venerdì 7 agosto 2009 - nonmiarrendo

Gaeta chiederà i danni a Casa Savoia per i danni subiti nell’assedio del 1860/61

 

Il 6 dicembre del 2008 si riunì a Gaeta il Consiglio Comunale della città martire del Risorgimento piemontese.
 
Il Consiglio, all’unanimità dei presenti,deliberò che fossero restituiti alla citta’i beni demaniali requisiti dai savoiardi e la possibilità di una denuncia verso gli eredi di Casa Savoia per i danni arrecati a persone e cose durante l’assedio del 1860-61.


Quel consiglio comunale fu voluto fortemente dall’Assesore al Demanio Cap.Antonio Ciano,noto storico meridionalista, nonchè Segretario Nazionale del Partito del Sud.

Prima di una eventuale denuncia è stato chiesto un parere tecnico ad uno tra i più valenti avvocati di Napoli, l’Avv.Pasquale Troncone, patrocinante in cassazione nonché Prof. aggiunto di Diritto Penale presso l’Università Federico II di Napoli.

Molta della notevole e preziosa documentazione è stata recuperata dall’Assessore Ciano presso l’Archivio Storico della città.

Il Sindaco di Gaeta Dr. Antonio Raimondi ringrazia l’esimio e dotto Avv.Troncone per lo studio gratuitamente fatto sulla rilevanza giuridica degli effetti dell’assedio del 1860-1861, studio che proponiamo e che dimostra la fondatezza su basi giuridiche della richiesta di risarcimento.

Antonio Ciano
Assessore al Demanio del Comune di Gaeta
Segretario Nazionale del Partito del Sud




P r e a m b o l o

Capitolo I - Esposizione delle circostanze di fatto oggetto di indagine

Capitolo II - Il regime giuridico di riferimento

Capitolo III - I problemi di discontinuità normativa e il fondamento del

diritto al risarcimento dei danni

Capitolo IV - La qualificazione giuridica degli atti di belligeranza

dell’esercito piemontese

Capitolo V - Le questioni dell’applicazione retroattiva del diritto punitivo

Capitolo VI - Il quadro normativo compatibile con i fatti storici in esame

Capitolo VII - Le possibili azioni riparative da intraprendere


P r e a m b o l o



§. - Viene richiesto dal Sindaco del Comune di Gaeta (Lt), in ragione dell’atto di Delibera n. 100 del Consiglio comunale adottata il 6 dicembre 2008 e poi della Delibera n. 12 adottata dalla Giunta comunale in data 29 gennaio 2009, di esprimere un parere scritto pro-veritate in ordine alla possibilità di richiedere ed ottenere il risarcimento dei danni patiti da singoli cittadini e dalla municipalità in occasione dell’assedio portato dalla truppe di Vittorio Emanuele II al quartiere antico di Gaeta nel periodo 7 settembre 1860 - 14 febbraio 1861.



§. - Prima di ogni altra cosa desidero esprimere il più sincero sentimento di gratitudine per aver destinato alla mia persona la richiesta di detto parere.

Ritengo necessario allo stesso tempo precisare che l’indagine che segue non intende costituire il fondamento di rivendicazioni dinastiche di Case regnanti cessate né è volta a proporre riflessioni sulla opportunità e sulle ragioni che portarono, attraverso l’epopea risorgimentale, all’Unità territoriale e politica della penisola italiana.

La formazione dello Stato unitario voleva essere e tuttora resta il naturale coronamento di un processo che il divenire della storia ha compiuto e che gli uomini nostri predecessori hanno favorito e di cui ancora oggi ne rivendichiamo la paternità e ne condividiamo le genuine, forti e ideali motivazioni, contro i sempre presenti auspici disgregatori (Scirocco A., Bologna, 1993 e 1998 ).

Si è cercato, in definitiva, di evitare di esprimere giudizi di valore, apprezzamenti di natura politica, considerazioni di carattere critico, limitando l’esame unicamente ai profili giuridici della complessa vicenda.



§. - L’attuale impegno di indagine giuridica investe dunque la valutazione delle condotte di singoli soggetti, le conseguenze dannose dell’eventuale loro illecito operato e quali azioni di natura giudiziaria o extra-giudiziaria si ritiene possibile promuovere per soddisfare, oltre che le ragioni della storia, i diritti fondamentali di singole persone che si pretende furono violati.

Al compimento del 150° dell’Unità d’Italia e del 60° anniversario della "Dichiarazione Universale dei Diritti Umani" adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, nell’interesse della comunità municipale che rivendica i diritti violati, si impone come opportuno, attraverso adeguati strumenti di accertamento tecnico-giuridico, ristabilire un dialogo di pacificazione delle parti in causa, ripristinando la legalità e dichiarando estinti i motivi di contrasto e di contrapposizione (Semelin J., Torino, 2007).



§. - Al di là di motivazioni ispirate ai fondamenti del diritto positivo e dell’etica, vi sono ben altre ragioni di carattere ideale che impongono un’indagine accurata dei fatti accaduti nel biennio 1860-1861, ragioni che attengono al diritto naturale, dove il rispetto della sovranità ordinamentale di uno Stato -i cui caratteri sono indipendenza, supremazia, originarietà- si intreccia con il rispetto dei diritti inalienabili della persona umana e, soprattutto, con la libera determinazione di ciascuno a veder riabilitato il vissuto della propria comunità di appartenenza per legittimare l’integra titolarità del proprio presente.

Resta significativa a tale proposito l’affermazione formulata dai rappresentanti del Comune di Gaeta che si facevano portavoce del sentimento dei loro concittadini dell’epoca: "..non credasi, che questa città s’astenga e si asterrà dal presentare diversamente le sue ragioni per mera pusillanimità;" (Memoria della Città di Gaeta inviata al Parlamento di Torino nel 1865).



§. - Le fonti ossia il vasto materiale documentario ed archivistico che costituisce la piattaforma "di fatto" che si pone alla base del presente parere e che verranno progressivamente più avanti richiamate, sono le seguenti:


- Verbali e Deliberazioni del Decurionato di Gaeta dal 20 giugno 1858 al 24 febbraio 1863;


- Memoria della Città di Gaeta inviata al Parlamento di Torino nel 1865 dal Sindaco Domenico Vellucci (pubbl. 1866).



A tanto si aggiunga il considerevole numero di lavori monografici e antologici sull’argomento nonchè la memorialistica, oltre ai numerosi riferimenti legislativi espressi dagli ordinamenti giuridici delle cessate monarchie -borbonica e sabauda- e della Repubblica italiana, tutti riferimenti che verranno di seguito puntualmente forniti -seppure con indicazioni bibliografiche essenziali- per un corretto percorso di verifica della ricostruzione storiografica e giuridica che viene proposta.



§. - Va posto chiaramente in premessa che il Comune di Gaeta con tale iniziativa intende riaffermare la sua fedeltà ai principi della Costituzione repubblicana del 1948 ed in particolare tutta l’azione amministrativa che ne dovesse conseguire, non potrebbe non essere informata al dettato dell’art. 54 Cost. "Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore..". Del pari decisivo deve essere considerato il criterio di prudenza che in generale governa l’intera azione amministrativa, ma in particolare, per il caso che ci occupa, le singole possibili iniziative dovranno passare al vaglio del giudizio di opportunità, al fine di individuare e coltivare le opzioni più rispettose delle legittime esigenze della Comunità cittadina.































- Capitolo I -

Esposizione delle circostanze di fatto oggetto di indagine



§. - Il 25 giugno 1860 Francesco II di Borbone emana un "Atto sovrano col quale si concedono gli Ordini costituzionali e rappresentativi del Regno" con il quale annuncia la concessione di un’amnistia per i reati politici e l’entrata in vigore di una Carta Costituzionale del Regno. Al punto 3 di tale Atto si legge: "Sarà stabilito con S.M. il Re di Sardegna un accordo per gl’interessi comuni delle due Corone in Italia" (in Collezione delle leggi e dei decreti reali del Regno delle Due Sicilie, pag. 327).

Il I luglio 1860 viene emanato il "Decreto col quale si richiama in vigore la Costituzione de’ 10 febbraio 1848" concessa da Ferdinando II (in Collezione delle leggi e dei decreti reali del Regno delle Due Sicilie, pag. 339).



§. - Il 7 settembre 1860 Francesco II di Borbone legittimo Sovrano del Regno delle Due Sicilie, lasciata la capitale Napoli sotto l’incalzare dell’avanzata garibaldina, si rifugia nel quartiere antico di Gaeta, fortezza ritenuta storicamente imprendibile perché circondata dal mare, già fatta oggetto di tredici precedenti assedi (Salzillo T., Napoli, 2000). Entro il perimetro delle mura cittadine in cui erano stanziate le truppe rimaste fedeli al Borbone vivevano anche le famiglie di questi e comuni cittadini con i propri beni.



§. - A distanza di quarantaquattro giorni dalla partenza del Sovrano borbonico dalla capitale, segnatamente il 21 ottobre 1860, veniva indetto il Plebiscito per dichiarare l’annessione del Regno delle Due Sicilie alla Corona del Regno d’Italia nella persona di Vittorio Emanuele II di Savoia. La conferma del risultato favorevole veniva sanzionata con il "Decreto col quale si dichiara che le provincie napoletane faranno da oggi innanzi parte integrante dello Stato Italiano" del 17 dicembre 1860 (in Collezione delle leggi e dei decreti emanati nelle Provincie continentali dell’Italia meridionale durante il periodo della luogotenenza, pag. 193).



