venerdì 19 aprile 2013 - ///

Frammenti di Iraq nel caos siriano

Il fermo (e non "sequestro") dei 4 reporter italiani in Siria ha costretto i media a gettare la luce sulla formazione militare islamista ritenuta responsabile del gesto: Jabhat al-Nursa (Fronte di Supporto).

Si tratta di una sigla di miliziani fondamentalisti d'ispirazione qaidista, iscritta nella lista USA dei gruppi terroristi, salita alla ribalta agli inizi dello scorso anno come sedicente responsabile di una serie di attentati contro il regime di Bashar al-Assad. Secondo il Washington Post sarebbe il quarto gruppo armato attivo in Siria per dimensioni (benché i numeri sull'effettiva consistenza delle bande ribelli citati nell'articolo siano esagerati). In gennaio girava voce che avesse instaurato un emirato islamico nella Siria orientale, come ribadito oggi da Pepe Escobar sull'Asia Times.

Il fattore Iraq

Un'analisi di Ennio Remondino su Globalist traccia una sintesi della Siria in cui i 4 italiani erano stati fermati. Tra le altre cose, l'articolo spiega come il progressivo aggravarsi del conflitto in Siria stia favorendo l'infiltrazione e l'ascesa di movimenti jihadisti, provenienti soprattutto dall'Iraq (alcune foto). Un anno fa scrivevo:

oggi gli insorti iracheni utilizzano le stesse reti di comunicazione e trasporto percorse – in senso inverso – negli anni dal 2003 al 2008. Ne consegue che la crescente violenza in Siria è in parte frutto di un disegno tracciato dall'interno del vicino Iraq. Tutti a Baghdad sono interessati al corso degli eventi a Damasco: il primo ministro al-Maliki, al-Qa'ida, i trafficanti di armi, i sadristi. Ciascuno di loro ha qualcosa da guadagnare o proteggere. E finché l'instabilità permane, sempre più iracheni saranno incoraggiati a gettarsi nella mischia. Alimentando una spirale di violenza sempre più fuori controllo.

Comunemente si pensa che la politica dell'Iraq verso la Siria sia eterodiretta dall'Iran, ma questa semplicistica interpretazione trascura un fatto. In realtà, il tiepido sostegno del premier al-Maliki al regime di Assad è dettato dalla preoccupazione che la maggioranza sunnita possa sconfiggere il presidente e prendere il controllo della Siria che verrà. Così ufficialmente Baghdad si mantiene neutrale verso Damasco, ma allo stesso tempo i continua ad invocare una soluzione diplomatica al conflitto. Limes, in una lunga analisi sulle relazioni tra Iraq e Siria alla luce della guerra civile a Damasco, spiega:

Una minaccia ancor più incontrollabile è quella di un fronte jihadista siriano,interessato a elaborare forme di cooperazione più compiute con i colleghi iracheni. Questo perché Damasco non è in grado di contenere il conflitto all’interno dei propri confini, né ciò rientra nei suoi interessi legati alla trasformazione della rivolta popolare in un conflitto etnico (arabo-curdo) e confessionale (sunnita-sciita) su scala regionale. I legami tra sfera jihadista irachena e siriana sono ormai evidenti, specialmente per quanto riguarda una delle formazioni più note dell’attuale escalation militare: il Fronte di supporto (Gabhat al-Nusra). Alcuni funzionari americani avevano attribuito i primi tre grandi attentati suicidi a cavallo tra il 2011 e il 2012 (23 dicembre e 6 gennaio a Damasco, 10 febbraio ad Aleppo) allo Stato islamico dell’Iraq (dawlat al-’iraq al-islamiyya), la filiale irachena di al-Qa‘ida, per poi assistere alla rivendicazione degli ultimi due attacchi da parte del Fronte (19). Il gruppo jihadista segue inoltre un modus operandi tipico delle formazioni qaidiste irachene (20).

Non è da escludere che il regime siriano, pur avendo perso il controllo di molti di questi gruppi, mantenga i legami intessuti con i militanti durante gli anni dell’occupazione americana (21). Bagdad si trova pertanto nel mirino sia del regime siriano, sia dei jihadisti siro-iracheni. Del resto, la fase in cui è entrato l’Iraq presenta alcune somiglianze con la situazione siriana: il fattore confessionale affermatosi come reazione a politiche percepite come discriminatorie all’interno di un movimento originariamente laico; la marginalizzazione economica delle aree teatro delle manifestazioni; la rottura dei legami tribali tra Stato e capi clan, a favore di attori regionali interessati a fomentare la destabilizzazione.

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È in questo contesto che possono inserirsi i jihadisti di ritorno dalla Siria e che possono nascere nuove alleanze con baatisti, qaidisti, ex militanti delle sahwa e capi tribali. Il successo di tali alleanze dipende molto da quanto Turchia e paesi del Golfo riusciranno a sfruttare lo sfaldamento dei legami tra Baghdad, Damasco e i clan arabi. Non è un caso che Nawaf Basir e Nawaf al-Faris siano fuggiti proprio ad Ankara dopo aver abbandonato la Siria. Su queste premesse, acquisiscono un primo significato la formazione di un nebuloso esercito iracheno libero in settembre a Ninive (31), le speculazioni circa un suo addestramento turco (32) e il coinvolgimento di esponenti del clan Dulaym (33).

