martedì 6 settembre 2016 - Carmelo Musumeci

Ergastolo e Permessi Premio: una testimonianza. "Per 25 anni sono stato convinto che di me sarebbe uscito solo il cadavere"

Penso che solo i sogni riescano a realizzare la realtà. E in questi 25 anni di carcere non ho fatto altro che sognare la libertà perché solo se la si cerca, la si può trovare. Ed io non mi sono mai stancato di cercarla sia nella mia mente che nel mio cuore. Ormai è da circa un anno e mezzo che usufruisco di permessi premio. Ogni volta l’emozione è sempre più intensa perché quando esco provo piacere e paura nello stesso tempo, consapevole che fuori devo fare i conti con la realtà che è molto diversa da quella di dentro.

Oggi mi hanno concesso sei giorni di permesso. Prima di uscire dalla mia cella, lancio uno sguardo alle foto dei miei due nipotini che ho attaccato alla parete accanto al letto. Mi sorridono. E sembrano dirmi: “Nonno ti aspettiamo”. La guardia mi chiama: “Musumeci… è pronto?” E penso: “Sono pronto dalle quattro del mattino e mi sono fumato già sei sigarette”. Esco dalla mia cella. E mi dirigo con decisione al cancello della sezione. Scendo le scale. Prendo il corridoio principale. Mi prende in consegna la guardia dell’ufficio matricola. Continuo a camminare in silenzio, perso nei miei pensieri. Mi sforzo di rimanere calmo e distaccato. Desidero dare l’impressione alla guardia che mi accompagna e al mio cuore che sono un duro come mi ha sempre descritto l’Assassino dei Sogni (il carcere come lo chiamo io) nelle sue carte tutte le volte che mi mandavano alle celle di rigore o mi trasferivano da un carcere all’altro. La verità invece è che me la sto facendo addosso dalla felicità. Mi viene persino la voglia di fare un centinaio di salti di gioia e di urlare a squarciagola.

Arrivo nel grande cortile che porta all’ultima porta. Alzo lo sguardo. Il sole mi acceca. Mi sembra di uscire da una tomba. Il cielo è alto, immenso, celeste, diverso da quello che si vede dietro le sbarre. Allungo una gamba per varcare il cancello. Ad un tratto, faccio una pausa di qualche frazione di secondo come se volessi immortalare nel mio cuore e nella mia mente quell’istante che ricorderò miliardi di volte quando sarò di nuovo dentro ad aspettare il mio fine pena che sarà nell’anno 9.999.

Poi attraverso il cancello che divide il mondo dei vivi da quello dei morti. Per un attimo mi sento spiazzato, incapace di capire se sono ancora dentro o fuori. Il cuore mi batte forte per l’emozione. Chiudo forte gli occhi.

Respiro lentamente perché mi manca il fiato. Poi prendo una grande boccata d’aria. Penso che sono di nuovo fuori. E mi ricordo che, per un quarto di secolo, sono sempre stato convinto che di me sarebbe uscito solo il cadavere. Mi muovo lentamente. Respiro a pieni polmoni. E penso che è bellissimo trovarsi negli spazi aperti.

Fuori le emozioni del giorno mi tengono sveglio per gran parte della notte. Per questo fuori dormo poco, perché sono troppo felice per riposare o perché, quando si è felici, si soffre di più. Avverto che le persone del mondo vivo sono libere ed è bellissimo muoversi fra loro.

Mi accorgo che è difficile controllare le emozioni che provo, per questo mi commuovo per nulla. Mi basta un sorriso dei miei figli o dei miei nipotini o un piatto di spaghetti con le cozze che mi prepara la mia compagna, e il mio cuore si scioglie come neve al sole. Vengo attratto e mi stupisco delle cose più semplici, come veder girare la lavatrice, toccare i bicchieri di vetro e le posate di acciaio. Rimango affascinato ad ascoltare il rumore delle onde del mare, le voci della gente e le grida dei bambini. La cosa che mi sembra più strana, e che non mi va proprio giù, è vedere mia figlia vestirsi e truccarsi da donna; forse perché l’avevo lasciata venticinque anni fa che giocava con le bambole. Alla mattina, quando apro gli occhi, per un attimo penso che non so proprio più a quale dei due mondi appartengo. Poi penso che probabilmente non appartengo più a nessuno dei due perché, ormai, appartengo al mondo dei sopravvissuti.

Senza quasi che me ne accorga è già il giorno di rientrare in carcere. Mi sento malinconico. E penso: chissà se mai riuscirò di nuovo a riprendere in mano il mio destino? Ogni volta che entro in carcere dopo un permesso mi sembra di entrare in un altro universo e in un altro mondo. Poi, per alcuni giorni, sto continuamente sdraiato sulla branda con gli occhi fissi al soffitto, a ricordare le gocce di libertà che ho trascorso fuori dall’Assassino dei Sogni.

 

 In realtà ho solo sognato. Queste emozioni che ho descritto sono frutto dei precedenti permessi di cui ho usufruito. Sì, è vero, avevo chiesto sei giorni di permesso da trascorrere a casa per festeggiare con i miei familiari la mia terza tesi di laurea con il risultato di 110 e lode. Ma, nonostante che il Magistrato di sorveglianza me l’avesse concesso, la Procura della Repubblica ha impugnato il provvedimento e non sono potuto uscire. Adesso devo aspettare che si pronunci il Tribunale di Sorveglianza di Venezia. Nel frattempo continuo a sognare. Che altro posso fare?

È stato difficile spiegare alla mia famiglia che la legge prevede, anche senza nessuna motivazione logica, che la Procura possa bloccare il permesso anche se già concesso dal Magistrato di sorveglianza. Sono dovuto rincorrere ad un’aforisma dicendo che, se fuori due più due fa quattro, in carcere fa cinque. Ma loro non hanno capito ugualmente. E allora ho detto che, purtroppo, la legge è fatta di norme strane e che, a volte, neppure i giudici possono fare nulla.
 
Carmelo Musumeci
 
Carcere di Padova, settembre 2016
 
 
 



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