giovedì 11 maggio 2023 - Phastidio

Il debito al collo di un paese che si spopola

Cosa accade quando un paese poco produttivo e in depressione demografica incontra una stretta monetaria globale. Meglio non cullarsi nell'illusione che il nostro debito resterà sostenibile

 

Il Documento di economia e finanza è una vera miniera di numeri, se solo si ha il tempo e la pazienza di compulsarli e comprenderli. Sul Sole del 18 aprile ci sono due articoli a firma di Gianni Trovati che ci aiutano a prendere consapevolezza del trauma che un ciclo di rialzo dei rendimenti infligge a un paese sovraindebitato e che si sta estinguendo, a livello demografico.

A premessa di tutto, un avvertimento metodologico: le stime e le previsioni sono, appunto, stime e previsioni. Basate su modelli econometrici che, al solito, indicano direzione di marcia e velocità dal punto attuale. All’allungarsi del periodo di previsione, l’errore ad essa relativo cresce in modo rilevante. Non è tuttavia un buon motivo per liquidare questi numeri come sterili esercizi scritti sull’acqua. Non foss’altro perché anche i mercati guardano quei numeri e, quando si fanno una sceneggiatura, possono rapidamente scatenare una tempesta.

Partiamo dalla spesa per interessi, non prima di aver ribadito che nel DEF c’è un numero pesantissimo, peraltro già presente nella Nota di aggiornamento dello scorso autunno: un avanzo primario al 2% del Pil al 2026. I famosi 45 miliardi di euro sottratti all’economia del paese, e immolati all’assenza di crescita e alla crisi demografica per continuare a mandare il messaggio che l’Italia è solvibile.

PRIMATISTI DI SPESA PER INTERESSI

Torniamo anche alle previsioni sulla spesa per interessi. Nel 2024 è prevista al 4,1% del Pil, per poi salire al 4,2% e al 4,5% nel 2025 e 2026. Riproduco integralmente questo passaggio del pezzo di Trovati per dare la misura di cosa stiamo parlando:

Tradotta in euro, la corsa della spesa [per interessi, ndPh.] suona così: 75,6 miliardi quest’anno, 85,2 il prossimo, 91,6 miliardi e 100,6 nei due anni successivi. Somma enorme, tanto più se confrontata con quelle che per esempio il bilancio dello Stato dedica all’istruzione (52,1 miliardi), alle politiche sociali e alla famiglia (60,7 miliardi), al lavoro (19,4 miliardi), allo sviluppo delle imprese (40,7 miliardi) o all’energia (20,5 miliardi).

Questa è la misura del costo opportunità di un elevato stock di debito. Se vogliamo tradurla in costo pro capite, agli italiani noi le cedole dei titoli di Stato costeranno nel 2024 ben 1.398 euro a cranio. In termini pro capite e in rapporto al Pil, l’Italia è sul primo gradino del podio in Europa e in tutti i paesi sviluppati. La media Ue (e dell’Eurozona) della spesa per interessi è a 1,9% del Pil e 715,5 euro pro capite. Con una complessa inferenza, siamo al doppio. Negli Stati Uniti, la spesa per interessi vale 1,35% del Pil.

Il punto vero, di lungo termine, è però un altro: come rendere sostenibile uno stock di debito in un paese che sta perdendo popolazione e manifesta un tasso di dipendenza (rapporto tra pensionati e lavoratori) in costante ascesa? La risposta, data su uno scenario inerziale, è che la sostenibilità del nostro debito pubblico sta deteriorandosi, inesorabilmente. Per contrastarla, sempre ragionando su scenari di lungo termine, dovremmo puntare a forti aumenti di produttività, oltre che almeno all’aumento delle coorti di popolazione attiva.

Puntare solo al secondo è condizione necessaria ma insufficiente, soprattutto se immaginiamo di importare lavoratori non qualificati mentre stiamo perdendo italiani con istruzione media più elevata degli ingressi. Servirebbe anche da noi una politica immigratoria centrata su aspetti qualitativi (competenze) oltre che quantitativi. Ovviamente, ammesso e non concesso di avere un ecosistema produttivo che richieda competenze. C’è chi lo sta facendo, in Europa.