Pur mancando i presupposti per una fitta serie di diserzioni sul modello siriano, il rischio dell’emersione di nuove fasce transnazionali di resistenza armata è più che concreto, anche perché al-Maliki non ha condotto alcuna riforma in linea con le rivendicazioni dell’elettorato sunnita (34). L’esperimento fallimentare della democrazia irachena, avviata dall’occupazione americana, rischia quindi di essere travolto dalle mire espansionistiche dell’asse turco-arabo sunnita e dalle conseguenze dirette del collasso delle istituzioni siriane. L’Iraq va dunque visto come un monito per la Siria, in virtù della sua esperienza fallimentare di riconciliazione nazionale e della deriva confessionale della resistenza jihadista.

Alleanze qaidiste

Al-Qa'ida in Iraq entra ufficialmente nel conflitto siriano l'11 marzo, quando rivendica la paternità di un attentato in cui perdono la vita 48 soldati siriani e nove guardie irachene.

Praticamente un mese dopo, l'8 aprile, Abu Bakr al-Baghdadi, capo del gruppo qaidista, annuncia che la fusione tra la sua organizzazione e Jabhat al-Nusra in Siria. Nel contempo, afferma che lo Stato Islamico in Iraq è stato coinvolto nella guerra civile siriana fin dall'inizio, di fatto confermando l'idea da sempre sostenuta dal regime siriano di una rivolta condotta dai jihadisti.

Ma a smentire la notizia della fusione è proprio il capo di al-Nusra, che in un messaggio audio promette fedeltà ad Ayman al-Zawahri, prendendo però le distanze da al-Qa'ida in Iraq. Non solo. L'annuncio di al-Baghdadi solleva anche la reazione del Free Syrian Army, il quale ribadisce la propria distanza ideologica da al-Nusra.

Come si spiegano tutte queste prese di posizione? Secondo Lorenzo Declich:

Alcuni analisti, visto "l'omaggio", affermano che "l'ordine" di fondere le due organizzazioni sia arrivato direttamente da Ayman al-Zawahiri.
Se così fosse la Jabhat al-nusra avrebbe disatteso un ordine.
Più probabilmente l'intera vicenda è, lasciando da parte al-Zawahiri, il risultato di un antagonismo fra le sigle irachena e siriana.
Non bisogna dimenticare che lo Stato Islamico Iracheno, cioè al-Qaida irachena, non ha più molto seguito in Iraq, essendosi votato sostanzialmente al caos per aver perseguito negli anni una strategia dinamitarda cieca (molte vittime innocenti). La Jabhat al-nusra, invece, ha in pochi mesi raccolto attorno a sé molti consensi e molti combattenti, impegnandosì certamente in attacchi terroristici-dinamitardi, ma anche in vere e proprie battaglie, nelle quali ha potuto mostrare il coraggio dei propri affiliati.
Questa "mossa" del capo di al-Qaida in Iraq può essere dunque letta come un estremo tentativo di "mettere il cappello" sulla Jabhat al-nusra.
Un tentativo che, fra l'altro, si è rivelato un boomerang mediatico, andando controcorrente rispetto a quella che era stata individuata dagli osservatori come una "strategia di dissimulazione" della Jabhat al-nusra, tesa a farsi ben volere dalla popolazione.
Una strategia che stava funzionando e che ora non funzionerà più, o funzionerà molto meno.
Da diverse aree della Siria "liberata", luoghi dove le nuove entità politiche stanno costruendo il "dopo Asad", giungono fra l'altro notizie di tensioni fra militanti della Jabhat al-nusra e di altre formazioni.
Tensioni che fanno preconizzare un lungo e turbolento "post-Asad".
Al tutto si aggiungono le dichiarazioni sdegnate dei Comitati di Coordinamento Locali i quali, nonostante le violenze e le armi, rimangono l'unico vero organismo politico della rivolta siriana:
"I Comitati di Coordinamento Locali" si afferma in un comunicato "rifiutano completamente le affermazioni di [...] Zawahiri riguardanti la fondazione di uno Stato islamico in Siria [...]. I CCL condannano le interferenze di Zawahiri negli affari interni alla Siria [...] Solo i siriani decideranno il futuro del loro paese. I CCL ribadiscono, di nuovo, che la rivoluzione siriana ha come obbiettivi la libertà, la giustizia e uno Stato civile, pluralista e democratico".

Assad dopo Assad?

I risvolti politici delle giravolte di cui sopra sono evidenti. A parole, l'obiettivo comune dell'opposizione siriana - nelle sue varie diramazioni - è la caduta di Assad, ma la frammentazione esistente al suo interno e le infiltrazioni jihadiste vanno tutte a vantaggio del presidente siriano. Il quale sembrava spacciato fino a pochi mesi fa e invece ora, complice l'inerzia della comunità internazionale, potrebbe rimanere in carica fino alle presidenziali del 2014. E magari anche vincerle.




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