L’azione condotta da Giuseppe Garibaldi, apparentemente priva di coperture politiche e militari, dopo alcuni mesi in cui le milizie garibaldine risalgono il territorio del Mezzogiorno senza trovare alcuna resistenza, viene interamente assorbita dall’iniziativa militare intrapresa dall’esercito piemontese. Durante la vera e propria campagna militare compiuta nel territorio dell’ex Regno borbonico si registrerà la presenza di oltre centomila uomini dell’esercito sabaudo, il cui primo obiettivo militare era costituito dalla conquista della "Piazza di prima classe" di Gaeta occupata da Francesco II.



§. - Per queste ragioni l’11 novembre 1860 l’esercito piemontese condotto dal Gen. Enrico Cialdini dà inizio all’assedio di Gaeta con il chiaro mandato di spingere il Sovrano borbonico ad arrendersi e a prendere la via dell’esilio, con la conseguente cessazione della casa regnante dei Borboni sul territorio dell’intero Mezzogiorno d’Italia.



§. - L’11 febbraio 1861, l’esercito borbonico appare stremato dagli effetti del lungo assedio. I bombardamenti disposti dal Gen. Cialdini, con il ricorso anche all’uso di armi dotate di caratteristiche non convenzionali all’epoca -i cannoni dalla canna rigata-, avevano prodotto significativi danni alla piazzaforte di Gaeta, oltre ad aver decimato la popolazione civile e distrutto la gran parte del patrimonio edilizio privato. L’impossibilità di una via d’uscita vincente per la riconquista dei territori del Regno delle Due Sicilie e l’impossibilità di rompere l’assedio costringono i borbonici ad accettare le condizioni della resa con la sottoscrizione dell’atto di capitolazione che porterà la firma per conto di Casa Savoia del Gen. Enrico Cialdini.



§. - Il 14 febbraio 1861 Francesco II si imbarca sulla nave francese "La Mouette" alla volta di Roma, dove troverà asilo presso lo Stato della Chiesa sotto la protezione di Pio IX.



§. - Il 18 febbraio 1861 proclama la nascita del Regno d’Italia con il "Discorso di Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele alla solenne apertura del primo Parlamento Italiano in Torino" (in Collezione delle leggi e dei decreti emanati nelle Provincie continentali dell’Italia meridionale durante il periodo della luogotenenza, pag. 768).



§. - Il 18 febbraio 1861 il Comune di Gaeta, a causa della mancata partecipazione al Plebiscito tenutosi durante i 102 giorni dell’assedio, inoltra a Torino la richiesta di adesione al nuovo Stato unitario, integrando con il suo territorio quello di tutto il Mezzogiorno già annesso nell’ottobre 1860.

Su questo documento gravano, peraltro, gravi sospetti di irregolarità che darebbe luogo alla inesistenza dell’atto amministrativo, in quanto venne approvato e sottoscritto soltanto da 5 decurioni mentre il quorum necessario sarebbe stato di 16 sottoscrittori in ragione dei 25 componenti che formavano il Collegio decurionale di Gaeta.



§. - Dei danni patiti e delle commiserevoli condizioni di vita in cui si ritrovarono i cittadini di Gaeta ne danno conto i seguenti verbali e delibere assunti dalla Giunta Municipale di Gaeta:


- Verbale del 18 febbraio 1861;


- Verbale del 25 febbraio 1861;


- Verbale del 28 febbraio 1861;


- Verbale del 10 marzo 1861;


- Verbale del 23 marzo 1861;


- Verbale del 8 aprile 1861;


- Verbale del 10 giugno 1861;


- Verbale del 14 agosto 1861;


- Verbale del 5 ottobre 1861;


- Verbale del 9 aprile 1862;


- Verbale del 29 luglio 1862;


- Verbale del 31 luglio 1862;


- Verbale del 24 febbraio 1863.





























- Capitolo II -

Il regime giuridico di riferimento



§. - Verso la metà del 1800 il territorio italiano era caratterizzato da molteplici regimi legislativi come diversi erano gli Stati indipendenti e sovrani della penisola italiana. Con lo svolgimento del Plebiscito di annessione del 21 ottobre 1860 nel Meridione resteranno per un breve periodo concorrenti la legislazione sabauda e quella borbonica, anche se progressivamente si registrerà il prevalere del sistema legislativo e giudiziario piemontese a scapito di quello del Regno delle Due Sicilie per diventare l’unica legislazione legittima con la piena unità territoriale e politica della Nazione italiana.

L’affermarsi della effettività della legislazione sardo-piemontese segna anche il progredire della sovranità territoriale del nuovo Stato che contribuirà a legittimare la piena sovranità giuridica (Ferrajoli L., Roma-Bari, 1997).



§. - Intanto, il biennio oggetto della nostra indagine 1860-1861 consente di osservare che all’indomani del Plebiscito di annessione non tutto il territorio del Mezzogiorno risultava governato in modo coerente da un medesimo assetto legislativo. Ed infatti la ritardata adesione del territorio di Gaeta alla nuova entità nazionale risulterà la causa di una vera e propria asimmetria normativa e quindi di una divaricazione statuale, seppure esistente sul medesimo territorio del meridione, circostanza aggravata dalla legislazione di emergenza messa in campo nell’agosto del 1863 per combattere il fenomeno del brigantaggio politico (Troncone P., Napoli, 2001).



§. - Lo svolgimento del Plebiscito dà luogo all’entrata in vigore dell’intero complesso legislativo delle fonti dell’ordinamento sabaudo, ossia dello Statuto Albertino del 4 marzo 1848 (in Collezione delle leggi e dei decreti emanati nelle Provincie continentali dell’Italia meridionale durante il periodo della dittatura, pag. 23), del codice penale del 1859 -piemontese-lombardo quale rifacimento del Codice penale sardo del 1839- (entrato in vigore il 16 febbraio 1861) e del codice civile albertino del 1837. Occorre tuttavia precisare che, e tale circostanza si rivelerà fondamentale per comprendere le eventuali rivendicazioni risarcitorie, per effetto della mancata partecipazione della popolazione di Gaeta al Plebiscito di annessione, su quel circoscritto ambito territoriale continuava ad essere vigente la legislazione borbonica, il cui garante della sovranità era rappresentato da quel Sovrano regnante che ivi si trovava assediato. Per cui sul ristretto quadrante geografico continuava ad essere operativo l’intero apparato legislativo e giudiziario del Regno delle Due Sicilie, vale a dire la Carta Costituzionale concessa da Francesco II nell’imminenza della partenza da Napoli capitale del 1860; la legislazione codicistica varata sotto il Regno di Ferdinando II ossia i Codici penale (Patalano V., Padova, 1996) e civile del 1819; e, per quanto si dirà più avanti, le leggi di guerra.




























 

 
 
 
 
 
 





- Capitolo III -

I problemi di discontinuità normativa

e il fondamento del diritto al risarcimento dei danni



§. - Nel patrimonio culturale della Nazione italiana è radicato il sistema del diritto elaborato dalla civiltà giuridica romana secondo l’opera giustinianea che, passata attraverso il diritto intermedio e reso funzionale attraverso i naturali adattamenti ai principi della rivoluzione francese, venne fatto proprio dalla prima grande codificazione messa in campo da Napoleone Bonaparte.

Appartiene alla radice della civiltà giuridica europea il principio di giustizia sostanziale secondo cui qualunque danno viene cagionato deve ricevere, nelle forme che i tempi suggeriscono e la storia del diritto di un popolo recepisce, il necessario risarcimento o soddisfacimento di colui che quel danno ha subito. A tutela di tale principio fondamentale da sempre l’ordinamento giuridico appresta i necessari strumenti attuativi del diritto che si concretizzano con le adeguate azioni proposte nell’alveo della giurisdizione.



§. - La "lex aquilia de damno" di epoca romana codificata e resa ulteriormente efficacia dalla grande opera di consacrazione del diritto fattane da Giustiniano, confermata dal diritto medioevale, sancita definitivamente dai principi contenuti nella dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 entra infine a far parte della prima grande operazione di codificazione dell’età moderna con il "Còde Napoleon".

La continuità dei principi generali del diritto, seppure in presenza di nuovi testi normativi resi sempre più aderenti alle mutate realtà ordinamentali e politiche, viene appunto affermata in maniera incisiva dall’art. 3 del Decreto Imperiale del 16 gennaio 1806 che disponeva l’estensione dell’efficacia del Codice civile napoleonico su tutto il territorio italiano governato dai francesi: "le leggi romane, le ordinanze, le consuetudini generali e locali, gli statuti e regolamenti cesseranno di avere forza di legge generale o particolare nelle materie che formano oggetto delle disposizioni contenute nel Codice Napoleone" (Ghisalberti C., Roma-Bari, 1999).

Questa operazione di complessiva ricodificazione sistematica, compiuta attraverso il recupero dei principi generali delle diverse materie stratificati nel corso del tempo, venne interamente coonestata prima, negli stessi contenuti e nei medesimi caratteri, nella legislazione borbonica di Ferdinando II, poi nella legislazione italiana dopo l’Unità, per essere definitivamente recepita nel codice civile del 1942 tuttora vigente.

Se in questo modo la materia delle fonti del diritto riceveva un nuovo assetto sistematico, si imponeva all’attenzione dell’interprete l’esigenza di elaborare canoni ermeneutici attraverso i quali verificare le condizioni del riconoscimento dei diritti soggettivi maturati sotto la vigenza di un codice abrogato. Questa complessa problematica era già nota alla scienza del diritto e ai giudici nel IXX secolo, allorchè si trattò di applicare le nuove norme introdotte dal governo asburgico nel Lombardo-Veneto successivamente all’abrogazione del sistema delle leggi imperiali di Napoleone Bonaparte dopo il 1815 (Archini F.I., Milano, 1816).



