lunedì 5 agosto 2013 - Segnali di fumo

I Sarayaku in Amazzonia e la lotta dei popoli popoli nativi nel mondo

Eriberto parla con pacatezza, ma la sua voce è ferma e le sue parole pesano come macigni sulla coscienza di un mondo che, fin dai tempi dei conquistadores spagnoli, non ha mai smesso di porre serie minacce alla sopravvivenza fisica e culturale delle popolazioni native del continente americano.

Eriberto Gualinga è un membro della comunità nativa dei Sarayaku, che vive in Ecuador, e ha attraversato la foresta e poi l’Oceano Atlantico per venire in Europa, a Milano, dove, in una grande sala riunioni, numerosi attivisti di Amnesty International, simpatizzanti dell’Associazione e curiosi si sono riuniti per ascoltare il suo racconto.

 Eriberto è venuto a dar voce a tutte quelle persone che, in Amazzonia, continuano a combattere per la difesa del proprio ambiente e della propria cultura, contro grandi progetti estrattivi e infrastrutturali condotti in nome di un rassicurante quanto ambiguo concetto di “sviluppo”, proprio come i loro antenati e quelli di tanti popoli nativi ormai definitivamente scomparsi si batterono contro guerrieri venuti da lontano per imporre la propria religione, la propria visione del mondo e il proprio modello di società.

Cambiano le motivazioni ufficiali, ma le vere ragioni per le quali i territori in cui risiedono da millenni le popolazioni native continuano a rivestire un elevato interesse per il mondo circostante sono sempre le stesse: le immense ricchezze del sottosuolo, ieri l’oro, oggi il petrolio (il cosiddetto “oro nero”) e altri materiali preziosi per l’industria.

Numerosi rapporti di Amnesty International denunciano il fatto che i governi di quasi tutti i Paesi del continente americano continuano a discriminare le popolazioni tribali, negando il loro diritto a essere consultate nei processi decisionali relativi a interventi che riguardano il loro territorio e che potrebbero comportare conseguenze devastanti per la sopravvivenza della loro cultura. Autostrade, oleodotti, dighe e miniere a cielo aperto sono alcuni esempi di “progetti di sviluppo” che i governi continuano a realizzare all’interno o in prossimità di territori in cui risiedono popolazioni native, senza tenere in adeguata considerazione le ricadute che tali interventi possono avere sulla vita di migliaia di persone.

In Canada la comunità HTG ha in corso dei negoziati ultraventennali con il governo federale e della Columbia Britannica per il riconoscimento dei propri territori tradizionali, che le imprese estrattive continuano a sfruttare, acquistare e vendere. In Messico la comunità nativa dei Wixárika chiede da anni al governo di revocare le concessioni estrattive nella regione di Wirikuta, da loro considerata sacra e meta di pellegrinaggio. In Guatemala le attività di numerose aziende estrattive hanno sconvolto l’esistenza di decine di comunità Maya. In Colombia la comunità Wiwa è stata costretta con la violenza ad abbandonare le proprie terre ancestrali, inondate dalle acque di una diga nel 2010.

Anche in Brasile è la realizzazione in corso di una diga (la diga di Belo Monte) a minacciare l’incolumità di diverse popolazioni native dell’area amazzonica. In Paraguay da oltre vent’anni la comunità degli Yakye Axa è stata privata delle proprie terre ancestrali ed è ora costretta a vivere in difficili condizioni lungo un’autostrada. In Argentina i Toba Qom si stanno battendo da anni contro il progetto governativo di realizzare un campus universitario su un’area del proprio territorio, progetto che, secondo la comunità, avrebbe un impatto rilevante sul loro stile di vita.

Si potrebbe continuare ancora molto a lungo con gli esempi di simili violazioni dei diritti umani. Nella maggioranza dei casi, ai nativi non viene nemmeno riconosciuto giuridicamente il diritto a vivere sulla terra dalla quale dipende la loro sopravvivenza e a utilizzare le risorse che per secoli hanno gestito in maniera sostenibile. Tali risorse sono spesso sfruttate da soggetti stranieri con scarsi vantaggi per la gente locale e con poca attenzione alla tutela dell’ambiente.

Chiediamoci cosa succederebbe nel mondo cristiano se delle compagnie estrattive avviassero le proprie attività in prossimità del Santo Sepolcro, oppure nel mondo islamico se ciò avvenisse a La Mecca. Oppure come reagiremmo noi se, d’improvviso, il nostro giardino o i parchi della nostra città fossero occupati da soldati armati fino ai denti per proteggere le attività di compagnie intente a condurre prospezioni geologiche. È quello che è successo ai Sarayku, il popolo di Eriberto, una comunità nativa di 1.200 persone che vive nell’omonimo villaggio, nella foresta amazzonica dell’Ecuador.

