venerdì 11 novembre 2011 - alfadixit

Il joystick dei black bloc

Le manifestazioni dei black bloc si ripetono ad ogni occasione con scontri e distruzione evidenziando ogni volta una società globale impreparata e incapace di qualsiasi rimedio.

Violenza allo stato puro. E’ questa la sensazione che abbiamo provato nel vedere e rivedere le immagini degli scontri accaduti a latere della manifestazione degli “indignados” qualche settimana fa nella capitale.

Violenza allo stato puro, incendi, devastazioni perpetrate da bande di delinquenti, i black bloc, ovvero loschi figuri vestiti di nero e col casco in testa, un abbigliamento da guerriglia che rende palese la premeditazione, la pianificazione dello scontro.

E non sono mancate le dichiarazioni, naturalmente, le condanne unanimi della società, le reazioni a cotanta brutalità, anche con nuove leggi e disposizioni di polizia. Tutte azioni doverose e sacrosante certo, ma che non osano andare oltre la mera condanna dei fatti, non osano superare la pura reazione del sistema, non si avventurano in un minimo di analisi etichettando i responsabili come “delinquenti e criminali”.

Di fatto gli incidenti sono stati archiviati come uno spettacolo di barbarie metropolitana da reprimere; tutto qui. A me viene però da pensare che mai come in questo periodo si presentino le condizioni favorevoli allo scontro, come cioè il clima del sottobosco sociale sia facilmente infiammabile.

Siamo in presenza di due fatti concomitanti. Una situazione economica molto difficile da un lato ed una società degradata e corrotta dall’altro, una società, insomma, soffocata da una cosca di potere che come una piovra fiacca nel cittadino ogni speranza di riscatto e successo. Ed in questa situazione è la parte più debole a farne le spese; i giovani, che il nostro paese condanna ad essere i più disoccupati d’Europa, una moltitudine di emarginati che bussa alle porte della collettività assolutamente impreparata a combattere una battaglia così dura e selettiva.

Eppure questi giovani sono proprio i figli della società che noi stessi abbiamo costruito, una società dell’immagine, dell’apparire, brutalmente deformata dalla lente della pubblicità e dei media, sono i figli della realtà virtuale, di Maria de Filippi e Paperissima, di Facebook e della Wii, sono le veline, i campioni di karaoke, sono cittadini di “play station city ” completamente succubi della tirannia dello “show” ricreata dentro gli schermi dei computer, delle televisioni, un mondo insomma dove la sola realtà è lo spettacolo.

Vivono dentro quei modelli superficiali ed egoisti esibiti a bella posta in ogni angolo del sistema, nutrendosi del kechup parossistico e magico del consumo, nella totale vertigine della realtà, un simulacro del vero dove possono liberamente manipolare la banalità del reale con un affresco personalistico del mondo, e proprio nella clausura del loro palcoscenico divorano le emozioni dell’essere virtuale dove tutti possono avere tutto e subito, possono essere eroi, cavalieri, campioni, amanti, possono essere Herry Potter o Armageddon, una sacralità dove vige la dittatura dell’eguaglianza sconfinata e democratica del possibile, qui e ora. Il crimine perfetto è compiuto, la realtà è morta definitivamente con un colpo di joystik, la bacchetta magica del potere, il totem assoluto ed onnipotente che come la spada di re Artù rende invincibili ed eterni.

Come le rivoluzioni industriali hanno cambiato il corso della storia così, nel nostro tempo, la rivoluzione dell’immagine ha cambiato la nostra società operando una mutazione antropologica del cittadino di domani, una specie animale geneticamente modificata rispetto ai figli della guerra che furono i nostri genitori, solo sessant’anni fa. Sono loro, i giovani, che vedono esplodere alienazione e rabbia per essere esclusi dai banchetti grassi del consumo, per una vita che li vede protagonisti assoluti del virtuale e spettatori impotenti nel villaggio globale.

Reclamano il loro posto al sole nel bazar mondiale dell’abbondanza, nella terra promessa di quella classe dominante che trasforma sistematicamente il proprio tempo in denaro, ed il proprio denaro in possesso, per essere, in definitiva, assunti a tempo indeterminato negli immensi giacimenti di manodopera gratuita del consumo. Per questo hanno messo in scena la violenza del branco, la devastazione selvaggia condita dal fascino ipnotico della spettacolarizzazione, hanno messo in scena il protagonismo da palcoscenico mediatico, la droga del terzo millennio, nel disperato tentativo di liberare le loro frustrazioni, di coagulare l’aggregato delle loro solitudini, per nutrirsi dell’eccitazione di essere loro stessi videogioco in cui guardarsi ed apparire, finalmente, dentro lo schermo e non di fronte.

Sconfiggere i mostri oppressivi della società capitalista, questa sembra essere la regola, conformati nella divisa nera e manipolando il joystick di loro stessi vogliono sentirsi liberi di assoggettarsi alle regole del consumismo, di sedersi a pieno titolo a quella mensa dell’abbondanza che li esclude, liberi di trovare in qualche posto nel mondo, quell’approvazione e sicurezza che il loro carattere eterodiretto necessita.

Accettarne la presenza per noi è difficile, è una macchia nera nella massa incolore della quotidianità, un fastidio che forse ci ricorda come una parte del problema sia proprio in noi stessi, in quella società dell’immagine che ha violentato e cancellato i principi forti, ed a volte un po’ rudi, della realtà del mondo, una complicazione insomma che per comodità abbiamo frettolosamente etichettato come “delinquente e criminale “ per poterla quanto prima ricacciare nel fondo dell’inconscio sociale. Per ora.

Claudio Donini per alfadixit.




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