lunedì 26 luglio 2021 - UAAR - A ragion veduta

È possibile hackerare la morte?

Dall’elisir di lunga vita alla ricerca dell’amortalità, com’è cambiato negli ultimi due secoli il rapporto con la morte? Ne parla Giovanni Gaetani sul n. 2/2021 della rivista Nessun Dogma.

«A questo mondo nulla è certo, se non la morte e le tasse», scriveva Benjamin Franklin nel 1789. Franklin – che non era evidentemente italiano – aveva detto però soltanto una mezza verità. Perché la morte, a differenza delle tasse, non può essere evitata. O forse sì?

È questo l’interrogativo che si sono posti nel corso dei millenni la maggior parte degli esseri umani, a partire sin dai nostri cugini estinti di Homo neanderthalensis, all’incirca 70.000 anni fa. Secondo le più recenti ipotesi degli archeologi, infatti, gli uomini di Neanderthal sarebbero stati i primi a seppellire ritualmente i propri cari, scavando delle apposite fosse in cui disponevano i corpi in posizione fetale, circondati di oggetti (pietre, cibo, fiori, eccetera) quasi come a voler augurare al defunto una buona continuazione della vita dopo la morte.

Questa speranza in una “immortalità dopo la morte” – vero e proprio fil rouge nella storia delle religioni – non fa però che confermare la mezza verità di Benjamin Franklin: la morte, di per sé, non è evitabile. Possiamo certo provare a procrastinarla il più possibile, come fece il cavaliere del Settimo Sigillo di Bergman, il quale, quando la morte venne a prenderlo, guadagnò tempo sfidandola a scacchi. O possiamo augurarci che dopo la morte ci sia un’altra vita, chissà come, chissà dove. A tal riguardo, gli esseri umani le hanno “sperate” tutte: reincarnazione, resurrezione dei corpi, vita eterna solo per pochi eletti (144.000 secondo i testimoni di Geova) o vita eterna per tutti, divisi però tra paradiso, inferno e purgatorio – e così via, di escatologia in escatologia, giù fino alle folli teorie di Scientology.

Non tutti gli esseri umani, però, hanno cercato (e cercano) un “secondo atto” dopo il nero sipario della morte. Molti filosofi hanno suggerito che fosse più saggio venire a patti con la sua inevitabilità, senza ricadere nella disperazione, comprendendo ad esempio che la morte in realtà «non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi», secondo la famosa massima di Epicuro. Da questo punto di vista, il desiderio di immortalità di molte persone è un desiderio tanto reale quanto “umano, troppo umano”, nell’accezione nietzschiana dell’espressione – Nietzsche che, contro la ricerca religiosa di “retromondi” (Hinterwelten), sosteneva invece la necessità di “restare fedeli alla terra” (bleibt der Erde treu).

Gli atei, in genere, alla terra restano necessariamente fedeli, nel senso che si preoccupano delle condizioni di vita nell’aldiquà, piuttosto che sperare in un’improbabile vita nell’aldilà. Del resto, proprio perché di vita ritengono di averne una sola, gli atei hanno tutto l’interesse a rendere il tragitto che va dalla nascita alla morte il più piacevole e il meno doloroso possibile – e forse anche il più lungo possibile?

Eh già. Perché per un ateo la vita è unica e irripetibile. Ha dunque un valore assoluto, laddove invece per un credente ha un valore soltanto relativo, essendo una sorta di “test di ingresso” verso la vera vita, che è quella nell’aldilà. La stessa divergenza di prospettive si pone nei confronti della morte: per un ateo la morte è un trampolino per il nulla o per l’ignoto, per il credente invece è piuttosto una passerella verso la vita ultraterrena e l’immortalità.

In tal senso, l’unica immortalità cui un ateo può coerentemente e ragionevolmente aspirare è l’amortalità, cioè un prolungamento indefinito di questa vita, in questo mondo, ben consapevole che i limiti fisici dell’esistenza possono essere sì allargati, ma non abbattuti. Ma come fare? È davvero possibile hackerare la morte e posticiparla il più a lungo possibile?

Questa domanda se la sono posta in tanti, ben prima che le scienze moderne (e in particolar modo la genetica) ci fornissero i mezzi effettivi per provare a ricercare l’amortalità. Vale perciò la pena soffermarsi su tre esempi “pre-scientifici” che però, come vedremo, precorrono ante litteram il moderno hackeraggio scientifico della morte.

