mercoledì 19 febbraio 2014 - Trilussa

Eutanasia

Si calcola che ogni anno circa una trentina di italiani si rechino in Svizzera per non fare più ritorno. In quel paese come in molti altri in Europa come Belgio, Lussemburgo, Svezia, Olanda l’eutanasia è permessa per legge ed anche paesi come la Francia, la Germania e l’Inghilterra la concedono in particolari condizioni. La notizia recente è che il governo svizzero ha autorizzato, per primo al mondo, la pratica della dolce morte anche per i minori.

L’eutanasia è una di quelle cose, come la pena di morte, che tende a dividere molto le persone perché è un argomento un po’ di pancia, su cui si può discutere abbastanza poco ed è difficile, se non impossibile, convincere altri che la pensano diversamente con uno scambio di idee o attraverso un ragionamento. È uno di quegli argomenti che possono essere definiti manichei, o si sta da una parte o si sta dall’altra, non ci sono vie di mezzo.

La posizione personale che prendiamo di fronte ad una situazione drammatica come questa dipende dal nostro modo di ragionare, dalle nostre convinzioni, spesso e purtroppo anche dalle nostre esperienze di vita. Un cumulo di cose, un’insieme di esperienze che fa spostare l’opinione in un senso oppure in un altro.

Da questo punto di vista i credenti sono più limitati nel loro libero arbitrio perché il loro credo non permette deviazioni, valutazioni o tentennamenti di sorta imponendo sempre e comunque il rispetto assoluto della vita. Direi che per loro la scelta diventa più facile, e forse nemmeno assumere il valore di scelta trattandosi di un semplice allineamento alla loro visione della vita e della morte. Alla linea che impone la loro dottrina e la loro coscienza. Con il rispetto dovuto per chi sceglie la fede religiosa come guida per la propria vita, frutto naturalmente di una libera scelta, ci mancherebbe.

Il non credente, l’ateo, da questo punto di vista è più libero nella sua decisione e si può interrogare con minori condizionamenti su quale sia la soluzione migliore per quel paziente che si venga a trovare in una situazione così dolorosa e difficile. E non è sempre facile decidere perché fra le variabili c’è il livello culturale, le esperienze personali, la capacità di informazione, l’interesse per l’argomento eccetera.

Anche lo stesso concetto di vita e di morte non aiuta perché ancora manca, fra coloro che si considerano esperti e si confrontano spesso con durezza (scienza e religione) un confine ben preciso e soprattutto condiviso.

Deve essere considerato essere umano un feto formato da appena quattro cellule? Lo diventa forse quando raggiunge le trentadue? Forse quando il suo cuoricino batte il primo colpo? Quando esce dal grembo materno? È un argomento astratto molto difficile da discutere e solo i credenti su questo hanno idee precise. Idee che non hanno valore scientifico e che non possono naturalmente valere per chi crede che la vita sia tale solo quando ve n’è consapevolezza.

Si può dire che la legge c’è, ma se un cittadino non vuole che si applichi al suo congiunto nessuno può certo costringerlo a farlo. Ottimo per un ateo, ma un credente non ammetterà mai che il suo Stato permetta una cosa che lui considera omicidio. Per questo motivo in Svizzera si sono viste manifestazioni contro la legge in discussione e in difesa della vita, simili un po’ a quelle americane contro l’aborto (altro tema caldo perché insiste sulle stesse problematiche)

La mia opinione è comunque favorevole. Forse perché non sono credente, forse perché sono padre, forse perché ho visto molti soffrire e ho sperato sempre che facessero in fretta.

Non conosco la legge nei vari articoli ma credo che un paese serio come la Svizzera abbia sicuramente valutato con attenzione le condizioni in cui questa può essere applicata. Da quello che sentiamo serve la richiesta del paziente (anche minore, soffrono purtroppo anche loro come gli adulti), il consenso dei genitori e quello di una psichiatra che immagino valuterà, se non le condizioni cliniche del paziente, almeno quelle psicologiche, comprese quelle di entrambi i genitori. La malattia deve essere in uno stadio terminale e cioè al di fuori di ogni ragionevole dubbio di guarigione (non è il caso dei pazienti in coma in cui la guarigione è ragionevolmente incerta e non ci sono le sofferenze fisiche che sono il motivo principale e fondamentale della legge).

Di fronte ad una malattia terminale con nessuna speranza di guarigione scientificamente accertata (basta pensare ad un cancro in fase terminale) in cui il paziente sopravvive attaccato a delle macchine fra atroci sofferenze e con nessuna certezza se non la morte prossima, interrompere questa fase atroce a me pare la cosa senza dubbio migliore.

In questa fase della vita, quella terminale, c’è un’altra cosa che merita attenzione e che depone anch’essa per l’interruzione anticipata della fine. È quella della dignità, del decoro personale. È una fase in cui questa si perde e non momentaneamente, come nel caso di una malattia temporanea, ma è l’immagine finale dell’intera vita. Quella che lasciamo dopo una vita condotta con dignità. Non è giusto e basterebbe questo per farmi considerare a favore.

Termino con una notazione. Un grande uomo, che stimavo molto, si è recato in Svizzera per porre fine alla sua esistenza. Un uomo adulto, non un bambino, e non affetto da una malattia terminale senza speranza. Era Lucio Magri di cui ho sempre stimato la correttezza e la coerenza. Non era malato ma si sentiva solo dopo la morte della moglie Mara, a cui era molto affezionato, tanto da desiderare raggiungerla. Non voleva più vivere e ha scelto il suicidio assistito, il solo che gli avrebbe consentito di lasciarci con quella grande dignità che è sempre stata la sua caratteristica in vita. Aveva 79 anni. È stato assistito alla morte, a Bellinzona in Svizzera, nel novembre 2011.

 

Foto: Jorge Gobbi/Flickr




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