sabato 28 dicembre 2013 - Osvaldo Duilio Rossi

Essere un altro #8

Immagina che uno sconosciuto, entrato in casa tua, dimostri di poter contestare la tua identità.

Chi è? Cosa vuole ottenere? Come riesce a manipolare le informazioni sulla tua vita? Ma soprattutto: tu chi sei?

Un romanzo a puntate (capitolo 8) sulla fragilità dell'identità nell'era di Internet.

Scritto da Osvaldo Duilio Rossi, dai consigli di Mario Pica.

 

Com come commercio (una società invischiata nel mercato), come .com (invischiata in qualsiasi genere di rete), come comunità (quindi società, in qualsivoglia senso, essendo ogni senso intercambiabile), come comodo (per nascondere o distrarre altre attività), come comando (un aspetto politico da non sottovalutare), commissione (del crimine, commissionato e commesso), come comune (invischiata ovunque e con chiunque), come comparto (di qualcosa più grande), commista (confusa e confondente), come lo stato di coma in cui mi avrebbero voluto portare, come comunicazione (ciò che dicevano di fare e che – come negarlo? – probabilmente facevano veramente), combattere (la guerra in cui si finisce per trovarsi, volenti o nolenti, quando ci si fa catturare nel meccanismo della società), combinare (affari di ogni sorta), combaciare (i pezzi di uno schema più grande), combriccola in combutta (come la gran parte dei significati precedenti), come comica (la situazione tragica in cui mi trovavo), come cominciare (a vedere le cose da una nuova prospettiva), compiere (imprese di varia entità), comprare un compenso (perché il salario, lo stipendio, l’onorario, la parcella… non sono mai commisurati al lavoro svolto e se ne cede sempre una parte a qualcuno che non ha fatto niente per averla, se non averci assegnato un incarico), compilare (una mole di dati sull’identità di chiunque, per poterne riscrivere la vita a piacimento), complesso e completo (il piano diabolico), complice (del potere e dei soldi), complotto (ordito nell’ombra e sbandierato sotto il sole, per renderlo incredibile), comportamento (studiato e programmato), compromesso (ogni scambio col potere), comprensibile (ma ancora incompreso), comprovato (fino al dettaglio di ogni menzogna), comunque sleale.

«La lealtà non esiste più da molto tempo, se mai è esistita. Si figuri che un importante imprenditore, nostro cliente, è stato querelato per ingiuria dalla moglie perché l’avrebbe chiamata stronza durante una discussione tra le mura domestiche. Nessun testimone e nessun incidente. Un bel giorno la signora contatta un avvocato e i due, moglie e avvocato, conducono una sanguinosa crociata legale, facendo staccare un bel assegno al nostro, come prezzo dell’armistizio. Ovviamente, poi, abbiamo aggiustato le cose in altri modi… ma intanto la frittata era fatta».

Chiesi ad Arnaldi se dovevo prendere quell’aneddoto come una minaccia. Lui rispose con un’altra domanda: «C’è qualcosa che lei ha fatto per cui ritiene che valga la pena essere minacciato?»

Risposi che avevo compiuto anch’io le mie cattive azioni, come chiunque, ma che nessuna meritava di di esporre nessuno ad alcun pericolo.

«Questo non dipende tanto dalle azioni che lei può aver compiuto», spiegò Arnaldi, «ma piuttosto da chi ne ha tratto le relative considerazioni».

Estrasse dalla tasca della giacca una busta da lettere molto sofisticata, in carta artigianale. Il nome del destinatario era scritto in calligrafia con inchiostro nero, ma non riuscii a leggerlo. Dentro c’era una cartolina, stampata sulla stessa carta pregiata, con l’elegantissimo logo di un’ambasciata centro-asiatica e di un ente pubblico locale. «È l’invito a una serata istituzionale del mondo diplomatico…»

Ricordavo quell’invito. Un concerto di musica e danze tradizionali organizzato nella più importante sala concerti del centro. Lo ricevevo da sei anni per la fine di ogni anno, ma non avevo mai capito chi me lo facesse recapitare. Avevo girato parecchio, ma non ero mai stato in quei paesi al crocevia del mondo che si chiamano col suffisso -stan, -tan o -an e non avevo mai frequentato gli ambienti altolocati né i miei contatti in città erano persone introdotte in politica o nell’aristocrazia nera.

«Lei ha cestinato l’invito ogni anno. Forse sperava che, ignorandolo, smettessero di scriverle oppure pensava che la fatica di partecipare e stringere qualche mano, chiacchierando con qualcuno, fosse troppa rispetto a gettare semplicemente via la busta… ma chi la invitava», e qui indicò il logo dell’ambasciata, dando due colpetti con l’indice sul disegno, «non la pensa così e si è offeso perché questa gente», altri due colpetti, «è piuttosto permalosa. Come lei sa, le persone di un certo ceto e con un certo potere si considerano naturalmente superiori agli altri e non sopportano di essere ignorate da chi si trova anche solo un poco al di sotto di loro nella scala sociale o, come gli piace pensare, nella scala evolutiva».

Chiesi ad Arnaldi se quello era il motivo per cui, quell’anno, invece dell’invito era arrivato lui.

«Oh no…» sorrise beffardo, «io e Com non c’entriamo nulla con questa storia, ma ne siamo a conoscenza e sappiamo anche cosa ha pensato di fare l’ambasciatore per togliersi la soddisfazione… e, no, non c’entra niente con quello per cui sono venuto a parlare con lei. A proposito, torniamo a noi».




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