§. - Per ritenere proponibile un’azione giudiziaria finalizzata al risarcimento dei danni in conseguenza di fatti illeciti commessi in epoca antecedente alla legislazione attualmente vigente nell’ordinamento giuridico italiano, è necessario individuare una molteplicità di presupposti che devono essere tutti concorrenti e giuridicamente fondati. Conta in questo caso porre le premesse di carattere metodologico in relazione alle quali si perviene alla individuazione della piattaforma di concetti e di precetti normativi che possono costituire la premessa in diritto dell’azione giudiziaria.

Occorre a nostro avviso: a) che quel "fatto" come illecito sia previsto anche all’epoca della sua realizzazione; b) che non vi sia stata rinuncia espressa al diritto; c) che sia attuale l’interesse al risarcimento; d) che sussista un sufficiente corredo probatorio dei danni e un’affidabile quantificazione degli stessi; e) che siano esattamente identificabili i legittimati e i titolari del diritto successorio nonché i discendenti delle vittime dei danni; f) che, nonostante le discontinuità normative, possa essere ritenuto attuale l’esercizio del diritto; g) che possano essere prese in considerazione tutte le ipotesi di "interruzione" e di "sospensione" di eventuali cause estintive dei diritti, in ragione di fatti traumatici per l’ordinamento giuridico, come ad esempio la guerra o il mutamento degli assetti politico-istituzionali.



§. - L’attuale codice civile della Repubblica italiana del 1942 stabilisce con l’art. 2043 la disciplina del risarcimento dei danni derivanti da atto illecito, confermando nella sostanza e nei principi ispiratori l’antico precetto della lex aquilia de damno. In ragione della certezza dei diritti e delle situazioni giuridiche soggettive anche il diritto al risarcimento dei danni è soggetto alle generali regole della prescrizione ossia della estinzione del diritto soggettivo e dell’azione a farlo valere in giudizio per il trascorrere del tempo. A tale proposito l’art. 2947 del codice civile stabilisce "Prescrizione del diritto al risarcimento del danno": "Il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato" (Galgano F., Padova, 2009).

Per quanto concerne invece i problemi di applicabilità intertemporale della norma per i fatti illeciti commessi prima del 1942 occorre tenere nel debito conto la disciplina transitoria del medesimo codice civile dell’art. 252: "Quando per l’esercizio di un diritto ovvero per la prescrizione o per l’usucapione il codice stabilisce un termine più breve di quello stabilito dalle leggi anteriori, il nuovo termine si applica anche all’esercizio dei diritti sorti anteriormente".

In ordine alla titolarità del diritto soggettivo che si intende far valere nel caso dell’assedio di Gaeta, va precisato che i danni vengono lamentati sia da soggetti privati che dalla istituzione pubblica rappresentata dall’autorità comunale.



§. - Le indicazioni di carattere generale che sono messe in luce dalla ricca esperienza giuridica maturata in diverse epoche della storia rivelano che resta fermo l’obbligo di risarcire i danni o comunque ripristinare lo stato turbato dall’atto illecito, facendo ricorso agli strumenti messi in campo dalla giurisdizione. Per questa ragione, seppure in presenza di eventi che hanno determinato una discontinuità normativa, resta saldo il principio generale e storicamente consolidato della continuità dell’obbligo di risarcire e del corrispettivo diritto a richiedere il risarcimento, secondo le regole dell’esercizio del diritto prescritte dall’ordinamento giuridico vigente (Mastropaolo F., Roma, 2007). In proposito affermava il Decurionato di Gaeta:



"Considerando che il dritto ad essere tutti compensati trova la sua naturale ragione nelle leggi eterne della giustizia umana, ed ora tanto più che veglia alla sorte degl’Italiani un governo libero, che in queste Province meridionali ha assunto l’impresa saggissima di riparazione e nella quale non possono andar esclusi 18000 cittadini mandati a rovina e miseria" (Verbale del 28 febbraio 1861).



E spingendo la nostra indagine sul corredo normativo concernente i due ordinamenti giuridici coesistenti alla metà del 1800 e in particolare analizzando le norme specifiche di settore, gli artt. 1336 e 1337 del Codice civile del Regno delle Due Sicilie stabiliva il diritto al risarcimento dei danni derivanti dal "delitto o quasi delitto" (De Thomasis G., Napoli, 1831; Feola R., Napoli, 1977). Allo stesso modo disponeva il "Codice civile per gli Stati di S.M. il Re di Sardegna" del 1837 adattato alle esigenze del nuovo più ampio territorio statale (Montanari C.- Soffietti I., Torino, 2008).

































- Capitolo IV -

La qualificazione giuridica degli atti di belligeranza

dell’esercito piemontese



§. - Orbene, in presenza di situazioni eccezionali e di grave pericolo per la integrità della sovranità statuale tutti gli ordinamenti ottocenteschi prevedevano una disciplina normativa tipica a difesa dello Stato e tale assetto esiste tuttora. Entrano infatti in vigore i codici penali militari di guerra.

Nell’ordinamento della Repubblica italiana, facendo leva sulla specifica disciplina dell’art. 78 della Carta Costituzionale, le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono il potere al Governo di gestione della crisi.

Nell’ordinamento sardo-piemontese l’art. 5 dello Statuto Albertino stabiliva che la dichiarazione di guerra apparteneva ai poteri esclusivi della Corona, per cui solo il Sovrano poteva dar luogo ad un conflitto armato.

Se è vero che una volta pronunciata la dichiarazione di belligeranza entrano in vigore tutti i presidi normativi e giurisdizionali fondati sul presupposto dello "stato di guerra", ciò non accadde per i fatti del 1860 perché non vi fu alcuna dichiarazione di guerra, né da parte del Sovrano Sabaudo, né da parte del Parlamento di Torino, né da parte delle truppe militari di Vittorio Emanuele II che fecero ingresso nel territorio del Mezzogiorno seguendo un itinerario opposto a quello che aveva intrapreso Giuseppe Garibaldi. I reparti dell’esercito sabaudo, infatti, penetrarono da nord e precisamente dalle Marche sconfinando nei territori dello Stato della Chiesa.



§. - La conferma della mancata pronuncia di una dichiarazione di guerra la si ricava anche direttamente e indirettamente da vari "Atti" adottati da Francesco II di Borbone.

Il primo è il "Proclama di Sua Maestà il Re Francesco Secondo" in cui tra l’altro si legge:



"Una guerra ingiusta e contro la ragione delle genti ha invaso i miei Stati, non ostante che io fossi in pace con tutte le Potenze Europee" (in Collezione delle leggi e dei decreti reali del Regno delle Due Sicilie, pag. 459);



segue l’"Atto di protesta di Sua Maestà il Re Francesco Secondo" in cui si afferma:



"Dacchè un ardito condottiero , con tutte le forze di che l’Europa rivoluzionaria dispone, ha attaccato i nostri dominii invocando il nome di un Sovrano d’Italia, congiunto ed amico, Noi abbiamo in tutti i mezzi in poter nostro combattuto durante cinque mesi per la sacra indipendenza de’ nostri Stati" (in Collezione delle leggi e dei decreti reali del Regno delle Due Sicilie, pag. 461).



rivolse al suo popolo l’8 dicembre 1860. In tale atto, che assume valenza politica e allo stesso tempo valore giuridico per le affermazioni ivi contenute, veniva sostenuto che:



"(.) ho preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta capitale per non esporla agli orrori di un bombardamento, come quelli che hanno avuto luogo più tardi in Capua ed in Ancona. Ho creduto di buona fede che il Re del Piemonte, che si diceva mio fratello, mio amico, che mi protestava disapprovare la invasione di Garibaldi, che negoziava col mio governo un’alleanza intima per veri interessi d’Italia, non avrebbe rotto tutti i patti e fatte violare tutte le leggi, per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi né dichiarazioni di guerra. Se questi erano i miei torti, preferisco le mie sventure ai trionfi dei miei avversari".



Occorre riferire, per la completezza dell’indagine, che tuttavia non indebolisce il fondamento argomentativo di quanto si sostiene, che Francesco II assunse un provvedimento normativo con risvolti molto significativi sul piano militare interno, ma si trattava di un provvedimento adottato per esclusive finalità di difesa dello Stato. Si tratta del Decreto Regio dell’11 settembre 1860 controfirmato dal Ministro Casella (Archivio di Stato di Napoli, archivio Borbone, fondo 1305, foglio 34), ove si stabiliva in premessa:



"Considerando lo stato d’invasione inqualificabile in cui trovasi il Nostro Regno, si che è urgente di adottare ogni misura diretta a mantenere la tranquillità degli onesti cittadini"; poi con l’art. 1 "Tutte le Province nelle quali trovansi stanziate Reali Truppe, sono dichiarate in istato di Guerra, ai termini delle Reali Ordinanze Militari"; e con l’art. 2 "Tutte le autorità giudiziarie e civili si metteranno alla dipendenza dei rispettivi Comandanti di Piazze chiuse o Piazze eventuali".



Tale atto, non appare inutile ribadire, seppure significativo sul piano giuridico, non legittimava un riconoscimento dello stato di guerra convenzionale, secondo le procedure consuetudinarie riconosciute e seguite dall’allora comunità degli Stati, perché non diede seguito ad alcuna azione diplomatica nè ricevette alcun tipo di riconoscimento o di riscontro dalla controparte in conflitto. Per questa ragione si coglie anche il senso di censura espresso dal Sovrano borbonico che non esitò a definirlo: "inqualificabile". Una tale espressione assume non poca rilevanza, poichè mette in luce la mancanza di qualsiasi giustificazione della vicenda militare e principalmente la carenza di qualsiasi convincente motivazione di carattere giuridico o convenzionale.