Il primo esempio è quello del re sumero Gilgamesh, protagonista del più antico poema epico arrivato fino a noi, scritto in babilonese e databile tra il 2600 e il 2500 a.e.v. Dopo aver visto morire il suo miglior amico, Gilgamesh viaggiò ai limiti della terra per incontrare Utanapištim, l’unico sopravvissuto al diluvio universale, cui le divinità avevano concesso l’immortalità; Utanapištim rivelò a Gilgamesh che l’immortalità era purtroppo irraggiungibile ma che era possibile invece tornare giovani mangiando una “pianta della giovinezza”; Gilgamesh trovò questa pianta miracolosa nel fondo degli abissi, la riportò in superficie per donarla agli anziani della sua città ma durante il tragitto la perse e un serpente la mangiò – di qui la spiegazione mitologica del perché i serpenti cambino pelle. Gilgamesh, disperato, si arrese così all’inevitabilità della morte.

Un destino simile, ma ancora più beffardo, è quello di Qin Shi Huang, il primo imperatore della Cina, vissuto tra il 260 e il 210 a.e.v. Ossessionato dalla ricerca della “droga dell’immortalità”, l’imperatore ordinò ai suoi dottori di preparargli dei rimedi alchemici per mantenerlo in vita il più a lungo possibile. Il paradosso è che furono proprio quei rimedi, a base di mercurio, ad avvelenarlo e a ucciderlo.

Il mito greco di Titone, poi, è ancora più assurdo. Titone era un uomo bellissimo, così bello che fece innamorare di sé addirittura Eos, la dea dell’alba (Aurora per i romani). Temendo per la morte di Titone, Eos chiese a Zeus di donargli l’immortalità, dimenticando però di fargli ottenere anche l’eterna giovinezza. Fu così che Titone, ormai immortale, invecchiò fino all’inverosimile, a tal punto che Eos, in uno slancio di pietà, lo trasformò in cicala.

Per quanto irrilevanti dal punto di vista scientifico, questi tre clamorosi fallimenti avevano già tracciato i limiti fondamentali contro i quali la scienza si sta scontrando oggi nella sua lotta contro la morte. Gli scienziati sanno infatti, come Gilgamesh, che l’immortalità è un sogno irraggiungibile e che l’unico obiettivo possibile è solo una precaria condizione di amortalità, che può essere perduta da un momento all’altro. Sanno anche che la ricerca dell’amortalità è piena di effetti collaterali che possono paradossalmente condurci alla morte anzitempo, come fu per l’imperatore Qin Shi Huang. E sanno anche che la mera longevità è nulla senza giovinezza, come insegna il mito di Titone.

Ciononostante, l’umanità nel suo complesso qualche mossa ben assestata alla morte l’ha data. Basti pensare al fatto che l’aspettativa di vita media in tutto il mondo è più che raddoppiata nel giro di due secoli: 31 anni nel 1800, 72 nel 2017. E questo – attenzione – non solo perché abbiamo ridotto drasticamente la mortalità infantile, ma anche perché abbiamo migliorato le condizioni di vita e di salute di tutti: bambini e adulti, uomini e donne, sani e malati. Questa rivoluzione non è sempre avvenuta attraverso mirabolanti scoperte da rocket science. A volte è bastata l’introduzione di gesti che oggi diamo per scontati ma che un tempo non lo erano, come ad esempio lavarsi le mani prima di un’operazione.

Oggi, però, i progressi della ricerca scientifica sono di tutt’altro ordine. Puntano dritto al cuore del problema “morte”, e cioè alle dinamiche genetico-fisiologiche di invecchiamento cellulare. L’immortalità, insomma, non è più una faccenda da teologi e alchimisti, bensì un problema potenzialmente risolvibile dalla scienza.

Negli ultimi 50 anni, genetisti e biologi evoluzionisti hanno infatti compreso che all’interno del nostro codice genetico è inscritto un inesorabile programma di senescenza cellulare: superata una certa soglia di età, l’organismo smette cioè di riparare le proprie cellule con la stessa precisione dell’età giovanile e adulta, accumulando errori su errori che condurranno a disfunzioni in vari organi – disfunzioni che a loro volta incrementano la mortalità in tarda età.

Se da una parte la ricerca scientifica sta cercando di capire perché l’evoluzione abbia premiato la conservazione genetica della senescenza cellulare (a tal riguardo la teoria più accreditata al momento è quella del disposable soma), dall’altra gli sforzi si stanno concentrando sul modo di disinnescare (o quantomeno di rallentare) questo processo di invecchiamento.

