venerdì 26 aprile 2013 - Giovanni Graziano Manca

Economia pubblica e questione morale: urgono più efficaci forme di monitoraggio e di valutazione della dirigenza

Mi colpisce una considerazione svolta non molto tempo fa da Noar Gilon, ambasciatore dello stato d’Israele nel nostro Paese. Gilon parla delle dissimilitudini che possono essere riscontrate su un particolare aspetto del lavoro delle persone esprimendo al riguardo un paragone tra ciò che succede in Italia e quanto invece si verifica nel suo Paese: ‘il lavoro, sostiene Gilon, ‘da noi non è gerarchizzato come in Italia, cioè un giovane di 22 anni può dire al suo amministratore delegato dove, a suo giudizio, il management sbaglia. Da voi è più complicato.’

Che in Italia, come nella generalità dei paesi occidentali che hanno vocazione capitalistica, si applichino concretamente ‘tecniche manageriali’ che spesso si risolvono nel brutale e fine a se stesso esercizio del ‘potere’ di alcuni sulla maggioranza delle persone che lavorano, è cosa largamente nota. È anche risaputo che dappertutto quanto maggiori sono la capacità di azione e la discrezionalità operativa e di gestione del manager, più forte e meno controllabile sarà la tendenza di quest’ultimo a muoversi più in un’ottica di raggiungimento di propri obiettivi personali (che vengono anteposti a tutti gli altri) che di privilegio delle mete che egli dovrebbe invece raggiungere a favore della o delle entità che rappresenta e più genericamente dell’economia nazionale. La circostanza vale ugualmente, e a maggior ragione, direi, per la natura collettiva degli interessi che sono in gioco, per la classe dirigente del settore pubblico, sia cioè, esemplificando, per il segretario comunale di uno sperduto villaggio di provincia, per il direttore generale di una grande città, per i dirigenti di servizi specifici posti alle dipendenze di enti o uffici pubblici di varia natura.

Ad un orientamento del management in direzione del raggiungimento di maggiori retribuzioni, di dotazioni di personale e di elementi che determinano un aumento del prestigio e della visibilità del proprio status (siano questi costituiti da incarichi di natura politica, dall’utilizzo gratuito di automobili e di strumenti tecnologici o da benefits di vario genere, comprendendo tra essi quelli il cui conseguimento abbia implicato la violazione di normative societarie o, nel settore della PA, comportamenti che possono essere classificati come esempi di criminalità amministrativa o quantomeno di cattiva amministrazione della ricchezza collettiva) corrisponde, guarda caso, da parte del dirigente, uno scarso livello di tolleranza della ‘critica’ che arriva ‘dal basso’ ancorchè questa risulti spesso fondata su elementi di fatto obiettivi e incontrovertibili.

Sgomenta il fatto che i difetti del management gerarchico imperversino, fino a diventarne elemento di tipicità, anche all’interno della Amministrazione Pubblica, dove secondo le vigenti norme di principio le risorse pubbliche dovrebbero essere gestite secondo criteri di buona amministrazione, di trasparenza, di efficacia, di efficienza e di economicità; proprio nell’ambito della PA, contesto lavorativo dove le pratiche di mobbing nascondono spesso scomode denunce da parte di chi è costretto a convivere con l’imperizia, l’arroganza e lo scarso senso civico di certi dirigenti. Se le più recenti leggi di riordino del settore pubblico prevedono l’obbligatorietà dei sistemi di valutazione della dirigenza, tuttavia non si può fare a meno di osservare che non sono pochi i casi in cui le deliberazioni dell’organo di valutazione costituiscono il risultato di ‘suggerimenti politici’ dati sottobanco ai componenti dei nuclei di valutazione. È noto, inoltre, come il principio della separazione delle competenze, secondo il quale alla politica spetterebbero competenze generali di programmazione e controllo dell’operato dei dirigenti e alla dirigenza quelle di gestione degli interventi programmati a livello politico e il raggiungimento degli obiettivi assegnati, si risolva spesso, tra burocrate più o meno ‘alto’ e politico, in accordi che trovano fondamento negli intramontabili principi del ‘vogliamoci bene’ , del ‘sii gentile, non metterti di traverso’ e del ‘una mano lava l’altra’, in un ‘do ut des’ che la dice lunga su quanto ancora rimanga da fare in tema di onestà politica, capacità manageriale e cultura della legalità all’interno della PA italiana. Peraltro, le suggestioni esercitate sul dirigente dal denaro, dalle utilità di vario genere e dai privilegi che allo stesso derivano dal mero appartenere alla posizione professionale ricoperta continuano a essere dure a morire.

Gli organi di stampa, le autorità giudiziarie ordinarie e la magistratura contabile si occupano in modo costante di questi fenomeni deteriori: essi, oggi, non fanno quasi più notizia perché da tempo immemore risultano assurti al rango di vere e proprie storture antropologiche che penalizzano l’economia e perfino l’immagine all’estero del nostro Paese.

Si parlava di valutazione della dirigenza. I dirigenti dovrebbero essere valutati in modo obiettivo e rigorosamente anche in relazione alle loro capacità di gestione e di valorizzazione del personale pubblico sottoposto. Ciò, fra l’altro, è richiesto dalla molto sentita necessità di una nuova cultura della responsabilità, del merito e della integrità anche morale di tutti coloro che all’interno degli uffici pubblici dispongono di capacità decisionali.

Attesa, soprattutto negli anni più recenti, la necessità dello Stato di operare in direzione del raggiungimento di forme culturali improntate a una maggiore consapevolezza civica e della ottimizzazione di risorse pubbliche sempre più scarse, nel passato recente aveva fatto capolino nell’opinione comune e in quella di qualche ‘addetto ai lavori’ l’ipotesi assai ragionevole di sottoporre l’attività del dirigente pubblico anche alla valutazione diretta del cittadino destinatario dei servizi forniti dalla PA e del personale dal medesimo diretto. A sostegno di una siffatta ipotetica possibilità, la circostanza che una delle funzioni più pregnanti della attività dirigenziale consiste appunto nella ‘gestione delle risorse umane’ e che a una corretta gestione di queste ultime corrispondono notevoli risparmi di fattori della produzione e quindi un maggiore e più soddisfacente raggiungimento di obiettivi direttamente connessi alla soddisfazione dei bisogni dell’utenza.

La possibilità di concreta attuazione di procedure valutative più idonee, è ovvio, sarebbe tutta da verificare. Peraltro, poiché essa sarebbe posta in atto anche a garanzia degli stessi dirigenti ‘virtuosi’, riteniamo valga la pena progettarne e sperimentarne le procedure attuative.

Non appaia bizzarra o pregiudizialmente irrealizzabile, quindi, l’idea di istituire controlli più efficaci sull’operato dei dirigenti pubblici. Essi, infatti, oltre a percepire mensilmente uno stipendio più che lauto costituiscono molto spesso lo scudo dietro cui si nasconde la volontà del cattivo politico. I migliori, i più capaci e i più apprezzati tra essi non hanno niente da perdere e tutto da guadagnare dalla attuazione di misure di monitoraggio e di valutazione la cui introduzione, tra l’altro, sarebbe pienamente giustificata da una situazione economica e sociale che nel nostro Paese va costantemente peggiorando. 




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