Per tali motivi la gran parte del territorio del Regno delle Due Sicilie annesso continuò a sottostare alle regole della disciplina legislativa ordinaria, senza alcun ricorso a norme di emergenza. La sostanziale diversità della scelta ordinamentale si coglie negli eventi successivi di qualche anno, in occasione dell’applicazione della legge Pica per la repressione del brigantaggio politico, ove preliminarmente il Sovrano venne chiamato ad adottare un proprio atto normativo con il quale dichiarava una zona territoriale in "stato di brigantaggio", facendo così operare la legislazione di emergenza (Inchiesta Massari sul brigantaggio, Lacaita, 1998).



§. - La mancanza, dunque, di una formale dichiarazione di guerra espressa e oggettivamente riconosciuta e sanzionata dalle parti in causa dà luogo alla violazione della sovranità di uno Stato indipendente e così come non legittima il ricorso a un intervento armato, impedisce l’entrata in vigore della disciplina normativa tipica del tempo di guerra.

Questo è il terreno su cui svolgere la riflessione in ordine a quale ordinamento giuridico e soprattutto in quale modo inquadrare le condotte di coloro che parteciparono al conflitto armato.

Certamente il conflitto, benché condotto in armi e senza dichiarazione di belligeranza, ma con la sola intimazione di lasciare il territorio del Sud e poi di Gaeta, si svolse, seppure al di fuori del contesto generale delle consolidate consuetudini, sotto il vigore della disciplina legislativa ordinaria, quella appunto del tempo di pace. Per cui i presidi normativi di riferimento sono quelli propri del tempo ordinario, vale a dire la Costituzione e i diversi corpi legislativi, come i codici civile e penale dell’epoca. Naturalmente nel caso che ci occupa all’interno delle mura vigeva su quel territorio la legislazione borbonica, mentre all’esterno e ormai in tutto il territorio del Mezzogiorno d’Italia la legislazione di riferimento era quella dello Stato sabaudo estesa ed adattata al più vasto territorio del nuovo Regno d’Italia.

Pertanto, l’assenza di una causa giustificativa del conflitto -quali la ritorsione e la rappresaglia- e la mancanza della espressa dichiarazione di guerra induce a ritenere che la vicenda che ha avuto luogo sul territorio di Gaeta deve essere qualificata come un atto di aggressione, seppure invocato e giustificato dal contesto storico che andava ormai modificando radicalmente il quadro delle potenze regionali sancito dal congresso restaurativo di Vienna del 1815. A tale determinazione si giunge anche dopo aver considerato quale modello di intervento venne seguito successivamente dal nuovo Regno d’Italia: "lo stesso modello di relazione che può esserci tra conquistatori e conquistati" (Petraccone C., Roma-Bari, 2000).

In realtà tutta l’azione di unificazione del territorio italiano, nonostante il lungo dibattito esistente tra gli esponenti della politica piemontese, seguì la linea tendenziale dell’annessione e non della fusione. Anche le leggi borboniche, ritenute dalla maggior parte della dottrina giuridica piemontese più avanzate e meglio elaborate, vennero letteralmente sopraffatte dal sistema legislativo sardo-piemontese. Non a caso l’indirizzo politico-amministrativo espresso dal potere sabaudo diede vita al fenomeno della "piemontesizzazione" ossia la materiale sostituzione in tutti i centri vitali delle amministrazioni del Mezzogiorno dei funzionari del deposto regime con alti funzionari dell’apparato burocratico inviati da Torino.

Orbene, in considerazione di un atto originario assunto in maniera arbitraria che designa una responsabilità esclusiva della condotta, tale atto non trova come riferimento operativo uno Stato nel complesso dei suoi poteri di dirigenza che aggredisce una Nazione terza per la conquista di nuovi territori, ma un soggetto autorità-persona fisica unico responsabile di tutto ciò che, nel bene e nel male, ne è seguito.

Non lo Stato Sardo-piemontese che poi assumerà la configurazione territoriale e giuridica del Regno d’Italia, ma la qualità di responsabile deve essere individuata nel comandante in capo delle truppe che aprirono, continuarono e risolsero il conflitto contro l’esercito borbonico comandato da Francesco II.

La mancanza della dichiarazione di guerra conferma del resto che l’azione venne condotta nella piena consapevolezza di delegittimare l’avversario sia da un punto di vista militare che da un punto di vista politico e giuridico.



§. - L’art. 5 dello Statuto Albertino del 1848 stabiliva che: "Al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare".

La scienza giuridica non ha tralasciato all’epoca del Regno dei Savoia di considerare il ruolo e il fondamento del potere da parte del Sovrano di esercitare il comando dell’esercito, alla ricerca dei limiti di competenza tra Governo e Corona:



"I Savoia, d’altra parte, amano mettersi alla testa delle proprie truppe al momento del combattimento e tale vocazione guerriera produce una serie di complicazioni istituzionali che a questo punto merita semplicemente riassumere, giacchè sono state già ben ricostruite, anche in alcuni dei loro aspetti più nascosti e sconcertanti"; "Così, nei cannoneggiamenti milanesi di Bava Beccaris, Antonio De Viti De Marco vede, non per nienete, un palese "contrasto tra corona e il popolo". In un certo qual senso, l’esercito è la Corona e la Corona è l’esercito" (Colombo P., Milano, 1999); "Il comando degli eserciti e delle armate è il più connesso all’origine e all’essenza della monarchia" (Brunialti A., Milano, 1935)



E in occasione della seconda guerra d’Indipendenza:



".Il Parlamento statutario veniva sostanzialmente privato di un ruolo politicamente significativo sulla decisione dell’entrata in guerra, e cioè proprio in quella che rappresentava una prova decisiva per l’esistenza di una nazione. Di fatto, nei cento anni di storia statutaria non è mai stata formalizzata alcuna deliberazione del massimo organo rappresentativo riguardo l’inizio o la fine delle ostilità" (Fiorillo M., Roma-Bari, 2009).



Il quadro che si compone all’attenzione dell’interprete mostra certamente una grave anomalia da un punto di vista storico e giuridico. Anomalia evidente rispetto alle radicate convenzioni dell’epoca, come del resto è confermato dagli studi che già nella metà del settecento ponevano a fondamento della legittimità di un conflitto armato la dichiarazione di guerra. A tale proposito il De Vattel sosteneva che la dichiarazione di guerra necessita per qualificare i caratteri della "guerra regolare" (De Vattel E., rist. Roma-Bari, 2004).

In definitiva era già chiaro e condiviso dall’opinione dei giuristi dell’epoca che se la guerra non ha la funzione di sanzione, per avervi fatto ricorso contro aggressioni o violenze ingiustificate, essa assume la veste di un "delitto", come viene sancito dal tradizionale principio del bellum iustum (Kelsen H., rist. Torino, 1990).



§. - I danni cagionati alla popolazione civile, segnatamente la morte di circa 2000 persone (secondo stime censuarie effettuate dopo alcuni mesi), la perdita di beni (109 case su 2490), la dispersione del patrimonio personale delle famiglie assediate nel territorio del quartiere antico di Gaeta (Di Fiore G., Milano, 2007), appaiono dunque da ascrivere principalmente alla condotta volontaria e determinata di casa Savoia, in persona del suo rappresentante e promotore dell’iniziativa militare.



"Gli abitanti rimasti in città, durante l’assedio, sparuti, ed allibiti dai sofferti patimenti, avendo nel volto l’impronta delle apre sofferenze, di cui sono state vittime"; ".. perché la loro patria non dimentichi tanto sacrificio, per acquistare la libertà, volendo ovviare per quanto si può il propagamento del Tifo, fidati sulla prudenza, e retto vedere del Sindaco Signor D. Raffaele Janni, danno a costui le più ampie facoltà, perché faccia scomparrire dalla Città tutte le lordure, che vi sono, aprire le strade al libero passaggio, far trasportare alla spiaggia di Serapo tutti i cadaveri Bruti, sepelliti nell’assedio, adoprando a ciò ogni sorta di risorsa, e tutto il patrimonio Comunale" (Verbale del 25 febbraio 1861).



Né valga a giustificare l’azione militare unilaterale intrapresa nel Mezzogiorno le ragioni contenute nel discorso pronunciato da Vittorio Emanuele II: "non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi!". Si tratta di un pronunciamento caratterizzato da un profilo di altissimo valore morale, ma tuttavia carente di quei necessari profili che deve rivestire da un punto di vista giuridico, nei contenuti e nelle forme, una formale dichiarazione di guerra.



















 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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- Capitolo V -

Le questioni dell’applicazione retroattiva

del diritto punitivo



§. - Da un punto di vista storico-documentario nel periodo 1859-1863 non esisteva un testo formale vigente tra le nazioni europee che potesse essere ritenuto come regolamentare dei conflitti e soprattutto delle ipotesi di responsabilità civile derivante dagli atti di aggressione portati con le armi. La ricerca storiografica fa risalire ad Ambrogio Vescovo di Milano una prima condanna morale pronunciata contro l’Imperatore Teodosio I di aver fatto massacrare gli abitanti inermi di Tessalonica. In realtà opera di riferimento sarà per molti anni il "De jure belli ac pacis" di Hugo Grotio (Parigi, 1625), quale tentativo normativo di conferire uno statuto di principi fondamentali al diritto di guerra, una sorta di ritualizzazione giuridica e di procedimento tipico per giungere ad un conflitto armato.

Attraversando la storia dell’umanità soltanto nel 1648 con il Trattato di Westfalia e il Congresso di Vienna del 1815 si pone al centro della discussione la necessità di censurare gli atti violenti contro i civili. Tuttavia i testi fondamentali del periodo storico che ci occupa restano la Convenzione di Ginevra del 22 agosto 1864 e la Convenzione dell’Aja del 18 ottobre 1907. Si tratta, è pur vero, di atti normativi convenzionali sottoscritti ed entrati in vigore successivamente alla vicenda di Gaeta, ma di prescrizioni e regole che già preesistevano in forma di diritto non scritto e consuetudinario.

