E giunse la valanga di nome Starmer
Il Labour centrista travolge come da attese il relitto dei Tories, col contributo dell'eterno Lucignolo Nigel Farage. Si parte, tra immancabili promesse di cambiamento e il desiderio di non spaventare nessuno.
Tutto è quindi compiuto, anche oltre le attese. Il Labour di Sir Keir Starmer trionfa alle elezioni generali britanniche, spazzando via i Tories, annichiliti da quasi un quindicennio di fiabe, contraddizioni e spaccio di illusioni, che sono state peraltro devastate da “incidenti di percorso” chiamati Covid, guerra, inflazione.
Il Labour centrista e pro-crescita di Starmer e della prossima Cancelliera dello Scacchiere, Rachel Reeves, ha ottenuto 412 seggi, contro i 120 dei Tories, che sono stati massacrati anche dalla ricomparsa di quello che è ormai parte del paesaggio britannico: una entità partitica guidata da Nigel Farage, che a questo turno è pure riuscito a farsi eleggere, dopo sette tentativi a vuoto, durante i quali ha tuttavia alacremente lavorato per sostituire le fiabe dei Tories con altre e ben più tossiche narrazioni.
TORIES VAPORIZZATI
Di Starmer abbiamo letto e sentito molto: ha la tendenza al flip-flopping, che altro non è che la presa d’atto che la realtà resta padrona del campo. Ha pilotato il partito della sinistra riformista fuori dall’estremismo corbyniano e verso lidi in apparenza più blairiani (con massimo scorno della confusa sinistra italiana, quella che si eccita solo quando vede parolai estremisti), al punto da essere stato definito un conservatore competente, per differenziarlo dagli incompetenti originali.
Starmer tiene il partito accuratamente fuori dall’allucinazione esistenziale chiamata Brexit. Nel senso che non ha alcuna intenzione di chiedere un percorso formale di rientro in Ue. Al più, si “accontenta” di ipotizzare qualche nuovo accordo di maggiore cooperazione con Bruxelles, facendo attenzione a non dare l’impressione di aver preso la strada del rientro, che in effetti non pare essere opzione, in questa legislatura. A Bruxelles e dintorni osserveranno il suo percorso con attenzione, cercando di capire se il nuovo premier non abbia per caso in testa di portarsi a casa dei benefici senza contropartita, per potersi riallineare ma proclamando a sua volta che i britannici mantengono il controllo. Troppo facile, così.
Che poi fa quasi sorridere, parlare di Ue nel momento in cui il blocco è alle prese con una crisi identitaria epocale. Ma passiamo oltre, appunto.
Il collasso dei Tories sotto il peso della realtà ci regala alcuni sfiziosi sottoprodotti: la rinascita dei Liberaldemocratici, che ottengono il loro miglior risultato di sempre, strappando ai conservatori collegi opulenti del sud e sud-est. Pensate a quanto deve essere arrivato il rigetto dell’elettorato per un partito che ha passato anni a farsi azzannare dalla realtà, tra un Brexit means Brexit, Get Brexit done, livellare verso l’alto le aree depresse senza causare aumenti di tasse, che anzi vanno tagliate aumentando i servizi, e altri immacolati non-tradeoff del genere.
PRIMA CRESCERE, POI REDISTRIBUIRE?
Ebbene, è utile essere consapevoli che il Labour di Sir Keir si troverà di fronte gli stessi problemi e le stesse criticità. Essere diventati i difensori della sacra City solo un paio di anni dopo aver promesso di tagliare le unghie ai banksters, promettere di non aumentare le tre altrettanto sacre imposizioni britanniche (dirette, indirette e contributi), senza dire nulla di quella sui capital gain, fingere che sia possibile evitare una risalita della tassazione verso livelli europei continentali, se si vogliono ripristinare i servizi ed evitare la morte del welfare, sono tutte tappe di un percorso di coscienza che Starmer sarà costretto a fare, nei prossimi mesi.
Per ora, la promessa solenne di far finire la tassazione agevolata del carry trade, cioè a cedolare secca anziché aliquota marginale delle commissioni di performance dei gestori di fondi ha prodotto un piccolo passo indietro, con l’ipotesi di esentare la parte di investimento effettuata dai banker con soldi propri anziché altrui. Malgrado ciò, abbiamo notizie di ipotesi di fuga delle grisaglie verso altri lidi fiscalmente più accoglienti. Come se a Downing Street stessero arrivando i cosacchi. Lidi fiscalmente accoglienti tra cui pare esservi (ohibò) la nostra Milano, con conseguente aumento della pressione di gentrification che ne sta mutando il volto.
La posizione di Starmer è diventata un classico liberale: prima la crescita, la redistribuzione seguirà. Nulla di male in ciò, anzi. Sempre meglio che la postura medioriental-sudamericana dei redistributori compulsivi di povertà, che affollano le nostre latitudini. Il problema è però il solito: dopo aver conseguito la crescita, che si fa per la redistribuzione? Soprattutto, quando è il momento per redistribuire? Perché il sospetto di molti è che quel momento sia un parto della fantasia, cioè che non esista, sotto pena di perdere investitori e produttori di ricchezza, che rischiano di scappare verso la prima Milano che capita.
