici che rari, estremi, tali da non poter riguardare altr che i diretti interessatii.

· Si aggiunge ka tendenza a dimenticare molto in fretta, così ogni volta che viene alla luce un evento grave che bede coinvolti i social, sembra di nuovo il primo al mondo nel suo genere. Dimenticare sembra del resto quasi d’obbligo, di fronte a questa potenza in espansione che non si può per ora porre in discussione, tantomeno sotto accusa. Seguendo questa logica, è calato il silenzio sulla bambina di Palermo morta soffocata per una sfida su Tik Tok. Quando era successo, nel 2021, era stata aperta un'inchiesta, ma due anni sono come una vita fa. In questa fase storica, i social sono come un far west inesplorato di cui la legge non ha ancora preso le misure, ogni situazione è inedita e si affronta in modo pionieristico, appunto.

· Un altro dato impressionante di questa realtà è che, anziché isolare come virus i problemi legati all'utilizzo improprio dei social e cercare una regolamentazione, un argine, un ritrovato senso del limite, ci si pone al contrario l'obiettivo di trovare il modo di entrare a tuti costi in un ingranaggio che promette così bene, anche se non corrisponde in nulla alle linee guida e ai valori seguiti fino a quel momento. Il raggio d’azione e il target di TikTok sono in espansione (per ora), dai minorenni ai trentenni il passo è breve. Se però i ragazzi in piena incoscienza usano i social per divertirsi, dietro ogni iscritto, o potenziale iscritto, si nasconde invece un cliente, un fruitore, un consumatore, un investimento. Ogni video breve girato con il cellulare e postato nasconde un possibile risvolto commerciale che chi di dovere sarà pronto a sfruttare: soldi, alla fine tutto si riassume in questo.

· Di fronte a questa realtà, che non sappiamo quanto sarà destinata a durare - magari cinque anni, magari una generazione - i media, i mezzi di informazione "tradizionale" che cosa fanno? Anziché studiare le piattaforme social come un fatto sociale e di comunicazione, anziché svolgere inchieste e informare, da buoni osservatori esterni, gli utenti su vantaggi, potenzialità e rischi, decidono piuttosto di buttarsi a capofitto nel sistema, perdendo qualunque senso critico e deontologia giornalistica. Niente, i media hanno scelto di adeguarsi, tutto fa audience: Facebook, Instagram, Pinterest, persino TikTok che in origine con l'informazione non c'entrava proprio niente (siamo sicuri che c'entri ora?). I media vogliono diventare onnivori, ma non la presentano così perché suonerebbe male, Il pensiero che c’è dietro queste scelte è chiaro: chissà che al giornalismo del 2023, con l'acqua alla gola e i conti in rosso, anche Tik Tok non possa portare qualche utile, qualche contratto pubblicitario, visto che i giornali non si vendono più e anche radio e tv non se la cavano troppo bene. I primi sacrificati in questo processo di “innovazione” sono la qualità e i contenuti, che sulle pagine di informazione via social sono ovviamente irrisori, praticamente superflui. Ma che cosa importa, gli editori decidono di tentare anche questa avventura e convincono i giornalisti che non ci sia altra strada, se vogliono continuare a esercitare la professione più bella del mondo. Poco importa se ci sarà da inondare il web con tanti nuovi video inutili e a prova di analfabeta, perché tanto il valore è definito solo dal numero dei like. I social - si sa - sono democratici. Il must è trovare un canale remunerativo, quale che sia. Bisogna conquistare il pubblico gggiovane, quello che non apre un libro, figurarsi un giornale, che i media spesso non ha nemmeno chiaro cosa siano. Il giornalismo insegue gli influencer, i blogger, i tiktoker, scende di livello per sopravvivere e questo gli darà probabilmente il colpo di grazia, senza neppure permettergli di ottenere strada facendo risultati utili. Perché, ci si potrebbe scommettere, i sedicenni non si faranno conquistare da questi goffi tentativi editoriali, continueranno a guardare pacificamente i video degli eredi di Waffler69. Con buona pace dell'impegno profuso dai giornalisti per "svecchiarsi", perderanno i lettorie ascoltatori rimasti, senza però conquistarne altri.




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