A tale proposito è opportuno rilevare che gli atti convenzionali che costituiranno i paradigmi del "Diritto Internazionale Umanitario", recuperando il patrimonio delle regole consuetudinarie che formavano la tradizione in materia militare, confermano il divieto di portare atti di aggressione contro cittadini civili inermi e l’obbligo di condurre un conflitto nel rispetto di regole condivise. Resta, tuttavia, fermo il principio secondo cui il soggetto aggressore doveva essere tenuto a risarcire i danni cagionati ai civili secondo le regole legislative ordinarie all’epoca vigenti.



§. - La disamina dei fatti di Gaeta propone anche una seria considerazione in ordine alla sussistenza della responsabilità dell’illecito, quando all’epoca della sua commissione il fatto non era considerato dal legislatore come tale, da intendersi nella più ampia accezione punitiva. Si tratta, in questo modo, di applicare con efficacia retroattiva una norma che al momento della commissione del fatto non era ancora entrata in vigore.

I principi di civiltà giuridica maturati nel corso degli ultimi due secoli -si vedano la Dichiarazione del 1789 e quella successiva del 1793- escludono che si possa fare ricorso a norme entrate in vigore successivamente nell’ordinamento giuridico per giudicare fatti che precedentemente non erano regolati da alcuna disposizione precettiva. In particolare il limite dell’applicazione retroattiva della norma di legge è oggi particolarmente stringente in campo penale attraverso il divieto assoluto espresso dall’art. 25 della Costituzione italiana.

E’ pur vero che l’entrata in vigore della Costituzione del 1948 non ha impedito di infrangere quel divieto per fatti accaduti precedentemente in Italia e tale assetto precettivo deve essere considerato valido anche per i fatti che stiamo valutando.



§. - Tuttavia si è fatto ampiamente ricorso alla disapplicazione della regola ulpianea del "nullum crimen, nulla poena sine lege" allorchè la comunità umana è stata chiamata a giudicare fatti gravissimi che non potevano trovare alcuna giustificazione politica e giuridica ma che allo stesso tempo non potevano essere lasciati impuniti. E’ pur vero che la decontestualizzazione degli avvenimenti storici è un rischio sempre presente a chi giudica con le regole giuridiche successivamente entrate in vigore, ma del pari importante si appalesa la necessità di esprimere una netta censura di tipo morale, etico e giuridico per impedire che in futuro gli stessi fatti atroci si possano nuovamente compiere.

In realtà il problema della punibilità dell’"azione gravemente illecita in sé" era un principio già recepito dalla coscienza giuridica anche se non codificato. Sul punto ritornano decisive le affermazioni di Cesare Beccaria che, pur reputando invalicabile il limite concettuale del nullum crimen, apre una breccia sul piano etico allorchè in una Consulta del 1791, in materia di codificazione dei reati, afferma:



"I delitti criminali, tendenti alla distruzione della società, sono tali, che a caratterizzarli non v’è bisogno di leggi positive, poiché per tali sono qualificati dal diritto della natura e delle genti, a un dipresso egualmente riconosciuti e detestati in tutti i climi, in tutti i tempi, in tutte le forme di governo, presso tutte le civili, non barbare o selvagge nazioni" (Cesare Beccaria, Parere espresso come membro del Consiglio di Governo della Lombardia, in: Dei delitti e delle pene. Consulte criminali. Garzanti. Milano 1993).



In riferimento specifico all’oblio che interviene con il trascorrere del tempo Cesare Beccaria rispondeva in modo netto, sottolineando la natura imprescrittibile dei fatti di reato che non potevano trovare alcuna legittima giustificazione:



"Ma le leggi devono fissare un certo spazio di tempo, sì alla difesa del reo che alle prove de’ delitti, e il giudice diverrebbe legislatore se dovesse decidere del tempo necessario per provare un delitto. Parimenti quei delitti atroci, dei quali lunga resta la memoria negli uomini, quando sieno provati, non meritano alcuna prescrizione in favore del reo che si è sottratto colla fuga; ma i delitti minori ed oscuro devono togliere colla prescrizione l’incertezza della sorte di un cittadino, perché l’oscurità in cui sono stati involti, per lungo tempo i delitti toglie l’esempio della impunità, rimane intento in potere al reo di divenir migliore" (Cesare Beccaria, Livorno, 1766).



§. - In epoca contemporanea la questione della disapplicazione del divieto di efficacia retroattiva della norma penale venne evocata in occasione della istituzione del Tribunale di Norimberga nel 1945-46 chiamato a giudicare le condotte tenute dai gerarchi durante la vigenza del regime di governo nazista. La prima delle questioni poste ai giudici fu appunto quella della retroattività della norma punitiva:



"In primo luogo va osservato che la massima "Nullum crimen sine lege" non è una limitazione della sovranità, ma un principio generale di giustizia. Asserire che sia ingiusto punire coloro che, in spregio alle garanzie e ai trattati, hanno attaccato senza preavviso degli stati limitrofi è, con tutta evidenza, un assurdo, perché in simili circostanze l’aggressore sa bene che sta portando delle offese, e anziché essere ingiusto il punirlo, sarebbe ingiusto se fosse consentito che le sue azioni restassero impunite ".



In realtà il Tribunale di Norimberga si trovò ad affrontare il dilemma dell’applicazione di una norma penale elaborata nel suo Statuto istitutivo che stabiliva la punizione, anche con la pena di morte, per crimini che non erano puniti al momento della loro commissione. Appare opportuno, per gli sviluppi della vicenda che ci occupa, riportare il contenuto delle nuove categorie di illecito penale che oggi sono entrate a far parte del patrimonio del diritto positivo internazionale.



L’art. 6 dello Statuto stabiliva:



"1) Crimini contro la pace. In particolare: progettazione, preparazione, avvio o esecuzione di una guerra di aggressione o di una guerra dichiarata in violazione di accordi, trattati o garanzie internazionali, o partecipazione a un progetto comune o a un complotto al fine di portare a compimento uno degli atti citati.

2) Crimini di guerra. In particolare. Violazione di leggi o di consuetudini belliche. Questa violazioni comprendono fra l’altro l’omicidio, il maltrattamento o la deportazione di civili destinati alla schiavitù, da o nei territori occupati, l’omicidio o il maltrattamento di prigionieri di guerra o di persone in alto mare,l’uccisione i ostaggi, il saccheggio di proprietà pubblica o privata, la distruzione intenzionale di città, mercati o villaggi o ogni altra distruzione non motivata da necessità militari.

3) Crimini contro l’umanità. In particolare: omicidio, sterminio, asservimento, deportazione e altri atti inumani, commessi nei confronti della popolazione civile prima o durante la guerra, persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi commessa nell’esecuzione di uno dei delitti per i quali la corte è competente" (Demandt A., Torino, 1996).



In buona sostanza nel predetto atto normativo, dotato dei caratteri di effettività e di efficacia, sono stati codificati e assumono la veste del diritto positivo taluni principi e regole di condotte che in realtà già costituivano le "linee guida" su cui si muoveva la comunità degli Stati in occasione dei conflitti bellici. Si tratta di un atto illecito che non può trovare alcuna giuridica e naturale giustificazione, che va sempre punito e che non trova alcun limite temporale per la perseguibilità di coloro che se ne siano resi responsabili (Stella F., Bologna, 2006).



§. - Concluso il giudizio di Norimberga l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la risoluzione n. 95 dell’11 dicembre 1946 ha riconosciuto gli effetti della sentenza emessa in quella occasione giuridicamente vincolante in ambito internazionale e, quindi, con essa i principi che ne costituirono il presupposto giuridico.

Negli anni successivi vi sono stati numerosi tentativi compiuti a livello teorico per smentire le premesse di diritto della disapplicazione del principio "nullum crimen sine lege", soprattutto da parte della dottrina tedesca, in verità di una parte minoritaria di essa. In realtà l’esperienza di Norimberga ha confermato quanto aveva già sostenuto in precedenza Gustav Radbruch, secondo il quale:



"Nella coscienza dei popoli civili vi è sempre un certo nucleo (Kern) di diritto, il quale, secondo il diritto generale non può essere violato da nessuna legge o misura di autorità. Esistono principi intangibili di comportamento umano, i quali si sono sviluppati presso tutti i popoli civili sulla base di visioni etiche fondamentali evolutesi nell’arco del tempo".



E su tali premesse "in base al diritto naturale (si) disapplica il principio nullum crimen, nulla poena sine lege" (Muhm R., Milano, 1997). Tale affermazione di principio risulta attualmente interamente recepito nella "Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali" del 21 settembre 1970 con l’art. 7:



"Nulla poena sine lege - 1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. 2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili".



§. - L’Italia non è comunque estranea ad esperienza giuridiche che hanno visto il ricorso ad applicazioni con effetti retroattivi di norme penali che prevedevano nuove figure di reato. E’ accaduto nell’immediato dopoguerra quando si pose il problema morale e giuridico di punire chi tra i fascisti si era macchiato di fatti ingiustificabili per la coscienza collettiva e intollerabili per la umana convivenza (Vassalli G., Milano, 2001).

Anche in Italia gli organi giurisdizionali, e in particolare la Corte Suprema di Cassazione, non esitò a ritenere punibili i fatti seppure commessi prima dell’entrata in vigore delle nuove norme punitive, anche se si fece ricorso ad un espediente giuridico di tipo sistematico. Seguendo un preciso indirizzo interpretativo tutte le nuove fattispecie furono ancorate alle preesistenti previsioni normative dei Codici penali Zanardelli del 1889 e Rocco del 1930. Le condanne intervennero numerose e superarono indenni i molteplici controlli di legittimità e addirittura di compatibilità con la appena varata Carta Costituzionale repubblicana del 1948 (Vassalli G., Milano, 2001).

