lunedì 2 febbraio 2009 - Phastidio

Il contabile etico ma anche creativo

Parlando a Davos nei giorni scorsi, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti ha illustrato la sua formidabile ricetta per risolvere la crisi dei titoli tossici che stanno uccidendo i bilanci delle banche e la fiducia del sistema finanziario globale. Mentre gli americani si sono ficcati nell’ennesimo cul de sac di tutta questa vicenda, riesumando l’idea originaria del Piano Paulson (che a sua volta l’aveva mutuata da Citigroup) di rimuovere i titoli dai bilanci facendoli acquistare dal settore pubblico, Tremonti ha trovato il proiettile d’argento per salvare il mondo dal mostro: un’ossimorica bad bank interna alle banche.

Vai con l’incipit:

Se vogliamo trovare una via d’uscita la soluzione non è il capitale, ma la regolamentazione contro l’anarchia finanziaria”.

Beh, diciamo che le due cose potrebbero e dovrebbero tenersi, visto che il problema dei sistemi bancari anglosassoni, in questo momento, è di essere tecnicamente falliti, il che significa che occorre dapprima liberarsi dei titoli tossici (e ciò ne quantificherebbe definitivamente le perdite), poi ricapitalizzare almeno le banche che possono restare in vita conservando una propria redditività operativa, poi ripartire con un quadro regolatorio nuovo, sperando di non commettere troppi errori nel percorso. Non è che solo per effetto di nuove regole le banche si ricapitalizzerebbero nel corso di una notte, per intenderci.

Tremonti prosegue affrontando il tema della Bad Bank, che per definizione sarebbe un contenitore dove si pongono gli attivi tossici: logica suggerisce che siffatta struttura sarebbe finanziata in misura pressoché esclusiva da soldi dei contribuenti. Per il ministro italiano la proposta è valida tranne che per quest’ultimo aspetto: non devono essere i contribuenti a pagare. E allora, vi chiederete, come diavolo si fa a creare una bad bank senza soldi pubblici? Semplice, dice Tremonti, si deve

Sterilizzare questi asset, che non si sa quanto valgono, con una regola contabile”. In pratica, spiega Tremonti, ”una sorta di segregazione, anche per 50 anni, mettendoli da parte”.

Prego? Allora, andiamo con ordine. Prendete il bilancio-tipo di una banca, come questo. L’attivo contiene evidentemente gli investimenti, compresi quelli avariati e tossici. Questo attivo è finanziato da passività, che possono essere depositi della clientela, prestiti interbancari o erogati dalla banca centrale (anche sotto forma di operazioni di pronti contro termine), emissione di passività obbligazionarie. L’eventuale perdita di esercizio della banca, che potrebbe derivare da svalutazioni di crediti inesigibili ed altri attivi, verrà addebitata ai mezzi propri, cioè al capitale dei soci. E’ del tutto evidente che se le perdite sono sostanziali (ad esempio perché gran parte dei titoli vale un’esigua frazione di quanto contabilizzato all’attivo di bilancio), la banca rischia di annichilire i mezzi propri, nel qual caso dovrà raccogliere nuovo capitale o dichiarare la propria insolvenza. Riprendete l’esempio linkato, e immaginate di scoprire che la voce Securities, iscritta in attivo per 500 milioni, vale in realtà 100 milioni. Abbiamo una svalutazione di attivi per 400 milioni che deve essere imputata, via conto economico, alla voce Shareholders’ Equity. Ma quest’ultima vale solo 250 milioni. Quindi, o la banca emette nuove azioni per ricostituire il capitale bruciato dalla perdita, oppure fallisce.

Il problema dei titoli tossici è l’impossibilità del mercato a valutarli correttamente. Quindi la proposta di Tremonti potrebbe essere utile? Assolutamente no. In primo luogo perché, se i titoli tossici restano nell’attivo della banca, devono comunque essere finanziati. Ma soprattutto, poiché il mercato è graniticamente convinto che il loro valore di rimborso sarà molto basso, al limite dello zero, il mercato medesimo continuerà a scontare tale evento ed a considerare la banca insolvente o più propriamente fallita. Dall’inizio della crisi le banche americane hanno tentato di aggirare il problema in molti modi. Ad esempio conferendo titoli privi di prezzi osservabili di mercato al cosiddetto Level 3, cioè ad un pool di attivi che vengono prezzati in base a modelli proprietari della banca. Non a caso questa metodologia, contrapposta al mark-to-market, viene ribattezata dai critici “mark-to-dream” o “mark-to-fantasy“.

Un’alternativa potrebbe consistere nello spostare i titoli tossici nell’attivo immobilizzato, detenendoli fino a scadenza. Sono i cosiddetti titoli Held To Maturity, che possono essere iscritti a bilancio al costo storico rettificato. Ma anche in questo caso, poiché il mercato non è sempre stupido, il problema si riproporrebbe, ed il giochino di attivi gonfiati da carta tossica con valore di realizzo o rimborso pari ad una frazione di quanto iscritto a bilancio continuerebbe a pendere come una minacciosa Spada di Damocle sulla testa delle banche e dell’economia. Quindi la “regola contabile” per “sterilizzare” i titoli tossici invocata da Tremonti esiste ed è già stata infruttuosamente provata. Contrariamente a quanto il nostro ministro pensa, in giro per il mondo non ci sono solo sprovveduti.

Perché Tremonti fa proposte palesemente prive di senso, e soprattutto perché le fa in consessi così mondanamente impegnativi come Davos? Mistero. Come è un mistero il motivo per il quale nessuno alza la paletta e segnala al ministro le corbellerie che dice. Resta comunque il caratteristico marchio di fabbrica del personaggio: oggi sempre più “etico”, ma altrettanto incline alla sua grande passione, la contabilità creativa.

Due dimensioni che da sempre coesistono in Tremonti, malgrado la loro lieve contradditorietà nel mondo reale. Come quando invoca a gran voce una non meglio specificata “ristrutturazione morale” (e moralistica) dell’economia, e contemporaneamente dichiara alla stampa estera che l’Italia non è messa poi così male perché ha un’economia sommersa (l’antitesi della “moralità” indotta dal rispetto e dall’enforcement delle regole del gioco) di rilevanti dimensioni. Abbiamo inventato l’etica à la carte, in definitiva. Poi ci lamentiamo se all’estero non riescono a prenderci sul serio.




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