Su questo fronte sono stati registrati alcuni successi oggettivi, come nel caso dei vermi nematodi: gli scienziati sono riusciti a raddoppiare la loro vita media con un mix di tre farmaci anti-età. La ricerca scientifica sulle cellule staminali (bandita nel nostro paese, è bene ricordarlo) sta dando buoni risultati nella creazione di organi artificiali, di modo che sia possibile sostituire gli organi vecchi e/o danneggiati con altri nuovi di zecca, evitando il rigetto e senza dover aspettare un donatore. La comunità scientifica è poi sostanzialmente unanime nel ritenere che una dieta ipocalorica possa rallentare l’invecchiamento, anche se non sono del tutto chiari gli effetti collaterali a lungo termine di questa dieta. Perché è questo uno dei tanti trade-off che si incontrano lungo questo cammino: riuscire a incrementare la longevità di un organismo potrebbe al tempo stesso causare la compromissione di altre funzioni vitali. Ne è un esempio il moscerino della frutta, al quale gli scienziati sono riusciti ad allungare la vita, a spese però della sua capacità riproduttiva e immunitaria.

In tutto ciò, alcuni miliardari hanno deciso di investire ingenti risorse in questo ambito. Jeff Bezos (fondatore di Amazon) e Peter Thiel (cofondatore di PayPal) hanno investito in Unity Biotechnology, azienda che mira a «rallentare, arrestare o invertire gli effetti dell’invecchiamento». Elon Musk, dopo SpaceX e Tesla, ha fondato Neuralink, con l’obiettivo transumanista di integrare il cervello umano al computer attraverso interfacce neurali impiantabili. Ma l’azienda più audace in tal senso è senza dubbio Calico, fondata da Sergey Brin and Larry Page (già cofondatori di Google): il loro obiettivo è niente meno che «risolvere il problema della morte».

Inutile a dirsi, il progetto di hackeraggio della morte ha tutta una serie di implicazioni politiche, economiche e bioetiche: dando per assodato che sia possibile raggiungere l’amortalità, siamo sicuri che sia anche auspicabile? Cosa succederebbe nel caso in cui soltanto una minoranza ristrettissima di persone avesse accesso a questo tipo di trattamenti – come raccontato nella distopica serie televisiva Altered Carbon? E come cambierebbe invece l’essere umano e la società tutta se raggiungessimo l’amortalità su scala globale?

Alla prima domanda molti gruppi religiosi rispondono negativamente, poiché Dio avrebbe creato l’ordine naturale delle cose, inclusa la necessità di morire. «Bisogna nascere e bisogna morire», come diceva parodisticamente padre Pizzarro, ed è proprio questo il parere di molti credenti, a prescindere dalla loro appartenenza religiosa.

Ovviamente questa obiezione fa sorridere gli atei, i quali però non devono prendere sottogamba la questione, in un eccesso di fiducia positivista nella scienza. Che si tratti di ricerca dell’amortalità o di eugenetica, è necessario preoccuparsi che il processo avvenga il più possibile in condizioni democratiche, graduali e controllate. Sia per evitare l’insorgere di una nuova oligarchia amortale o geneticamente modificata. Sia per evitare danni irreparabili a livello genetico – consiglio a tal riguardo il documentario Human Nature.

Una cosa è certa. Anche nel più roseo degli scenari, il raggiungimento dell’amortalità su scala globale comporterebbe un radicale ripensamento della vita umana così come la conosciamo. In un mondo già sovrappopolato, l’allungamento dell’aspettativa di vita globale significherebbe un ulteriore incremento nello sfruttamento delle risorse naturali, ma anche il collasso di sistemi pensionistici già insostenibili oggi. Il valore della vita, poi, muterebbe drasticamente. Perché una cosa è morire a 80 anni sapendo che l’aspettativa di vita media è 83 anni. Un’altra è morire a 80 anni se l’aspettativa di vita fosse 160 anni – «nel mezzo del cammin di nostra vita», insomma…

«Who wants to live forever?» cantava Freddie Mercury nel 1986. A questa domanda molti risponderanno istintivamente di sì, altri di no, ed è giusto che sia così. Assicuriamoci però di farlo, in entrambi i casi, a ragion veduta.

Giovanni Gaetani

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