A ciò si aggiunga che il 25 gennaio 1974 il Consiglio d’Europa ha adottato la "Convenzione europea sull’imprescrittibilità dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra", recependo un lungo percorso consuetudinario già condiviso a livello internazionale. Per cui i delitti particolarmente gravi non si prescrivono con il decorso del tempo.

Peraltro, anche il nostro codice penale vigente contiene una disposizione all’art. 157 c.p. secondo la quale i reati puniti con l’ergastolo non sono soggetti a prescrizione (Patalano V., Padova, 1984).

Per quanto poi concerne il rapporto di relazione tra la prescrizione in sede civile e la prescrizione in sede penale, anche la Suprema Corte di Cassazione ha recentemente ribadito che:



"Nel caso in cui l’illecito civile sia considerato dalla legge come reato, ma il giudizio penale non sia stato promosso, anche se per mancata presentazione della querela, l’eventuale più lunga prescrizione prevista per il reato si applica anche all’azione di risarcimento, a condizione che il giudice civile accerti, incidenter tantum, e con gli strumenti probatori ed i criteri propri del procedimento civile, la sussistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi elementi costitutivi, soggettivi ed oggettivi, e la prescrizione stessa decorre dalla data del fatto" (Cass. SS.UU. civili sent. n. 27337 del 18 novembre 2008).





§. - Molti e diversi per valore e significato sono gli indizi per ritenere che le parti in conflitto in occasione dell’assedio di Gaeta, pur essendo colpevoli o vittime dello stato di fatto, erano ben consapevoli della elusione dei protocolli consuetudinari all’epoca vigenti e coscienti del fatto che erano stati violati gli equilibri che avevano garantito fino ad allora una coesistenza pacifica. In realtà l’attacco portato contro la sovranità statuale borbonica e l’assedio che ne seguì erano stati preannunciati da una dichiarazione di Vittorio Emanuele II del 10 gennaio 1859, dove però mancava qualsiasi riferimento a possibili conflitti o a dichiarazioni di guerra contro potenziali nemici. Il Sovrano soltanto implicitamente indicava l’opportunità di un suo intervento:



"Il nostro paese, piccolo per territorio, acquistò credito nei Consigli d’Europa perché grande per le idee che rappresenta, per le simpatie che esso ispira. Questa condizione non è scevra di pericoli, giacché, nel mentre rispettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi!".



In maniera più esplicita il Sovrano sabaudo esponeva i suoi intendimenti con il "Proclama di Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele a’ popoli dell’Italia meridionale" (in Collezione delle leggi e dei decreti emanati nelle Provincie continentali dell’Italia meridionale durante il periodo della dittatura, pag. 299):



"Le mie truppe si avanzano fra voi per raffermare l’ordine: Io non vengo ad imporvi la mia volontà, ma a far rispettare la vostra".



La evidente violazione dei protocolli e l’assenza della presupposta dichiarazione convenzionale utile a legittimare un possibile conflitto armato veniva ampiamente confermato -si è detto- dal proclama datato 8 dicembre 1860 di Francesco II di Borbone che in questo modo giustificava la sua partenza da Napoli. In tale atto egli, prima di ogni altra cosa, lamentava la inosservanza degli accordi negoziati con Casa Savoia e la violazione delle regole scritte e non scritte che disciplinavano le relazioni fra gli Stati sovrani e indipendenti.



§. - Tra le fonti ufficiali di quel periodo storico occorre concentrare l’attenzione sui dispacci diplomatici e le corrispondenze intercorse tra le Cancellerie dei diversi Paesi europei coinvolti nei mutamenti politici italiani. Principalmente la Francia e l’Inghilterra erano diventate protagoniste di un diverso assetto dei rapporti di forza del continente, sovvertendo gli equilibri dettati dalle determinazioni politiche e giuridiche del Congresso di Vienna del 1815. Il loro diretto coinvolgimento è provato anche dalla presenza nella rada di Gaeta o in prossimità delle coste italiane delle navi della marina britannica e francese pronte ad intervenire a seconda dei diversi scenari politici che di giorno in giorno si andavano delineando tra la fine del 1860 e l’inizio del 1861.

Il deterioramento dei rapporti, prima familiari e poi diplomatici tra il Sovrano piemontese e quello del Regno di Napoli, apriva la strada ad un intervento militare che non lascava indenne nemmeno il territorio dello Stato della Chiesa porta di accesso al Sud:



"ancora una volta contro ogni corretta regola consuetudinaria internazionale, le truppe piemontesi sconfinavano nel territorio papale, suscitando un coro di proteste diplomatiche ed il ritiro del ministro francese da Torino" (Bordonali S., Messina, 1990).



Ed ancora, dall’esame dei dispacci diplomatici emerge un giudizio preciso circa l’azione militare intrapresa:



"Le altre potenze europee, per loro scelta o per necessità meno coinvolte e comunque generalmente ostili a repentini cambiamenti, si orientavano sempre più per un Congresso il cui sbocco naturale non sarebbe potuto essere altro che un appoggio al papa ed il soccorso al re Francesco II, ingiustamente attaccato" (Bordonali S., Messina, 1990).



Circa poi il possibile intervento della flotta francese in soccorso del Sovrano borbonico assediato in Gaeta, nonostante l’impegno a tener fede al principio del "non intervento":



"Siffatto principio si prestava tuttavia ad interpretazioni, ed è interessante notare come esso, secondo il ministro degli Esteri inglese Russell, che per l’appunto ne parlava con il suo rappresentante a Torino, il filopiemontese Hudson, si prestasse ad essere riguardato indifferentemente da due punti di vista. Da quello della diplomazia, che unanime avrebbero dovuto condannare le "aggressioni" esterne, nella fattispecie quelle piemontesi" (Bordonali S., Messina, 1990).



Il quadro storico che è consentito ricostruire alla luce di fatti diplomatici e politici di assoluta rilevanza, adeguatamente riscontrati da fonti ufficiali e documenti pubblici di provenienza esterna ai due ordinamenti sovrani sul territorio italiano, seppure non estranei alla tessitura di nuove alleanze e alla ricerca di nuovi equilibri continentali, depongono nel senso di testimoniare l’atto aggressivo di uno Stato contro la sovranità di un altro:



"Il regolare mantenimento di rapporti diplomatici nonostante la presenza non richiesta di truppe nel Napoletano, appariva davvero contraria alle regole di correttezza proprie della diplomazia e pertanto veniva ad offuscare non poco il favore che derivava dalla politica piemontese per il suo ispirarsi al grande ideale unitario e liberale, e l’opportunità politica che essa forniva d’arginare un dilagante rivoluzionarismo inconcludente e settario" (Bordonali S., Messina, 1990).



Ulteriori elementi di riscontro alle motivazioni che muovevano la diplomazia del Conte di Cavour tesa a favorire la nascita di un clima ostile al Sovrano borbonico e il favore per un’azione di forza da parte del suo Sovrano si ritrovano nel Carteggio tra il Conte di Cavour e Costantino Nigra dal 1858 al 1861 - Volume 4 "La liberazione del Mezzogiorno".



§. - Gli atti dell’epoca, dunque, offrono uno spaccato utile a ricostruire l’arbitrarietà dei fatti bellici e allo stesso modo la coraggiosa esposizione dei responsabili del Comune di Gaeta lascia emergere precise rivendicazioni che non possono essere ricondotte alle prevedibili conseguenze di un conflitto bellico convenzionale:



"Or chiediamo: Gran parte di questo danno fatto con deliberata volontà dalle necessità dell’Esercito, e per vantaggio dell’intera Nazione che ha di comune coi casi fortuiti ed inesorabili di guerra? E se venne così cagionato come a titolo di spropriazione forzata per pubblica utilità e con quelle tristi conseguenze per possessori, potrebbe lo Stato posar la mano sulla coscienza, e dissimularne il risentimento? Ma poichè ci appelliamo alla coscienza, non credasi, che questa città s’astenga e si asterrà dal presentare diversamente le sue ragioni per mera pusillanimità; nò, ma pel rispetto che ha ed avrà sempre verso le Autorità legislative ed amministrative, sicura d’esserne contraccambiata in giusta considerazione" (Memoria della Città di Gaeta inviata al Parlamento di Torino nel 1865).



§. - Le fonti in realtà segnalano anche un’altra circostanza registrata nel corso dell’assedio che non può essere trascurata nel quadro di una valutazione complessiva dei comportamenti e delle condotte giuridicamente rilevanti tenute all’epoca. Si tratta dell’ordine impartito dal Gen. Enrico Cialdini di proseguire, nonostante fosse stata da egli stesso concessa una tregua per dare corso alle trattative per la capitolazione, nei bombardamenti sul quartiere antico di Gaeta (Di Fiore G., Milano, 2007). Si trattava certamente di un espediente messo in campo per indebolire la tenacia e le motivazioni degli assediati, ma vennero registrate ingiustificate perdite civili di significativa importanza (Lettera del Governatore Ritucci a Cialdini del 12 febbraio 1861; Salzillo, Napoli, 2000).



