martedì 24 maggio 2022 - Eleonora Poli

Giornalisti, sempre più “proletari” dell’informazione

Sembrano già lontanissimi i tempi in cui erano considerati una casta di privilegiati: oggi la crisi del giornalismo è globale e investe l’intera società. In un libro-intervista presentato al Salone del Libro di Torino, Gad Lerner ripercorre 40 anni di professione e guarda alle prospettive di un mondo che deve rinnovarsi senza perdere la propria essenza ed identità.

Il destino del giornalismo riguarda tutti, perché in qualunque direzione si incammini l’umanità, un presente-futuro senza mediazione dell’informazione significherebbe non andare avanti, piuttosto tornare indietro di secoli. Al Salone del Libro di Torino è stato il tema di numerosi incontri, tra cui la presentazione del libro “Giornalisti da marciapiede”, edito da Gruppo Abele. Il volume raccoglie una lunga intervista a Gad Lerner che dialoga con Elena Ciccarello, direttrice della rivista Lavialibera: al centro ci sono le origini della passione di Lerner per il giornalismo, i momenti più significativi, gli incontri; ma è anche e soprattutto l’occasione per parlare di una professione che c’è chi scommette destinata a scomparire. Eppure, il protagonista della storia è invece convinto che mai potrà essere così, e con lui tanti altri.

Non stiamo parlando della crisi dei giornali, della carta stampata. Perché se si trattasse soltanto di una questione di supporto, cartaceo o digitale, la soluzione sarebbe semplice, si tratterebbe soltanto di passare, definitivamente, all’informazione sul web. L’evoluzione tecnologica e culturale ha portato, negli ultimi decenni, a un cambiamento molto più serio e profondo: Internet, i blog, i social, la facilità di comunicare caratteristica del nostro tempo hanno convinto un considerevole numero di persone che quello di informare non è più un mestiere, bensì un’attività alla portata di tutti, alla quale ciascuno può dare la propria impronta, il proprio contributo e punto di vista. Indipendentemente da tutto: dalle fonti più o meno attendibili, dall’etica, dai confronti, dalla verità dei fatti, dal senso critico, dalla conoscenza degli argomenti. Formazione, deontologia e preparazione sui temi finiscono per essere considerati aspetti secondari, il mezzo prende il sopravvento sui contenuti che si impoveriscono, si deformano, perdono qualunque attendibilità. La notizia, se così vogliamo chiamarla per convenzione, appare smettendo di essere, è spogliata di qualsiasi sostanza e validità. I media non sono più strumenti, diventano fini essi stessi.
Il risultato? Nel marasma di questo giornalismo diffuso, i professionisti sono sempre meno considerati, la svalutazione degli argomenti e del loro approfondimento va di pari passo con quella del lavoro stesso. Come in un circolo: il prodotto perde credibilità e di conseguenza lettori e fruitori in senso più ampio. Sostituite dall’informazione fai-da-te di Facebook, Instagram, tik-tok, dei blog e degli influencer, le testate e i canali tradizionali entrano in crisi, vanno in perdita. Così, per risparmiare, si affidano a collaboratori precari, spesso meno preparati e spessissimo sottopagati che, in breve tempo, contribuiscono – loro malgrado – a dare il colpo di grazia al media di cui fanno parte e a trasformare la crisi in un abisso da cui diventa impossibile risollevarsi. La gratuità e l’abbondanza dei contenuti più svariati senza alcuna selezione ha inibito via via il senso critico degli utenti, i cosiddetti lettori, che spesso scelgono in base all’accessibilità, alla quantità e, appunto, al fattore economico nella logica del tanto a costo zero.
Alla presentazione di “Giornalisti da marciapiede” – che poi significa che stanno sul campo, battono le strade, verificano le fonti, elaborano, interpretano e mediano le notizie – Gad Lerner insieme a Carlo Verdelli, ex direttore di Repubblica e ora direttore di Oggi, denunciano la gravità della situazione che investe tanti colleghi meno noti e famosi, magari meno bravi, ma quasi sicuramente altrettanto appassionati, attaccati a ciò che fanno. Sono gli “operai della penna”. Lerner parla di proletarizzazione della professione giornalistica, termine duro che identifica però con chiarezza il punto al quale, quasi senza accorgersene, si è scesi. Le redazioni dei giornali (e anche delle testate online) sono ridotte all’osso, non esistono più le assunzioni con contratto ex articolo 1; ci si rivolge perlopiù a esterni precari di qualsiasi età che lavorano a chiamata e, senza più le garanzie di un tariffario, arrivano a guadagnare – letteralmente, purtroppo – 5-10 euro ad articolo.

