martedì 3 dicembre 2013 - angelo umana

Giovane e bella (i terribili 17 anni)

Attenzione, contiene spoiler

“On n’est pas sérieux quand on a 17 ans” è il brano di Rimbaud che si discute nella classe di Isabelle (Marine Vacth), diciassettenne con tanta voglia di darsi finalmente e scoprire il piacere. “E’ fatta” dirà al fratello piccolo, Victor (un Fantin Ravat fedele al ruolo), quando si sarà concessa sulla spiaggia al bel ragazzo tedesco che la corteggia, l’estate dopo la quale tornerà in città dimenticandolo. Sembra diventata già grande in quella scena, volta la testa mentre fa l’amore, come se la cosa non la riguardasse poi tanto, una pratica che doveva sbrigare, e volgendo lo sguardo immagina di vedere sé stessa ormai ragazzina del passato.
 
Comincia a prendere appuntamenti online dalla sua stanza e si fa pagare dai clienti tariffe di diverse centinaia di euro, soldi che nasconde tra la sua biancheria. A una ragazza così si vorrebbe dire quanto poco valgono quei soldi, quanto poco possono comprare rispetto alla giovinezza che possiede e a tutte le cose belle che si possono mettere in una vita. Comincia ad assumere una certa professionalità nel ruolo, d’altra parte un volgare cliente le ha detto “Puttana una volta puttana per sempre”: va agli appuntamenti con un bel tailleur e scarpe col tacco, ancheggiante negli alberghi o domicili dove entra, ne esce in jeans e scarpe basse, di nuovo 17enne qualsiasi, che va a scuola e consola l’amica del cuore, dicendo di sé stessa di non aver nessuno e di non essere innamorata. Parla a sua madre Sylvie coi canoni di quell’età, spesso sgarbati (Géraldine Pailhas, veritiera nel rapportarsi a lei come i genitori meglio possono coi loro impenetrabili ragazzi).
 
Perché è successo? Il regista Ozon a mio parere non motiva abbastanza la voglia di questa svolta sorprendente, non ne fa digerire il percorso emozionale. Lo esprimerà attraverso il patrigno Patrick (Frédéric Pierrot, volto familiare e tranquillizzante, anch’egli capace di stare nei panni assegnatigli) che a ragione dirà, quando la famiglia ha scoperto la vita segreta di Isabelle, che alla sua età si vogliono conoscere i propri limiti, si ha voglia di cose nuove, la curiosità, la provocazione, un gioco tutto suo, “fatti miei, la mia vita”. Motivazioni simili del resto erano quelle, emozionalmente più comprensibili, della protagonista de La variabile umana, omicida quasi per caso alla stessa età ma figlia del “poliziotto” Silvio Orlando.
 
I soldi di Isabelle li troverà la polizia tra i suoi vestiti, in una perquisizione improvvisa davanti agli occhi della madre, quando sono arrivati a lei indagando sulla morte di un suo cliente abituale, Georges (magnifico Johan Leysen), un anziano che pare darle la pace e l’affetto di un nonno, ma anche del buon sesso, l’unico con cui un po’ si è confidata. E’ morto “nel modo migliore”, a dirla con le parole di una canzone di Mina, nella stanza 6095 dell’albergo di lusso dove si vedevano.
 
Andrà regolarmente e di malavoglia da uno psicologo e si meraviglierà di quanto poco siano i 70€ della visita o i 60 che le dà una coppia amica dei suoi per fare la baby-sitter, abituata ad altri compensi. Ad una festa privata coi compagni di scuola, dove tutti provano sbaciucchiamenti e avances in libertà, lei si guarda intorno e sa di avere fatto già tutto, è oltre, ha uno sguardo disilluso ma si fa conquistare da un compagno: sembra ridiventata la ragazza che è.
 
Qui il film parrebbe concludersi, tutto bene, ogni cosa a suo posto e… vissero felici e contenti. Ma la strana curiosità ha il sopravvento: Isabelle ricerca un nuovo appuntamento, un cliente glielo dà stranamente nella stanza 6095 dove incontrava Georges. La sorpresa – che è anche una lieta sorpresa per lo spettatore in un film che sembrava appiattirsi - è di trovarvi la moglie di costui, che sapeva degli svaghi del marito, che la vuol conoscere e vedere la stanza dove il marito è morto. Si tratta della grande e bellissima Charlotte Rampling. Pure lei sembra una dolce nonna per Isabelle, che la ringrazierà commossa. Solo da un occhio però le sgorgherà la lacrima e la cosa è perdonabile: meno perdonabile è un po’ di piattezza o di artificio che si ravvede nel film di Ozon – migliore comunque del suo Nella casa- oltreché l’inespressività di Marine Vacth, vagamente somigliante a Julia Roberts, ma solo nella punta del naso. Ozon pare voler ricercare dei guizzi nelle sue narrazioni, ma sono artefatti, poco maturati negli occhi o nelle viscere dello spettatore: l’ultimo guizzo, i cinque minuti di Charlotte Rampling, valgono però tutto il film.




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