§. - Altro aspetto che non può sfuggire all’attenzione è la decisa sproporzione tra la capacità dei mezzi bellici adottati a difesa e del numero dei militari borbonici rispetto alla capacità di fuoco e ai reparti impiegati dagli assedianti dell’esercito piemontese composta da 15.000 uomini e 42 cannoni (Quandel P., Roma, 1863). La soverchiante forza bellica era dotata di una tale potenzialità aggressiva e distruttiva ben più funzionale ad obiettivi da conseguire nella sussistenza di uno stato di guerra dichiarato, piuttosto che adoperati in un tempo di pace ove di fatto si era instaurato un conflitto privo di giuridica e politica motivazione (Di Fiore G., Torino, 2004). Non a caso gli ordini impartiti dal Gen. Enrico Cialdini miravano a finalità chiaramente distruttive attraverso il bombardamento della città piuttosto che alla neutralizzazione delle postazioni belliche e delle fortificazioni.

























- Capitolo VI -

Il quadro normativo compatibile con i fatti storici in esame



§. - Poste tali premesse occorre a questo punto individuare quale disciplina giuridica possa essere ritenuta applicabile ai fatti illeciti commessi contro la popolazione civile in occasione dell’assedio di Gaeta da parte delle truppe di Vittorio Emanuele II.



§. - In questa sede si ritiene opportuno tracciare soltanto le linee guida di un possibile intervento risarcitorio, lasciando una trattazione più puntuale degli aspetti giuridici ai successivi atti di natura processuale.



§. - Il primo limite di natura giuridica da valutare, se valicabile o meno, è la questione del tempo trascorso e dunque la possibilità di proporre un’azione giudiziaria tesa ad ottenere il risarcimento dei danni.

Si è già detto che non esiste discontinuità della previsione normativa relativa al diritto al risarcimento dei danni, il quale risulta previsto sotto tutte le legislazioni codicistiche dei diversi ordinamenti che si sono succeduti sul territorio italiano a partire dal 1860. Non vi è stata alcuna soluzione di continuità della previsione dell’obbligo alla riparazione dell’illecito. Piuttosto il problema è quello dell’attuale persistenza di quei diritti e la correlativa azionabilità dei medesimi, dopo il decorso di un periodo storico di circa 150 anni.

Il nostro codice civile attualmente vigente, chiamato a regolare l’azione di risarcimento, esclude che possa trovare legittima attualità una tale pretesa risarcitoria, dal momento che il termine legale fissato per proporre istanza è di 5 anni dal giorno in cui il fatto illecito si è verificato (secondo il combinato disposto degli artt. 2043-2047 c.c.). Esistono, è vero, atti interruttivi, rappresentati dalle rinnovate richieste di risarcimento dei danni formulate dalla Municipalità di Gaeta fino al 1914 dall’allora Sindaco Gennaro Migliarra, ma allo stato non appaiono sufficienti a giustificare ipotesi di interruzioni o di sospensione del decorso del termine prescrizionale, anche se rappresentano una prova significativa ed inoppugnabile della fondatezza della rivendicazione e dei danni patiti.

E’ pur vero che nella complessa vicenda si intrecciano istanze che sono proprie del diritto civile con situazione giuridiche rilevanti per il diritto amministrativo. Come del pari si intrecciano atti di rilevanza autonoma dell’Istituzione con atti di "alta amministrazione" e "atti politici" che sfuggono a qualsiasi tipo di sindacato.



§. - La questione giuridica invece potrebbe essere posta e risolta in termini radicalmente diversi. La pretesa risarcitoria in questo caso non è fondata e non può esserlo soltanto sul terreno del diritto civile. La legittimazione a far valere l’istanza potrebbe trovare le sue ragioni nelle vicende di profilo penalistico in cui è possibile inquadrare giuridicamente i fatti del 1860-1861.

Occorre preliminarmente premettere che da un punto di vista penale non esiste alcuna possibilità di ritenere sussistenti a carico di persone fisiche oggi viventi gli eventuali reati commessi dagli antenati. Lo esclude il "senso comune" ma soprattutto lo esclude il fondamentale principio di civiltà recepito dalla nostra Carta Costituzionale all’art. 27 ove viene sancito che la "responsabilità penale è personale". Mai e poi mai deve essere ritenuto soltanto possibile ipotizzare responsabilità per "fatto altrui" e non può sfiorarci neppure il semplice sospetto di ritenere responsabili se non le persone fisiche che all’epoca si resero autori di possibili condotte illecite.



§. - Tuttavia la vicenda, nel lambire il settore della materia penale, indirizza l’indagine sul vigente art. 2947 del codice civile -di cui sopra si è fanno cenno- che, nel precisare che i danni cagionati con dolo o colpa seguono le vicenda disciplinare delle prescrizioni brevi, con il comma III stabilisce diversamente che: "In ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile".

Dal momento che i fatti commessi dall’esercito sabaudo possono essere qualificati come "plurimi omicidi aggravati" o addirittura "crimini contro l’manità" -come sopra si è tentato di illustrare- e tali crimini sono dichiarati dalle leggi attuali, dalle leggi dell’epoca dei diversi ordinamenti e ritenuti dalla coscienza collettiva imprescrittibili, il caso ricade sotto la disciplina in deroga stabilita appunto dal comma III dell’art. 2947 c.c., per cui legittimamente coloro che risultano essere stati danneggiati, anzi i discendenti di coloro che possano documentare di essere stati danneggiati, hanno ancora il diritto a vedersi riconosciuto il risarcimento dei danni derivanti dall’assedio.



§. - Rinvenuta la disciplina normativa prevalente il problema si sposta quindi sul piano della prova del fatto illecito e della legittimazione attiva ad agire in sede giurisdizionale.

In ordine alla prova dei danni e alla quantificazione degli stessi, vale a dire il necessario corredo probatorio documentale, occorre far riferimento alla copiosa documentazione già presente agli atti del Comune di Gaeta.

"Per la valutazione e la documentazione dei danni subiti dai cittadini, il 23 marzo fu nominata una commissione formata da decurioni, proprietari e periti, di cui fu magna pars l’architetto Giuseppeantonio De Arcangelis" (Scirocco A., Gaeta, 1991).



In verità sorprende l’altissimo grado di affidabilità delle fonti in questo caso, poiché non si annoverano precedenti storici in grado di mostrare con tanta compiuta indagine il preciso quadro dei danni subiti dalle persone, dalle strutture edilizie e dai beni privati.

Per quanto invece riguarda il soggetto che deve essere chiamato a rispondere dei danni, riteniamo che non sia da escludere che possa essere anche a titolo di solidarietà lo Stato italiano. In realtà, e si è già detto, che l’assedio impedì la celebrazione del Plebiscito di annessione e per questo motivo l’atto di aggressione è da ascrivere in via principale a Vittorio Emanuele II in qualità di comandante in capo dell’esercito sabaudo. La mancanza di una dichiarazione di guerra, in assenza del regime legislativo speciale dettato per il tempo del conflitto bellico, non consente di considerare come legittimi avversari i due contendenti, ma di ritenere che vi sia l’autore di un atto aggressivo e chi, legittimo Sovrano sul suo territorio, quell’atto aggressivo lo ha subito.

Allo stesso modo si deve ritenere che la popolazione che rispondeva all’ordinamento giuridico borbonico non era composta da soggetti qualificabili come semplici civili e potenziali vittime della conflitto bellico, ma da inermi cittadini fatti oggetto di atti di violenza, ingiustificati ed ingiustificabili.

Ne forma ragione di riscontro il Decreto adottato dal Prodittatore Giorgio Pallavicino e dal Ministro dell’Interno Raffaele Conforti nel 1861 che intervenivano in nome e per conto del loro Sovrano:



"In nome di S.M. Vittorio Emanuele Re d’Italia. Il Prodittatore in virtù dell’autorità a lui delegata in esecuzione degli ordini del Dittatore

Decreta

Art. 1. Le dimande di coloro che hanno sofferto danno dalla guerra saranno prese in seria considerazione, e ciascuno di danneggiato avrà il corrispondente compenso, salvo il caso in cui i danni si siano sofferti per avere parteggiato coi nemici. Art. 2. A tal uopo sarà nominata una Giunta di uomini integri e capaci. Le dimande dei danneggiati dovranno presentarsi alla Giunta nel termine improrogabile di mesi due, a contare dal giorni in cui nel giornale Ufficiale saranno pubblicati i nomi di coloro che la compongono. I Ministri dell’Interno delle Finanze sono incaricati della esecuzione del presente Decreto" (Memoria della Città di Gaeta inviata al Parlamento di Torino nel 1865).




- Capitolo VII -

Le possibili azioni riparative da intraprendere



§. - L’ampia elaborazione storica sul tema dell’opera risorgimentale di creazione dell’Unità territoriale e politica è unanime nel ritenere che all’esito della lodevole e auspicata iniziativa sia mancato un intervento di pacificazione nazionale. La legislazione penale di emergenza e la mancata omogeneità dell’azione amministrativa mirata al risanamento sociale ed economico del Mezzogiorno hanno acuito l’originaria distonia di iniziative unitarie realizzate attraverso interventi di annessione territoriale.



§. - Vero è che solo il divenire successivo della storia umana proporrà alla coscienza collettiva internazionale strumenti di pacificazione dove la convivenza di diverse etnie può continuare senza conflitti ma con spirito di reciproca collaborazione, nel quadro di una medesima entità statuale sovrana e condivisa. Questo nuovo modello di riabilitazione collettiva ha trovato il suo esordio in Sudafrica dove la reciproca ammissione degli errori e dei conflitti sociali e razziali ha consentito l’instaurarsi di un clima di pacifica convivenza (Semelin, Torino, 2007).



§. - L’inquadramento giuridico dei fatti storici accaduti nel corso dell’assedio di Gaeta può aprire la strada del ricorso ad azioni giudiziarie secondo le premesse poste, intraprendendo iniziative innanzi la giurisdizione dello Stato italiano, convenendo principalmente in giudizio i discendenti legittimi di Casa Savoia e in via di litisconsorte necessario lo stesso Stato italiano come successore di tutti i rapporti giuridico-patrimoniali dell’ordinamento precedente.