Nel 2002 i Sarayaku hanno visto calare dal cielo elicotteri carichi di soldati che, con i mitra spianati, hanno cominciato a restringere la loro libertà di movimento sul proprio territorio. A loro insaputa, infatti, la compagnia petrolifera argentina CGC (Compañía General de Combustibles) aveva ricevuto dal governo dell’Ecuador l’autorizzazione ad accedere al loro territorio per condurre trivellazioni alla ricerca di petrolio. L’attività della CGC, condotta anche attraverso l’utilizzo di esplosivi e la realizzazione di sette eliporti, ha condotto alla devastazione di ampie porzioni di territorio: sono stati distrutti fiumi sotterranei che rappresentavano indispensabili fonti d’acqua per tutte le necessità quotidiane della comunità; sono stati abbattuti alberi di grande valore ambientale e culturale e fonte di sostentamento per i Sarayaku.

Alcuni dei siti compromessi rivestivano una grande importanza per la cultura e la spiritualità della comunità: è per esempio il caso del bosco sacro chiamato “Pingullu”, l’unica area dove cresceva una varietà di pianta (denominata “Lispungu”) utilizzata dai Sarayaku per la preparazione di rimedi medicali. “Non ho più nulla con cui curare la mia famiglia e la gente del villaggio”, ha affermato il vecchio sciamano Cesar Vargas, dopo che i dipendenti della compagnia petrolifera erano entrati nel bosco sacro, abbattendo tutti gli esemplari di Lispungu. Le attività della CGC hanno causato la sospensione, in alcuni periodi, di incontri culturali e cerimonie ancestrali, come la Uyantsa, la festa più importante che si svolge ogni anno a febbraio, nonché le cerimonie di iniziazione dalla giovinezza all’età adulta, da sempre celebrate in siti di rilevanza spirituale interessati dalle attività di prospezione.

Ma i diritti delle popolazioni locali non sono minacciati soltanto nel continente americano. In Africa il fenomeno del land grabbing sta sottraendo a milioni di persone i terreni dai quali dipendono da sempre per il proprio sostentamento. Nella regione del Delta del Niger, in Nigeria, dove le principali compagnie petrolifere europee estraggono petrolio da circa sessant’anni, l’inadeguata manutenzione degli oleodotti e la violazione costante della legislazione nigeriana, che vieta di bruciare a cielo aperto il gas associato all’estrazione, comportano la sistematica devastazione di un ambiente naturale un tempo tra i più ricchi di biodiversità del mondo, spingendo sempre più le comunità locali nella miseria e nella disperazione e fomentando la violenza.

Anche in Asia decine di milioni di persone sono minacciate da grandi progetti economici. È per esempio il caso della cosiddetta “fascia tribale” dell’India, un’area di foreste che si estende per migliaia di chilometri nell’India centro-orientale (dal Bengala Occidentale, attraverso il Jharkhand e l’Orissa fino al Chhattisgarh), dove i governi degli Stati indiani, nel corso dell’ultimo decennio, hanno già assegnato a grandi compagnie estrattive i territori su cui abitano da migliaia di anni le popolazioni tribali (adivasi).

Nel 2006 a Lanjigarh, un villaggio sito in un’area rurale dello Stato indiano dell’Orissa, è stata avviata l’attività di una raffineria di bauxite (per la produzione di alluminio) operata da una multinazionale estrattiva britannica. L’attività di tale impianto, che è stato realizzato su terreni un tempo utilizzati per attività agricole e forzosamente sottratti alle locali comunità adivasi dei Dongria Kondh, ha causato gravi fenomeni di inquinamento dell’ambiente circostante: periodiche fuoriuscite di sostanze tossiche hanno contaminato il fiume Vamsadhara, principale fonte d’acqua per tutte le necessità quotidiane delle popolazioni locali. L’inquinamento riguarda anche l’aria, con la diffusione della polvere di bauxite dai depositi della raffineria e dai camion carichi di materiale che attraversano i villaggi circostanti.

Nel 2008 il Ministero dello Sviluppo e delle Foreste indiano (MoEF) ha rilasciato l’autorizzazione per la sestuplicazione delle dimensioni della raffineria, nonché per la realizzazione di una miniera di bauxite estesa su un’area di 670 ettari posta sulla sommità delle prospicienti colline di Niyamgiri. La cima boscosa delle colline di Niyamgiri è da sempre territorio sacro per i Dongria Kondh, perché lassù vive il loro dio, Niyam Raja Penu: il taglio degli alberi e l’avvio di attività estrattive su quel territorio sarebbe vissuto dalla comunità come una profanazione.

(continua la prossima settimana)

Riccardo Facchini

Fonte: www.sagarana.net

 

Foto: Lubasi/Flickr




Lasciare un commento