giovedì 22 marzo 2018 - Elena D’Alì

Erri De Luca: leggere e scrivere poesia

Una conversazione con Erri De Luca presso l’Istituto Italiano di Cultura di Copenaghen in occasione della Giornata Mondiale della Poesia

Erri De Luca fa il suo ingresso sul palco con l’incedere disinvolto di chi è avvezzo a questo genere di eventi, si accomoda al tavolo coperto per l’occasione da un telo di velluto blu e si versa dell’acqua, quasi come fosse nel salotto di casa sua. Questa sera, però, la cornice è l’auditorium dell’Istituto Italiano di Cultura di Copenaghen e l’occasione è la celebrazione della XIX° Giornata Mondiale UNESCO della Poesia, per la quale l’Istituto ha scelto di onorare il suo pubblico con un evento dal titolo “Leggere e scrivere poesia: Una conversazione con Erri De Luca”. Lo raggiungono al tavolo Fabio Ruggirello – Direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Copenaghen – e Thomas Harder, interprete e traduttore dall’italiano al danese.

La sala è gremita di italiani residenti in Danimarca, di danesi amanti della lingua e della cultura italiane e, più semplicemente, di ammiratori di Erri De Luca che, senza esagerare, mi sento di definire come uno tra i più grandi scrittori e poeti italiani contemporanei. Un Intellettuale con la i maiuscola, direi.

Dal mio posto in seconda fila ho un’ottima visuale. L’evento può cominciare. Ed è un inizio in medias res poiché il Direttore Ruggirello, che per l’occasione veste i panni dell’intervistatore, ha fretta innanzitutto di sapere – e far sapere – quale sia l’esperienza di Erri De Luca come lettore di poesia. Ed è qui, sin dalla prima risposta, che Erri (non si offenderà se lo chiamo per nome) svela la sua peculiarità oratoria: lui non risponde alle domande, lui racconta storie. E lo fa con un coinvolgimento a metà strada fra la confessione ed il monologo, quindi avvolto in un’aura di inevitabile solitudine. Dico inevitabile perché quando ci si porta dietro un bagaglio di esperienze come il suo, fatto prima di manovalanza e militanza politica e poi di volontariato in zone di guerra, oltre che di un costante ed appassionato impegno civile, ci si carica inconsapevolmente di un peso emotivo che rende “diversi”. La diversità – qualunque cosa sia – si sa, rende soli. Tuttavia, Erri trova il modo di esorcizzare la sua solitudine: se è vero che la consapevolezza che discende dall’esperienza è il marchio di fabbrica di chi ha visto, sentito e compreso le tragedie del mondo, il poeta può – e forse deve – dare un senso a questa consapevolezza e condividerla. Quando Erri decide di raccontare in versi fa un enorme regalo ai suoi lettori perché li porta in un universo di cui tutti hanno sentito parlare ma di cui pochi possiedono le coordinate: l’umanità in tutte le sue possibili ed improbabili sfumature.

Ma torniamo al nostro incipit. Alla domanda sulla sua esperienza di lettore, Erri risponde con orgoglio di amare la poesia del ‘900, quel secolo detto “breve” ma che in realtà è stato abbastanza lungo da mostrare il fallimento di tutti i programmi che tentarono di migliorare la condizione del genere umano. È proprio in questo secolo che Erri trova ispirazione. Ci racconta di quando guidava convogli umanitari durante la guerra in Bosnia, di quando a Sarajevo si organizzavano serate di poesia per rifugiarsi dall’assedio e di come i poeti dei Balcani, suoi amici, Izet Sarajlic e Ante Zemljar abbiano contribuito alla sua formazione. Da lettore, diventa scrittore.

La serata prosegue a ritmo di domanda, traduzione, risposta-racconto, traduzione. C’è spazio anche per parlare della poesia in lingue diverse dall’italiano che Erri ha appreso da autodidatta, come il russo, lo swahili, l’ebraico antico e lo yiddish. A proposito di quest’ultimo confessa: “L’ho imparato perché era l’unico modo per dare voce ad una lingua assassinata”. Non vi è una ragione particolare che lo spinge a studiare le lingue antiche se non quella di rafforzare l’unico strumento che possiede per decifrare i testi originali in cui si imbatte e riportarne a galla i significati profondi, scevri da ammodernamenti e da traduzioni monodirezionali.

La conversazione, che prima scorreva leggera, si fa più seria quando il Direttore dell’Istituto chiede il perché della forma poetica per trattare il tema dei migranti. Altra risposta, altro racconto: “Più sono intense le tragedie, più serve il canto. La prosa non ce la fa”. Qui Erri fa una pausa, abbassa lo sguardo e raccoglie le idee. Concentrare in poche parole l’immane tragedia del fenomeno migratorio e delle sue conseguenze non è cosa facile, ancor meno lo è spiegare una scelta stilistica in ragione del carico emotivo che questo suscita nell’animo del poeta. Ma quello che Erri sta per dire, vale l’intera conversazione con questo gigante: ci rammenta che il Mediterraneo è sempre stato una via, non uno sbarramento; è sempre stato un crocevia di culture, non una tomba per disperati in fuga da guerre e tragedie di ogni sorte. Se l’antico Mare Nostrum apparteneva solo a coloro che vi nascevano, l’attuale Mediterraneo è ora un mare molto più grande perché accoglie tutti coloro che vi muoiono, diventando il loro eterno cimitero. All’improvviso è il pubblico in sala ad abbassare lo sguardo. Chissà perché queste sue parole ci suonano come un rimprovero.

La poliedricità di Erri permette di trattare il tema della poesia in tutte le sue sfumature, parlando di Neruda e del suo messaggio, dell’unicità di Gerusalemme “dove la morte sembra inghiottita dalla vita”, del fallimento del diritto umanitario davanti alle guerre contemporanee, del paragone tra la lettura e il cammino dell’uomo.

A questo punto, il Direttore Ruggirello, la cui professionalità nel condurre questa intervista lascia trapelare di tanto in tanto una certa ammirazione verso lo scrittore, si avvia alla conclusione della prima parte dell’evento chiedendo ad Erri il perché del mancato uso del dialetto napoletano nelle sue poesie. La spiegazione è presto detta (per Erri, ma non per noi): il napoletano è stata la lingua del primo tempo, quella appresa da bambino, nonché la via di comunicazione prediletta con il padre. “La vita mi accade sempre in napoletano” dice con tono quasi fatalista. Il dialetto è quindi la strada da sempre battuta, naturale e intuitiva, mentre l’italiano rappresenta il suo secondo tempo, il tempo della riflessione.

Si potrebbe andare avanti a parlare per ore con e di Erri De Luca, ma l’evento volge al termine. Il Direttore dell’Istituto passa gentilmente la parola al pubblico. Ed è una festa! Qualcuno riporta alla memoria vecchi incontri con lo scrittore chiedendo di condividere nuovamente le riflessioni fatte allora, qualcun altro confessa una sterminata ammirazione ai limiti della devozione e rilegge a voce alta un passo della sua poesia preferita, i più curiosi gli chiedono di spiegare la sua passione per la montagna e per l’arrampicata.

Segue il rito dell’autografo, delle dediche sui libri e, soprattutto, delle foto con l’autore, da pubblicare prontamente sui social network per suscitare l’invidia, più che comprensibile, degli altri internauti. Erri sembra avvezzo persino a questo ed io ho l’impressione che nulla riesca a turbarlo.

 

L’evento è terminato e l’insegnamento che ne traggo è che di poesia l’uomo avrà sempre bisogno, fosse anche solo per ricordarsi chi è.

 

Copenaghen, 21 marzo 2018




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