I legittimati possono essere riconosciuti negli eredi dei civili che persero la vita e i beni durante l’assedio, secondo la minuziosa ricognizione fatta svolgere dall’allora Decurionato del Comune di Gaeta (Di Fiore G., Milano, 2007).

Legittimata è anche l’attuale municipalità che, oltre a chiedere il risarcimento dei danni materiali, può avanzare anche richiesta di sdemanializzazione dei beni indicati sempre nelle delibere comunali dell’epoca.



§. - Sul tempo trascorso e l’oblio prescrittivo deve essere a questo proposito opportunamente rammentato che le giuste e fondate rivendicazioni non sempre risultano insoddisfatte dal diritto in ragione del divenire della storia. Anche l’attuale sistema della giurisdizione italiana ha preso atto del fatto che gli illeciti che hanno scosso la coscienza collettiva di un popolo vanno perseguiti anche a monito dell’avvenire.

Recentemente con la sentenza n. 5044 dell’11 marzo 2004 e con la successiva ordinanza n. 14201 del 6 maggio 2008 la Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite Civili ha stabilito il principio di diritto secondo cui lo stato della Repubblica Federale di Germania può essere chiamato a risarcire i danni personali cagionati ai deportati nei campi di lavoro sotto il regime nazista. Anche in questo caso si è ritenuto che la categoria giuridica dei crimini contro l’umanità superasse lo steccato del tempo della prescrizione relativa alle conseguenze civili derivanti da atti illeciti commessi oltre 60 anni orsono. Così come risulta superabile il limite della modifica ordinamentale per effetto della successione dei diversi apparati statali e costituzionali.

La Corte di Cassazione, infatti, enuncia un principio di diritto di carattere generale che prescinde da limiti temporali:



"il rispetto dei diritti inviolabili della persona ha assunto, anche nell’ordinamento internazionale, il ruolo di principio fondamentale per il suo contenuto assiologico di metavalore" (Cass. SS.UU. civili sent. n. 14201/08).



§. - Egualmente azione giudiziaria potrebbe essere promossa per le medesime ragioni dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo i precetti recepiti dall’apposito Trattato.



§. - Al di là delle azioni giudiziarie, sarebbe invece auspicabile trovare la giusta capacità di iniziativa per addivenire ad un dialogo pubblico, fondato su esigenze di tipo etico, tra la comunità gaetana e i discendenti di Casa Savoia. Le ragioni dell’onore e del buon nome di una ex casa regnante dovrebbero motivare gli attuali rappresentanti della famiglia Savoia a farsi continuatori di quell’opera di pacificazione e di riparazione intrapresa dal Luogotenente generale il Principe di Carignano, nominato con "Decreto mediante il quale il Principe Eugenio di Savoja Carignano è nominato Luogotenente generale nelle provincie napoletane" del 3 gennaio 1861 (in Collezione delle leggi e dei decreti emanati nelle Provincie continentali dell’Italia meridionale durante il periodo della luogotenenza, pag. 345) l’11 gennaio 1861, allorchè volle rendersi personalmente conto di quanti e quali danni l’assedio di Gaeta aveva cagionato contro civili inermi e contro una città sovrana. La particolare sensibilità del Carignano lo spinse ad assumere l’impegno morale di rappresentare le giuste ragioni di Gaeta presso il Sovrano Sabaudo, anche se purtroppo non venne dato alcun seguito a quel gesto di alto valore umano e sociale.



"Comando Generale del 4° Corpo d’armata. Castellone, li 12 gennaio 1861. S.A.R. il Principe di Carignano visitando ieri le posizioni occupate dalla Truppe, vide i gravi ed inevitabili guasti della guerra prolungata in questo paese. Sensibile al danno di tanta parte della popolazione S.A.R. m’incarica di assicurare la S.V., Ill.ma, e per lei mezzo questi abitanti, che a guerra ultimata il Governo di S.M. provvederà all’equo e maggiore possibile risarcimento.... Firmato Cialdini" (Memoria della Città di Gaeta inviata al Parlamento di Torino nel 1865).

Tale assunzione di responsabilità venne personalmente, anche se implicitamente, confermata dalla visita svolta successivamente dallo stesso Vittorio Emanuele II in Gaeta:



"Ma anche qui una visita di tutte la più illustre rimove la nebbia e riconforta gli animi - Nel 28 aprile 1862 S.M. Vittorio Emanuele fu tra noi; mirò quelle ruine il nobile Sovrano ed al commovente sguardo, a’ tronchi accenti ben dimostrò che in cuor suo dette una lagrima di compassione, e "Recate i verbali" disse alle Autorità municipali che seguivano, accennando a’ verbali della perizia de’ danni. Ma a pochi istanti il Re partì; si volle raggiungerlo a Napoli; era di qui anche partito" (Memoria della Città di Gaeta inviata al Parlamento di Torino nel 1865).



Si aggiunga che successivamente ai fatti il Governo Torinese, nel riconoscere le fondate ragioni del credito, assunse un preciso impegno:



"La richiesta delle lire sessantamila è il frutto di un dovere, di un’obbligazione assunta dal cessato Ministero. Senza il decreto, che le accordava altri duri sacrifici non si sarebbero sofferti dal municipio" (Delibera del 9 aprile 1862).



Sul piano giuridico la circostanza riportata indurrebbe a richiamare la nota controversia circa la natura giuridica di una pretesa creditoria nei confronti dell’Amministrazione statale e semmai oltre ad un generico interesse di fatto all’indennizzo, possa essere ritenuto configurabile un vero e proprio diritto soggettivo. In realtà prima la dichiarazione regia e poi quella governativa non sono soltanto da intendersi come una semplice ricognizione dei luoghi ma, stando anche al tono ed ai contenuti dell’atto comunale, si devono recepire come un vero e proprio riconoscimento di un debito che originano una legittima aspettativa di diritto da parte di chi si era presentato come vittima dei danni (Sandulli A.M., Napoli, 1989; Pambusa A., Torino, 1998).



§. - Sarebbe il caso di convenire formalmente i discendenti dei Savoia in Gaeta, secondo il modello stragiudiziale dell’arbitrato, innanzi a un "Comitato etico di pacificazione", invocando i doveri dell’onore e dei fondamentali principi morali che reggono la storia secolare della ex Casa regnante, per discutere alla luce dei fatti storici e di elementi di riscontro inoppugnabili della necessità di porre la parola fine ad un conflitto che sottotraccia ha segnato la storia dell’Unità d’Italia.

Un Comitato etico formato e presieduto da personalità indipendenti, esperti del diritto, come ex Presidenti della Corte Costituzionale e giuristi di chiara fama, immuni tutti da pregiudizi storici ed aperti alla riconquista dei valori umani e sociali che devono qualificare una moderna e pacifica convivenza.



§. - Secondo altro profilo non va disatteso il fatto che lo Stato italiano del 1861 si rese garante dell’indennizzo in favore della popolazione di Gaeta. Lo documentano le fonti che danno conto dell’assunzione di un debito nei confronti di una città che aveva subito oltre misura gli effetti di uno stato di guerra che mostrava seri caratteri di anomalia rispetto ai modelli convenzionali.

Risulta ormai ampiamente documentato che i danni cagionati alle strutture civili e agli stessi cittadini non furono contenuti "nei limiti di stretta necessità":



"Il decurionato ha considerato nulla ostare alla dimostrazione di affetto verso l’augusto Nostro Sovrano, e Principe, lo stato di sfacelo di questa Città, e Borgo da pochi giorni liberata dal memorabile, e singolare assedio, in cui la truppa assediata, benché nazionale, era la vera nemica dei suoi abitanti, l’assediante benché con foga spaventevole, ed orroroso, usante delle sue Artiglierie, era l’amica protettrice di essi" (Verbale del 28 febbraio 1861);

"Divenuta questa città Teatro di guerra fu il bersaglio delle truppe belligeranti, e degli assediati venne ridotta nello stato di ruine, e di squallore" (Verbale del 10 giugno 1861).



E’ pur vero che soltanto con il Regio Decreto n. 441 del 13 maggio 1915 venne formalmente riconosciuto il diritto agli indennizzi derivanti da un conflitto bellico, ma occorre allo stesso tempo considerare che il riconoscimento del debito da parte di Casa Savoia e successivamente dello Stato italiano, a seguito di un’accurata ricognizione, ha radicato irrevocabilmente un diritto a prescindere da fonti normative che, seppure intervenute successivamente, non fanno altro che confermare la sussistenza di un diritto soggettivo (Correale G., Roma, 2007).

Resta comunque decisivo quanto stabiliva lo Statuto Albertino, naturalmente vigente all’epoca dei fatti in esame, con l’ art. 29: "Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili. Tuttavia quando l’interesse pubblico legalmente accertato, lo esiga, si può essere tenuti a cederle in tutto o in parte, mediante una giusta indennità conformemente alle leggi".



§. - L’occasione propizia potrebbe essere quella delle Celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia, si coglierebbe in questo modo l’esigenza di conciliare le insoddisfatte istanze attraverso un opportuno dialogo tra cronaca e Storia, per sedare l’anelito che i cittadini gaetani dell’epoca lasciarono nelle carte e nelle coscienze dei propri discendenti:



"..non credasi, che questa città s’astenga e si asterrà dal presentare diversamente le sue ragioni per mera pusillanimità;" (Memoria della Città di Gaeta inviata al Parlamento di Torino nel 1865).





Prof.Avv. Pasquale TRONCONE




P.S. Si prega il lettore di leggere per intero il presente lavoro onde evitare, attraverso una lettura parziale o per singole proposizioni, di ricavarne un senso diverso da quello che l’autore ha in realtà inteso darne.

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