I COSTOSI SCOSTAMENTI

L’altro articolo di Trovati richiama l’attenzione sulla relazione al parlamento sugli effetti finanziari di lungo termine dello scostamento di deficit, tra tendenziale e programmatico. Come sappiamo, nel 2023 il governo ha previsto uno scostamento dello 0,15 del Pil, pari a 3,4 miliardi, e uno di 4,5 miliardi nel 2024. Lo scostamento di quest’anno andrà ad aumentare la decontribuzione per i redditi bassi e medio-bassi. Una decina di miliardi equivalenti su base annua, al lordo dell’Irpef (netti sarebbero circa 7,7 miliardi) con scadenza il prossimo 31 dicembre.

Lo scostamento del prossimo anno, invece, è destinato nelle intenzioni del governo ad essere una vera e propria cornucopia o una sorta di lievito di denaro per la pentola in fondo all’arcobaleno. Leggere per credere:

[Lo scostamento] sarà destinato al Fondo per la riduzione della pressione fiscale, al finanziamento delle cosiddette politiche invariate a partire dal 2024 e alla continuazione del taglio della pressione fiscale nel 2025-2026, e concorrerà a una significativa revisione della spesa pubblica e a una maggiore intesa tra fisco e contribuente.

Vaste programme. Soprattutto per la parte relativa alla “significativa” spending review. Che diverrà esigenza vitale in presenza della lievitazione della spesa per interessi. Per ora, l’esecutivo Meloni ha messo mano al capitolo di “revisione” di spesa a cui puntava in campagna elettorale, e cioè il reddito di cittadinanza. Senza entrare in meriti (e demeriti) di questa iniziativa, il risparmio difficilmente eccederà i due miliardi di euro. Sapendo che l’anno prossimo serviranno, secondo alcune stime, non meno di 20 miliardi per il cuneo contributivo, la cosiddetta riforma delle pensioni e l’avvio di quella fiscale (auguri a tutti), la strada è lunga, impervia e piena di crepacci ricoperti da fogliame.

Torniamo alla relazione del MEF alle Camere sul costo degli scostamenti. È costruita come stima della maggiore spesa per interessi, su un arco di nove anni (quindi con margine di errore molto alto) per finanziare lo scostamento. Leggiamo che accade, secondo la relazione, per finanziare gli scostamenti del 2023 e 2024:

Dal 2025 al 2033 […], il mantenimento del deficit al 4,5% del Pil nel 2023 e al 3,7% nel 2024 (contro il 4,35% e il 3,5% segnati sui due anni dal tendenziale) produrrà nei nove anni successivi una maggior spesa per interessi da 3,729 miliardi. In pratica, in quest’arco di tempo il mini-ritocco del deficit produce costi pari al 47,2% del suo valore.

A euro correnti, il finanziamento a deficit dello scostamento lordo di 7,9 miliardi del 2023 e 2024, sulla base delle previsioni sul costo del debito, costa quasi il 50% di tale scostamento. È finita l’era del tasso zero. Dovrebbe iniziare quella della consapevolezza dei costi opportunità degli scostamenti di bilancio. Per avere un elemento di confronto, si guardi al mega scostamento da Covid del 2020: pari a 411,5 miliardi su arco pluriennale, è costato in spesa per interessi solo 38 miliardi aggiuntivi, un misero 9%.

BASTA BENGODISMO

Era l’era dei tassi a zero e negativi, ricordate? Quello scostamento era una sorta di paese di Bengodi, quello che ha prodotto teorizzazioni politiche “bengodiste” che ancora oggi si aggirano tra le piazze smarrite al grido di “gratuitamente”. Andò a finanziare il cosiddetto Decreto Rilancio, la cancellazione delle clausole di salvaguardia Iva, il finanziamento massivo della cassa integrazione in deroga, il famigerato Superbonus e tutte le altre caramelle lanciate al popolo spaventato.

Quell’era l’abbiamo alle spalle. Prima capiremo che, con questo stock di debito, ogni incidente di percorso rischia di trasformarsi in una crisi finanziaria ben prima che i tassi globali tornino a scendere, meglio sarà. Senza scordare quello che evidenzio ormai da anni: la depressione demografica del paese è tale da erodere in modo inesorabile la sostenibilità del nostro debito pubblico. Un effetto tenaglia che rende il percorso sempre più stretto. Però proseguite a dire che sono anni che lancio allarmi ma malgrado ciò “non è ancora morto nessuno”, mi raccomando.

Foto di Peter H da Pixabay




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