sabato 29 dicembre 2012 - ///

Fiscal cliff e Debt ceiling, le due spade di Damocle sulla testa degli USA (e dell’Europa)

1 gennaio 2013. Per tutti è il primo giorno del nuovo anno; per l'America potrebbe essere l'inizio di un incubo.

Il Post:

Con l’arrivo del nuovo anno, infatti, negli Stati Uniti entreranno in vigore automaticamente tagli alla spesa per un totale di 607 miliardi di dollari solo nel 2013, che andranno a colpire soprattutto i settori dei servizi sociali, della difesa e dell’istruzione. Inoltre, sempre il primo gennaio 2013 scadranno una serie di esenzioni e vantaggi fiscali in vigore da diversi anni. La famiglia media americana dall’oggi al domani si troverà a pagare oltre 3.000 dollari di tasse in più all’anno (alcuni collocano questa stima ancora più in alto). Come se non bastasse, il primo gennaio del 2013 scadrà anche il cosiddetto “tetto del debito” (ci arriviamo).

Perché si è arrivati a questa scadenza?
Parte delle esenzioni fiscali in scadenza sono quelle approvate da George W. Bush a favore delle fasce più ricche della popolazione. Contemporaneamente, però, scadranno una serie di esenzioni fiscali approvate dall’amministrazione Obama col pacchetto di stimolo all’economia approvato all’inizio del 2009, dirette soprattutto alla classe media e ai disoccupati.
Un’altra serie di tagli scatterà automaticamente in ragione dell’accordo raggiunto faticosamente durante l’estate del 2011 da democratici e repubblicani, quando si trattò di alzare il tetto fissato dalla legge per le dimensioni del debito pubblico americano, concedendo così al governo di continuare a prendere denaro in prestito. L’accordo prevedeva, tra le altre cose, che il Congresso avrebbe dovuto approvare tagli alla spesa per 98 miliardi entro la fine del 2012, altrimenti sarebbero entrati in vigore dei tagli automatici e lineari su due capitoli di spesa: servizi sociali e istruzione, cari ai democratici, e l’esercito, caro ai repubblicani. A tale scopo si insediò un cosiddetto “super comitato” – composto da 12 membri, 6 democratici e 6 repubblicani – che non riuscì a trovare un compromesso.

Di nuovo il tetto del debito
Un’altra scadenza si è accavallata a quelle di cui sopra: il ministro del Tesoro Timothy Geithner ha diffuso ieri una lettera in cui ha spiegato che il tetto massimo del debito pubblico statunitense, stabilito per legge a 16.394 miliardi di dollari, sarà raggiunto il 31 dicembre 2012 e non nel 2013, come era stato previsto mesi fa.

Perché è complicato trovare un accordo?
La ragione è semplice: perché dal 2010 negli Stati Uniti il Senato è a maggioranza democratica e la Camera è a maggioranza repubblicana, e un accordo per entrare in vigore dev’essere votato nella stessa forma da entrambi i rami del Congresso. Democratici e repubblicani devono mettersi d’accordo, insomma. La trattativa fin qui è stata condotta da Barack Obama e dai leader di maggioranza: John Boehner, speaker e capo dei repubblicani alla Camera, e Harry Reid, capo dei democratici al Senato.

Fabrizio Goria su Linkiesta:

I mercati finanziari, nel frattempo, sono sempre meno ottimisti. «Il baratro sarà realtà entro pochi giorni e poi si vedrà», diceva oggi una nota di Morgan Stanley. Una presa di coscienza verso quello uno scenario per ora difficile da prevedere. È facile, come spiega J.P. Morgan, che un accordo si trovi entro la fine del primo trimestre del 2013. In tempo utile, quindi, prima che si palesino gli effetti più devastanti dell’innalzamento delle imposte e l’arrivo dei tagli automatici alla spesa. Eppure, un rischio c’è. E quello di un ulteriore downgrade degli Stati Uniti. E si tratterebbe del secondo declassamento dopo quello di Standard & Poor’s avvenuto nell’agosto 2011, quando Washington perse il suo rating AAA.

