sabato 8 giugno 2019 - Anna Maria Iozzi

Giulio Scarpati, una vita tra teatro e fiction di successo

Noto per il ruolo del dottor Lele Martini nella fiction di successo “Un Medico in Famiglia”, Giulio Scarpati si racconta in questa intervista esclusiva, ripercorrendo i suoi esordi teatrali, cinematografici e i suoi progetti futuri.

Lei ha debuttato a teatro nel 1977, proponendo fino al 1983 con la Cooperativa Teatro G, le opere di Carlo Goldoni, Johann Wolfgang von Goethe e Denis Diderot.

“Il debutto vero e proprio è avvenuto tra il 1968, 1969, quando ero bambino, a Roma, al teatro delle Muse e fu la prima volta che salii sul palcoscenico. Questa compagnia di esuli argentini aveva bisogno di un bambino. Un’attrice lavorava nel mio palazzo e chiesi ai miei se potevano farmi fare questa esperienza. Feci il mio debutto al teatro delle Muse a Roma. Lì, fu il primo incontro con il teatro. Negli anni successivi, nel 1977, ero entrato in una cooperativa teatrale e continuai a fare spettacoli, in tante situazioni particolari, in ospedali psichiatrici, carceri. In quegli anni, c’era uno spirito pioneristico di portare in teatro dove non c’era.”

Com’è avvenuta la passione per il teatro?

“È nato tutto con questo spettacolo a 13 anni. Ho cominciato a ragionare con questa esperienza e ad assaporare il piacere del palcoscenico. Lì, si è formato in me questo desiderio di continuare a farlo. Dopo questa esperienza a dodici anni, sono entrato in questa compagnia teatrale, e da lì è cominciato un percorso formativo. Alla fine, ho deciso di fare teatro e altre cose. Ero iscritto a Giurisprudenza. Tra il teatro e Giurisprudenza, volevo fare il teatro. Mi sono buttato nella mischia, e dopo ci sono stati i teatri, quelli ufficiali, il teatro Stabile dell’Aquila nel 1981, e da lì è partita la mia avventura teatrale. Tutto è nato da questo incontro causale che ho fatto con il teatro a dodici anni.”

Che ricordi ha del suo debutto cinematografico?

“Fu un’esperienza particolare. Era il primo film in assoluto, “Il lungo inverno” di Ivo Micheli, che fu girato qui, al confine con l’Austria. Era una storia abbastanza coinvolgente, forte. Prima di questo film, avevo fatto altre piccole esperienze. La prima volta era a quel film, in cui ero protagonista. C’era una responsabilità enorme, perché ero molto giovane. Lì, ho cominciato a vedere quello che era la bellezza del cinema. Non è come il teatro, che fai tutto in diretta. Nel cinema, invece, è diverso. Non è così semplice costruirsi bene un percorso. Devi avere sempre presente il racconto che stai facendo. In teatro, hai la continuità, perché parti dalla prima fino alla quarta scena di seguito. È tutto in diretta con il pubblico. È una cosa diversa. Fu un’esperienza bellissima. La cosa che imparai subito è che un ritardo di tre minuti è consistente al cinema. Nella vita, può sembrare diverso. Lì, invece, è tutto congeniato. Bisogna essere molto puntuali. E da allora, lo sono sempre stato.”

Nella sua carriera, vanta preziosi riconoscimenti, come quello conferito da Giorgio Strehler come miglior artista emergente nel 1989, e altri, per il film “Il giudice ragazzino” del 1994, in cui ha interpretato il ruolo del giudice siciliano Rosario Livatino, ucciso dalla mafia nel 1990. Qual è stata la sua esperienza cinematografica più positiva?

