martedì 18 maggio 2021 - La bottega del Barbieri

Fra Gaza e Gerusalemme

Siamo di fronte all’ennesima, grave, acutizzazione di una crisi che continua strisciante da decine di anni. Lo stillicidio di morti e feriti quasi quotidiani in Cisgiordania e Gerusalemme Est per mano dei coloni o dell’esercito israeliano, gli arresti arbitrari anche e sempre più spesso di minori e le condizioni di Gaza sono lo scenario ideale per l’accensione di una miccia. Se da una parte è un copione già collaudato, dall’altra presenta lati innovativi. Mentre continuano ad arrivare notizie terribili, proviamo ad analizzare il quadro degli eventi.

di Susanna Sinigaglia

 

La storia che si ripete

Quando la leadership israeliana deve affrontare problemi interni cui non vuole, o non può, dare risposte ricorre al vecchio espediente d’indirizzare l’attenzione pubblica verso il “nemico”. E chi lo rappresenta meglio dei palestinesi, così alla portata di mano, addirittura a due passi da casa? In Israele, negli ultimi due anni, si sono tenute 4 votazioni e, dopo l’ultima, Netanyahu non è riuscito a formare un governo. Perciò rischiava di perdere la carica di primo ministro e ritrovarsi senza scudi protettivi di fronte al tribunale che lo sta giudicando per corruzione.

Inoltre l’incidente del monte Meron, poco più di un mese fa, non ha contribuito ad accrescere la popolarità di chi ha permesso, quando era ancora in corso la pandemia, a circa 100.000 persone di radunarsi per una cerimonia religiosa.

Aggiungiamo a queste ragioni quella che si trascina da anni: la crescente frammentazione della società israeliana. Al suo interno convivono a malapena gruppi molto diversi e con interessi molto diversi. Tagliando un po’ con l’accetta abbiamo: da una parte i religiosi – fra cui però ci sono rivalità, interpretazione dei testi e pratiche discordanti – e dall’altra i non religiosi; da una parte gli ashkenaziti, l’élite di origine europea, e dall’altra i mizrachi (ebrei originari dai paesi di cultura arabo-islamica), i “russi” (ebrei provenienti dalle repubbliche ex sovietiche), i falashà etiopi e i migranti non ebrei, oltre ai palestinesi con cittadinanza israeliana. All’interno di questi gruppi inoltre esistono le inevitabili differenze di condizioni socioeconomiche…

In un simile scenario, scoppia la scintilla di Sheikh Jarrah1, che innesta l’ormai nota tragica dinamica di reazioni e controreazioni in cui i soli a rimetterci la vita sono inermi civili sia palestinesi, soprattutto, fra cui decine di bambini, colpiti di notte nelle proprie case, sia israeliani, per strada, per non aver fatto a tempo a raggiungere il più vicino rifugio.

E l’odio cresce.

Gli elementi di novità

Questa volta però entrano in gioco alcune variabili.

  1. Le elezioni palestinesi. Dopo quelle israeliane sarebbero dovute seguire le elezioni palestinesi, che non si tengono da ben 15 anni. I pronostici non erano favorevoli né per Hamas, che governa Gaza, né tanto meno per Abu Mazen e Fatah in Cisgiordania, minacciati da nuovi contendenti come Marwan Barghouti, tuttora in carcere, e Mohammed Dahlan, personaggio controverso ma che comunque poteva anch’egli rappresentare una novità agli occhi dei palestinesi, stanchi delle loro vecchie e litigiose leadership. Ma alcuni giorni fa, con il pretesto delle difficoltà create dal governo israeliano agli elettori palestinesi di Gerusalemme Est, Abu Mazen annuncia il rinvio delle elezioni a data da destinarsi.
  2. Il Ramadan. Già in aprile a Gerusalemme erano iniziati gli scontri fra polizia, gruppi israeliani di estrema destra e palestinesi alla Porta di Damasco dove si radunano di solito i fedeli per cenare insieme dopo il digiuno quotidiano. L’area era stata chiusa dalla polizia per evitare assembramenti, un gesto che aveva provocato la rabbia dei palestinesi con conseguenti scontri. Inoltre dopo la preghiera del venerdì sera, l’ultimo del Ramadan, la polizia ha fatto irruzione dentro la moschea di Al Aqsa lanciando lacrimogeni e bombe assordanti.
  3. La reazione anomala di Hamas. A questi eventi, l’organizzazione islamica prima intima, con un ultimatum, alle forze israeliane di liberare la moschea e l’area circostante entro le 2 di notte, minacciando altrimenti una forte offensiva. Poi la mette in pratica arrivando a lanciare ben 200 razzi non solo verso Tel Aviv e il sud d’Israele, come avviene di solito, ma anche su Gerusalemme, un’assoluta novità. E allora ci si chiede: se Gaza è da anni sotto embargo, se ai pescatori non è concesso di allontanarsi a più di sei miglia dalla costa, e a volte arbitrariamente anche meno, le persone muoiono per mancanza di farmaci e non ricevono il necessario per vivere, come arrivano questi missili sulla Striscia?
  4. La destra fascista alla Knesset e il ruolo dei coloni. Una novità anch’essa assoluta è l’ingresso alla Knesset dei seguaci del rabbino Kahane. Questa posizione ha di conseguenza rafforzato i gruppi estremisti legittimandone le violenze, spesso spalleggiate dalla polizia. A queste violenze si è spesso affiancata la violenza di gruppi di palestinesi come a Lod, dove tre sinagoghe sono state date alle fiamme.
  5. La reazione dei palestinesi con cittadinanza israeliana e dei gruppi misti di ebrei israeliani insieme ai palestinesi. Questa volta contro gli attacchi su Gaza hanno reagito con manifestazioni di protesta in molte città entro i confini internazionalmente riconosciuti d’Israele molti cittadini sia ebrei che arabo-palestinesi. La newsletter di un’associazione di ebrei e arabo palestinesi, Standing Together, ce ne mostra le immagini, che ci infondono un po’ di speranza in tanto dolore.

Malgrado da noi tutti i partiti si siano schierati a sostegno del governo israeliano come se rappresentasse davvero la volontà e i sentimenti di tutti i suoi cittadini, pensiamo che stavolta le leadership di entrambi gli schieramenti usciranno con le ossa rotte da tutta questa violenza, gratuita e feroce, scatenata su popolazioni indifese. E forse, invece, ne nascerà una terza Intifada dai contorni imprevedibili.

1- Quartiere oggetto di una contesa che dura da anni fra due istituzioni israeliane – che ne rivendicano la proprietà delle case poiché lì risiedevano alcuni nuclei di ebrei molto prima del ’48, durante il dominio ottomano che si concluse, notoriamente, nel 1917 – e le famiglie palestinesi che vi abitano dal ’56 dopo essere state espulse dalle proprie case, e che vi furono insediate dall’UNRWA in accordo col governo giordano. Oltretutto leggiamo sul Fatto del 9.05: “In aprile, il ministro giordano degli Affari Esteri, Ayman Safadi, ha consegnato documenti che dimostrano la proprietà palestinese… a Sheikh Jarrah, nel tentativo di impedire un nuovo sfratto di massa. La scorsa settimana, il governo giordano ha ratificato 14 accordi degli Anni 60 con le famiglie palestinesi a Sheikh Jarrah per rafforzare la loro posizione contro i tribunali israeliani”.




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