mercoledì 25 luglio 2012 - Professional Consumer

Il Mainstream della crisi

Si dice Mainstream. Così si chiama la corrente principale della teoria economica contemporanea. Confeziona la regola per l' "equilibrio naturale” di una economia di mercato; ha redatto ed ancor redige principi che hanno conformato le scelte politiche di chi non ha intravisto la crisi, non ne governa lo svolgimento né ne individua le vie d’uscita.

Cos’è, cosa dice, Emiliano Brancaccio in un'intervista sulle tracce del suo libro "Anti-Blanchard" sostiene: “Stando a questo modello, le variazioni dei salari e dei prezzi generano una serie di effetti su tutti i mercati che spingono l’economia a convergere spontaneamente verso il cosiddetto livello di “disoccupazione naturale”. In particolare, una riduzione dei salari monetari comporterà una pari riduzione dei costi di produzione e quindi anche un calo dei prezzi, dal quale scaturiranno due effetti: in primo luogo, un aumento del potere d’acquisto delle scorte di moneta e quindi un aumento diretto o indiretto della domanda interna di merci; in secondo luogo, nel caso di un’economia aperta agli scambi internazionali, anche un aumento della competitività delle merci nazionali e un conseguente incremento della domanda proveniente dall’estero. Rilanciando le spese e la produzione i due effetti dovrebbero riportare il sistema in equilibrio.”

Dovrebbero? Orbene, dal momento che tali regole sono agenti, sottoponiamo il modello alla verifica dei fatti. Reggerà? Non regge: di primo acchito i portafogli sgonfi mostrano la riduzione, già in atto da molti anni, del salario monetario (quantità di denaro che si riceve mensilmente per aver prestato lavoro subordinato. Si contrappone al "salario reale", che è dato dal rapporto tra questa somma di denaro e il livello generale dei prezzi. Il "salario reale" descrive dunque il potere d'acquisto del lavoratore; il "salario monetario" non tiene invece conto del livello generale dei prezzi).

Lo conclamano tutte le statistiche di ogni ordine e grado mentre espongono, alla faccia della riduzione dei prezzi, il grado d’inflazione.

Facciamo finta di nulla, procediamo: aumento del potere d’acquisto delle scorte di moneta.

Bene, quando tutto quel che serve per vivere si è fatto merce da acquistare ogni giorno, avranno i “salariati” risparmio in cassa da rivalutare? E quelli neo salariati, già ceto medio? Quello messo al pizzo dai reduci di quel ceto, timorati del domani, verrà speso oggi? Si può contare su quello dei pochi che hanno di più, proprio quelli della bassa propensione al consumo?

Qualcuno ha intravisto un aumento della domanda?

Poi c’è l’altro effetto: il vantaggio della riduzione dei costi che si acquisisce nella competizione internazionale.

Se in casa e fuori tutti competono, e tutti competono, qual vantaggio può dirsi acquisito?

Si intravvede in giro un rilancio della spesa, della produzione dell’occupazione (a maggio 2012 sono 47,7 milioni i disoccupati nell'area Ocse,14 milioni in più rispetto a maggio 2008)?

Così si è fatta la crisi; così la crisi si rende perpetua!

 




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