“Questa del giudice ragazzino di Rosario Livatino fu un’esperienza, forte, importante, perché girammo il film tre anni dopo la morte. A distanza di poco tempo dalla sua uccisione, mi sentivo molto coinvolto. Avevo la responsabilità con i genitori di raccontare la storia di loro figlio. Era un impegno in più. La storia di Rosario era terribile, drammatica, violenta, perché era stato ucciso dalla Stidda. Ero emotivamente coinvolto dalla storia. C’era la responsabilità che questa persona era realmente esistita. Non è come una fiction che parli di personaggi che non sono esistiti. Questi non hanno nessun tipo di responsabilità, rispetto a quella avuta nei confronti di chi, invece, ha conosciuto Livatino e i genitori. Quella fu l’esperienza professionale che mi ha dato il David di Donatello, l’Efebo. Insomma, vinsi un sacco di premi. Fu, umanamente, l’esperienza più forte. Ricordo l’incontro che avvenne in Sicilia con i genitori alla fine del film. Fu uno degli incontri più toccanti che mi è capitato di avere tramite il mio lavoro. Per tanti anni, ancora adesso, ogni volta che si nomina Rosario, mi giro, perché è una cosa che mi riguarda. È stata una bellissima esperienza. Ancora adesso, ho rapporti con tutti quelli dell’associazione di Livatino, a Canicattì, ad Agrigento. È rimasto un legame forte quando racconti persone che hanno avuto questo coraggio. Ti cambiano la vita, perché sono storie toccanti, forti. Ne esci per forza coinvolto e cambiato, perché vedi da vicino certe storie che, magari, si leggono soltanto sui giornali. Quando devi interpretare un personaggio, devi conoscere bene le cose. Hai la fortuna di trovare queste persone straordinarie, come mi è capitato per altri ruoli, per cose non necessariamente cruente come questa. È una storia forte, una cosa ti entra dentro che, difficilmente, te ne separi.”

Nel 2001, ha recitato nella miniserie “Cuore”, tratta dall’opera di Edmondo De Amicis. Delle esperienze televisive in fiction di successo, qual è quella a cui è rimasto maggiormente legato?

“Il rapporto con i ragazzini di Cuore che erano bravissimi, carini. Erano dei bambini che si affacciavano, per la prima volta, a questo mondo. C’era un grandissimo rapporto con loro. È stata un’esperienza bella. C’era Leo Gullotta, che faceva il preside, Anna Valle, la maestra. È stato coinvolgente fare Cuore. Le storie di Cuore sono appassionanti. È stata una bella esperienza, girata a Torino, perché hanno investito molto in questo progetto importante di Canale 5. Le ricostruzioni dei luoghi, dei costumi e della scenografia erano perfette.”

Oltre alle sue partecipazioni teatrali e cinematografiche, è noto per aver preso parte alla nota fiction di successo “Un medico in famiglia”, con Lino Banfi, Milena Vukotic, Claudia Pandolfi, Ugo Dighero e tanti altri. Che ricordi serba di quell’esperienza che l’ha vista protagonista per alcune serie?

“Il Medico è durato vent’anni. Le prime serie sono state lunghe. La prima era doppia. Abbiamo girato per quattordici mesi di fila. Si è creato un rapporto con i ragazzini che sono, adesso, cresciuti. C'erano, tra di noi, Ugo Dighero, Lino, Lunetta Savino, Enrico Brignano. Per rappresentare una famiglia, devi avere dei legami forti. Devi raccontarli bene, per cui si è creato un grosso rapporto con tutti quanti noi sul set. Era molto piacevole e anche molto faticoso, perché la tv ha dei ritmi abbastanza forti. Il fatto che fossimo in armonia faceva passare le ore, senza sentire la fatica. È stata una bellissima esperienza veder crescere quelle persone. È bello vedere quell’aspetto che il pubblico ha mostrato alla serie nel personaggio di Lele Martini, come quando ti dicono: “sono cresciuto con lei”. Questo mi fa molto piacere, perché sei entrato nella loro vita, attraverso una fiction. Li hai accompagnati nei primi anni con questa idea di famiglia unita che si voleva sempre bene. Era un modo per cercare di raccontare la parte positiva della vita. È stata una grande esperienza, durata vent’anni. Anche se io ho fatto un po' di interruzioni, perché il coinvolgimento era tale. Era una cosa prolungata nel tempo. La cosa più bella è vedere crescere le persone e, contemporaneamente, vederti crescere, perché, come cresceva il personaggio di Lele come età, crescevo anch’io. Insomma, eravamo in parallelo.”

