Educazione e linguaggio. Un destino comune

Di cosa parliamo, e cosa è in gioco, quando si parla di educazione?
In particolare, di cosa parliamo, dal momento che è sempre più evidente una grande “faglia”, che separa gli “educatori” dai ragazzi e ragazze, a cui si pretende di dispensare insegnamenti o valori all’interno di schemi, strutture e istituzioni, che erano adatti a un’epoca in cui gli uomini e il mondo erano ciò che non sono più?
In effetti, i “nuovi umani”, come li chiamava Michel Serres, non hanno più la stessa testa dei loro genitori. Così come non parlano più la stessa lingua.
In più, forse è il caso di riconoscere che quasi tutto ciò che noi vogliamo trasmettere o inviare è già trasmesso. In un certo senso, nel contesto mediatico e virtuale, è sempre e dappertutto già trasmesso.
Le nostre strategie educative, il nostro insegnamento e la trasmissione del sapere, hanno ancora validità e reali interlocutori?
O, piuttosto, le nostre istituzioni educative, assomigliano a quelle costellazioni che gli astronomi ci indicano come già morte da molto tempo?
Tutto ciò rende più disarmante un paradosso originario dell’eduucazione “moderna“: se l’educazione mira a consentire a ogni individuo di scoprire la propria unicità e raggiungere la propria maturità, come è possibile poi fare di tutto perché ogni persona corrisponda invece a modelli predefiniti?
Siamo davvero in un mondo fatto di persone che sembrano non più educabili?(Peter Sloterdijk).
E quindi di cosa parliamo davvero, quando oggi parliamo di educazione?
Se è è vero poi che, ridotto all’essenziale, il lavoro educativo è un lavoro sulle parole, quale intreccio ha oggi il linguaggio con il compito educativo?
Anzi, abbiamo ancora un linguaggio per parlare di educazione?
Ovviamente, qui non si tratta solo di stigmatizzare quel carattere stereotipato e quasi “omologato” dei nostri discorsi, come se il “copione” di quello che andiamo dicendo di volta in volta, nei vari ambiti, fosse già stato scritto, e dovesse essere solo correttamente recitato da noi, in quanto replicanti o cloni di un soggetto unico virtuale.
E neppure si tratta di quell’altro fenomeno– anche più grave – per cui spesso le parole– nella comunicazione pubblica e privata – sembrano infettate o derubate della loro capacità di dire le cose.
A dire il vero, anche dietro ciò che si ha l’abitudine di definire, con enfasi, “post-verità“, si cela semplicemente il fenomeno banale della “lingua bugiarda“(H. Weinrich).
Non c’è dubbio infatti che, oggi, le parole, anche quelle più “sacre”, come verità, giustizia, libertà, onore, amore, democrazia, terra, popolo, patria, sangue, o anche religione, Dio, chiesa, politica, stato, ecc., sono rese, più che in altri momenti della storia, “sbilenche” e tali da tendere, paradossalmente, verso il contrario di quello che avrebbero voluto significare, cioè “verso la bugia“.
Il motivo più profondo, per cui i destini dell’educazione e del linguaggio sono intrecciati, sta nel fatto che oggi pare venir meno quel compito essenziale del linguaggio, che. secondo Heidegger, consiste nel rendere abitabile l’ente nella sua totalità, Il linguaggio infatti non imita semplicemente il mondo, ma “avvicina” l’estraneo e “assimila il dissimile“,includendoli in una sfera abitabilecomprensibile.
Non è questo alla fine anche il compito dell’educazione?
Certo se vengono riformulate le fondamenta del linguaggio, come sembra stia avvenendo oggi, nota Peter Sloterdijk, allora anche il legame tra linguaggio e mondo, come quello tra la cultura della scrittura e la formazione umana,andrebbero ripensati.
Naturalmente senza catastrofismi, ma reimpararando a navigare nel paesaggio linguistico in evoluzione.
In fondo, il nostro essere e il nostro divenirenon sono altro che una una ripetuta tra-duzione, , Forse “traduzione” è davvero la chiave per comprendere ogni sistema di trasformazione e di vita, come suggeriva Michel Serres.