L’impegno di scrivere, fotografare o girare un video, a livelli medi con l’esclusione soltanto delle grandi firme, viene valutato oggi poco più di un hobby, come fosse un’attività così poco qualificata da non richiedere dispendio di energie e da non meritare un adeguato compenso. Già, l’adeguato compenso di cui parla la Costituzione italiana, all’articolo 36: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa”. Mentre le crisi di altri settori e categorie di lavoratori sono sotto gli occhi di tutti, quella del giornalismo rimane troppo spesso nell’ombra. I luoghi comuni al contrario rimbalzano ovunque, soprattutto nelle condivisioni sui social, quelle che basta un clic per rendere partecipi tutti, amici e conoscenti. Giornalisti venduti, pennivendoli, queste le espressioni più ricorrenti. In effetti c’è qualcosa di vero, perché come hanno ribadito Lerner e Verdelli (e come si legge nelle pagine di questo volume-intervista), le proprietà editoriali hanno assunto un potere sempre più assoluto nei confronti dei dipendenti o pseudo tali che perdono, in questa corsa al ribasso della professione e dei compensi, qualsiasi diritto a livello contrattuale, sono costantemente sotto ricatto, minacciati di licenziamento o demansionamento. Perché tanto ci sarà comunque qualcun altro disposto a prendere il loro posto, pretendendo ancora meno. Non c’è a questo punto più da meravigliarsi se il prodotto si deteriora. Né se i collaboratori consegnano pezzi copia-incolla da Wikipedia o da altri siti a portata di mouse: a questo ha portato la svalutazione del giornalismo, poco “da marciapiede” e irrimediabilmente “da tastiera”. “Wikipedia è uno strumento che mi è utilissimo – racconta Gad Lerner – per controllare le date e per tante altre cose, tanto che verso un contributo ogni mese”, ma guai se qualcuno lo trasforma in una fonte primaria di informazione, questo come gli altri siti. Non importa quanta tecnologia abbiamo a disposizione e quanto è immenso il patrimonio digitale: il giornalista rimane quello che legge, studia, si documenta, parla con i diretti interessati e, nel piccolo come nel grande, svolge un’indagine. “Sta nel mezzo delle cose senza però essere neutrale, perché essere neutrali è una bugia nei confronti dei lettori”, sottolinea Verdelli.

La libertà di espressione è sacra, tutti possono dire la loro senza bisogno di avere in tasca il tesserino dell’Ordine? Certo, Internet e le tecnologie semplificate hanno dato a tutti questa libertà, dai dodici anni in su sono tutti cronisti, fotoreporter e registi. Ma siamo proprio sicuri che sia questa la strada giusta? Sarebbe invece arrivato il momento di riconoscere, anche a livello istituzionale e legislativo che - a vantaggio di tutti – il giornalismo deve ritrovare dignità, credibilità e riconoscimento. Bisogna ricominciare a mettere dei paletti che, al contrario di quanto si potrebbe pensare, non sono antidemocratici, ma garanzia per tutti di ricerca della verità. L’appello va a quei giornalisti che, come Lerner e Verdelli, ancora hanno la capacità e il “potere” di essere ascoltati, letti, apprezzati: fare qualcosa di concreto per il futuro dei colleghi più giovani e per chi ancora crede che questa professione valga la pena di essere intrapresa con passione.

Eleonora Poli

 

 

 

 

 

 




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