L’America balla però su un altro burrone. Anzi, per la precisione, su un tetto. Si tratta del Debt ceiling, il tetto del debito. Nella notte scorsa il segretario del Tesoro Timothy Geithner ha comunicato al Congresso che il limite massimo del debito, già innalzato nel 2011, sarà superato nuovamente. Il 31 dicembre prossimo saranno sorpassati i 16.400 miliardi di dollari. E il Tesoro ha comunicato che è pronto il piano di contingenza per evitare il default americano. Ipotesi non troppo remota, come si è visto un anno e mezzo fa. Per la precisione, una volta che il Debt ceiling sarà infranto, il Tesoro avrà l’autorità per sospendere le emissioni di debito tramite due fondi specifici, il Civil service retirement and disability fund (Csrdf) e il Postal service retiree health benefits fund (Psrhbf). Nel caso particolare del Csrdf, il 31 dicembre dovrebbe esserci il pagamento di interessi per circa 16 miliardi di dollari verso il fondo stesso, che in genere sono reinvestiti. Il Tesoro potrebbe bloccarli per poter utilizzare quelle risorse per fare fronte ad altre voci di spesa più immediate. Allo stesso modo, Geithner ha specificato che potrebbe bloccare il reinvestimento quotidiano del Government securities investment fund (G Fund), che rientra nel Federal employees’ retirement system thrift savings plan. Il G Fund non è altro che il fondo monetario che utilizza i fondi pensionistici degli impiegati federali. Così facendo, il Tesoro avrebbe a disposizione circa 156 miliardi di dollari a disposizione, l’intera somma del G Fund. Infine, la stessa misura potrebbe avvenire per l’Exchange stabilization fund, in modo da creare un cuscinetto di 23 miliardi di dollari.

In totale, se il Debt ceiling fosse superato, il Tesoro avrebbe a disposizione circa 200 miliardi di dollari per sopravvivere in attesa di un altro accordo sul debito. Poco, specie considerando l’immensa macchina federale statunitense. Ancora meno considerando il Fiscal cliff. Ciò che accadrà oltreoceano da qui a capodanno ci riguarda molto da vicino. L'Unione Europea è il primo partner commerciale degli Stati Uniti per investimenti e volume di scambi (pari a circa un terzo del commercio globale).

Queste dinamiche d'oltreoceano ci riguardano molto da vicino. Se non corretti in tempo, il fiscal cliff e il debt ceiling causerebbero un effetto domino sulla già claudicante economia europea.

In questi mesi quello che davvero interessava l'Europa non era tanto il nome del prossimo presidente, quanto la risposta che l'America avrebbe dato al problema del baratro fiscale. Con l'Eurozona entrata in recessione per la seconda volta in tre anni, se questa risposta non arrivasse in tempo sarebbe un duro colpo per il Vecchio continente.

Lettera43 spiega quali sarebbero le conseguenze:

1) Il nodo degli investimenti, tra multinazionali e servizi finanziari
Gli Usa investono nel Vecchio continente cifre triple rispetto all'Asia. [...] In totale gli investimenti americani sono più del 40% del totale degli investimenti stranieri nell'Unione europea (dati Eurostat): circa 1.200 miliardi di euro. [...] Se l'America dovesse vivere l'ennesima crisi, il groviglio di interessi incrociati tra Usa e Ue potrebbe riservare amare sorprese.

2) Export: tremano Berlino, Parigi e Londra
L'Europa esporta negli Usa più di ciò che importa. Il segno meno nella bilancia commerciale Ue si è registrato solo nel 2007 e nel 2009: ovvero i due anni più neri della crisi statunitense. [...]
Le prime aziende che potrebbero essere colpite dalla contrazione americana sono quelle della meccanica e dei trasporti. Rappresentano il grosso della torta dell'export europeo negli Usa: una fetta del 40%, nutrita dai big tedeschi francesi e italiani e da una rete di competitive Piccole e medie imprese.
Poi c'è la chimica, pari al 16,5% del totale: si tratta soprattutto di fabbriche di gomma e plastica, e di fertilizzanti, detergenti e cosmetici. Infine, a fare le spese della nuova crisi c'è in generale tutta la manifattura.

3) Italia, rischi per Finmeccanica e Fiat e per l'agroalimentare
L'Italia è il 15esimo fornitore americano a livello globale. Nei primi tre mesi del 2012 il valore dell'export italiano verso gli Usa ha superato gli 8 mila milioni di dollari, con un aumento di 700 milioni sullo stesso periodo del 2011.
Stando ai dati della Italian trade commission del Dipartimento del Commercio americano, i settori di punta delle nostre esportazioni sono meccanica, moda e agroalimentare, con percentuali rispettivamente del 21,1 del 14,7, e del 10,3%.
Un calo delle vendite in Usa, potrebbe avere effetti sui colossi in affanno come Finmeccanica e Fiat, come sull'esercito dei piccoli e medi imprenditori.




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