Ha portato in teatro “Una giornata particolare”, capolavoro cinematografico di Ettore Scola, con Sofia Loren e Marcello Mastroianni. Come si è preparato per questa rappresentazione?

“Era uno dei miei film preferiti, quello che amavo di più di Ettore Scola, con cui avevo avuto la fortuna di aver lavorato in un film. Si era creata una certa amicizia. Era da un po' che mi era venuta in mente l’idea di portare in teatro una giornata particolare. Come film era molto teatrale, perché si svolgeva in quel palazzo in un’unica giornata. Ho parlato con Ettore, per chiedere di poterlo fare e di avere il via libera. E, da quel momento in poi, c’era la fatica di doverti confrontare con un precedente cinematografico e non teatrale così illustre come quello di Marcello Mastroianni e Sofia Loren. Da una parte, avevi un compito. Dall’altra, un confronto molto forte. Devo dire che la trasposizione teatrale è diversa, non perché non cambi niente. Il teatro è diverso rispetto al film, perché non ci sono i primi piani. È stata una bella cosa che il pubblico ha molto apprezzato, tanto che lo abbiamo fatto per tre stagioni di fila. Siamo arrivati a 185 repliche. Insomma, una bella cosa. Quest’anno, abbiamo fatto il “Misantropo” di Molière. È un’altra bella sfida con un classico che, il prossimo anno, porteremo in scena a Firenze. Abbiamo fatto Roma, facciamo altre città, con il tempo di passare da un testo moderno, bellissimo come quello di Scola, a un altro bellissimo, ma classico.”

Nel 2014, ha scritto il libro “Ti ricordi la casa rossa? - Lettera a mia madre”, dedicato a sua madre, affetta da Alzheimer. Che cosa si sente di dire a chi sta attraversando questo momento particolare e delicato con i propri genitori?

“Dobbiamo dimenticarci di noi stessi di quello che siamo, quando siamo in contatto con questa malattia terribile. Quando non ci riconoscono, questo ti dà molto dolore. Dobbiamo cercare di spostare il rapporto che si crea con i genitori, mamma, papà, zio, e qualunque legame ci sia, dall’aspetto della parola a quello del gesto. Recepiscono il gesto di affetto, come la mano, una carezza. Molto più delle parole che, per loro, sono molto più difficili. È stato il motivo per cui ho scritto il libro. Tutti noi dobbiamo avere il coraggio di parlare di questa cosa, piuttosto che vergognarsene, quando si vive un’esperienza di un parente in queste condizioni. È stato confortante il fatto che io abbia contribuito minimamente a sottolineare le difficoltà della malattia di Alzheimer. La malattia ha un costo enorme per i parenti. È da calcolare tutto questo. Non tutti hanno la fortuna di poter gestire una malattia del genere, tra infermieri, badanti. Oltre a un costo psicologico, fortissimo, perché chi ha dei parenti, con cui mi sono confrontato in tanti convegni, presentazioni del libro, ho scoperto che c’è un grande senso della solitudine. Le istituzioni devono stare vicine alle persone che hanno questo problema. Ci sono delle bellissime comunità, come una a Monza, molto importante, in cui riproducono un piccolo paesino, il bar, il giornalaio, il negozio. Danno certezze a queste persone, e questo li rassicura. La cosa più grave della malattia dell’Alzheimer è quella di sentirsi un po' persi. Queste esperienze ti confortano, finché ci sono degli interventi che curano la malattia, per farla vivere nel miglior modo possibile. Dobbiamo considerare che le persone, i parenti, hanno bisogno di aiuto, non solo in circostanze economiche, ma anche psicologiche, perché è una malattia molto dolorosa per chi sta vicino a una persona cara.”




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