Il mio sospetto, più volte espresso, è che l’attuale pressione fiscale britannica non sia sufficiente a sorreggere tutte le aspirazioni dell’elettorato, e a tenere in vita il welfare del paese come è stato sin qui conosciuto. Oggi il prelievo è ai massimi da mezzo secolo, trainata dall’incredibile manovra di Sunak e Jeremy Hunt, che aspirano soldi col fiscal drag come se non ci fosse un domani. Ma resta 5-6 punti percentuali sotto la media europea continentale.
Quanto potrà proseguire, questa situazione? Starmer dovrà dare una risposta, e se lo farà aprirà il vaso di Pandora del fabbisogno di denaro che a sua volta richiederà tasse esplicitamente più alte, per molti o per tutti. Per ora, il nuovo inquilino del 10 di Downing Street ha tabellato aumenti netti di entrate per soli 8,6 miliardi di sterline, lo 0,8 per cento del gettito totale raccolto lo scorso anno.
Il tema dell’immigrazione resta irrisolto: niente aerei per il Rwanda ma che fare con i gommoni sulla Manica? I numeri sono pesantissimi, anche considerando situazioni una tantum come i profughi ucraini e gli espatriati da Hong Kong.
E poi c’è Farage, che impersona il Lucignolo che sussurra alle orecchie del popolo stressato. Non punta a governare ma a far fallire governi. Quello è l’unico ruolo che può rivestire ma lo fa con efficacia da trattato di scienza politica e sociologia. Già oggi possiamo leggere commenti mettono in guardia il trionfatore Starmer: attento perché Farage demolirà il tuo successo, chiedendo l’impossibile.
Si dirà che l’elettorato britannico è tornato molto mobile, ed è certamente così. Alcuni hanno reagito alla crescente nausea di un partito conservatore impegnato da anni in una guerra civile al proprio interno ma in parallelo a raccontare favole. Altri avranno votato Labour per sfinimento o disperazione. L’affluenza è scesa intorno al 60 per cento, che è ancora molto per i tempi che viviamo ma è il minimo degli ultimi 100 (cento) anni per il Regno Unito.
Tempi di grandi imbonitori e venditori di olio di serpente, che suonano la grancassa sui social con strumenti di persuasione sempre più sofisticati. Al crescere del frastuono e della polarizzazione, cala l’affluenza alle urne. Viviamo il tempo della morte dei tradeoff: è il processo che ho definito di italianizzazione, quello di burro, cannoni e cannoli. Oltre che della disperata ricerca di un agente ostruente esterno che si frappone tra le promesse e la felicità dell’elettorato.
RESET TERAPEUTICI PER L’ELETTORATO
A volte ho come l’impressione che la sola funzione di queste elezioni di reset radicale, che gli anglosassoni chiamano wipeout, cioè in cui l’incumbent viene spazzato via, sia quella di consentire agli elettori frustrati di lanciare noccioline e derisione ai grandi e piccoli gerarchi che non sono stati rieletti e che saranno costretti a trovarsi un lavoro, che in alcuni casi già hanno. Un po’ come da noi, con i grandi censori delle lobby che sono diventati lobbysti, almeno quelli che non sono riusciti a imbucarsi nei fogli paga del partito, dopo la trombatura.
La scossa di illusa disillusione ha colpito duramente anche a nord del confine inglese: in Scozia, dove lo Scottish National Party è stato fatto a pezzi dall’elettorato. Dopo anni di promesse di ammazzare -anche qui- il tradeoff e servizi pubblici sempre più deteriorati, oltre a scandali interni al partito, gli elettori hanno detto basta. Un po’ come passare, in Veneto, dal secessionismo leghista dei tempi che furono al più modesto autonomismo, per svegliarsi una mattina e scoprire che il primo partito della regione è una roba centralista come poche, che schiavo di Roma iddio lo creò. Passatemi il parallelo, grazie.
E da noi, dopo il terremoto britannico? Come detto, la nostra sinistra plurale palpitava solo per Corbyn. Ora, mentre scimmiottano i francesi creando il Nuovo Fronte Provinciale, sospendono il giudizio in attesa di tornare a sparare a palle incatenate contro “il nuovo amico dei banchieri”. Detto da gente che coi banchieri va da sempre a cena e a letto. Leggo di qualche timido rallegramento manierista, del tipo “Abbiamo scacciato l’amico della Meloni [Sunak, ndPh], ora è tempo di ripartire”.
Tenerissimi. Solo poche settimane, e poi i loro editorialisti e infaticabili pensatori giocheranno a freccette con la foto di Starmer, in attesa di capire come tornare a fare affari cantando Bella ciao. Anzi no, hanno iniziato subito, al grido di “Ma Corbyn prese più voti”. Né d’altronde verremo risparmiati dai nostri facondi (non fecondi, occhio) cespugli centristi, che ci regaleranno il loro petulante chiacchiericcio sul centro che guida la sinistra, e così spero di voi.
Buon lavoro a Keir Starmer, che seguirò come seguo tutti quelli che volano alto per avvicinare le loro ali di cera al sole della realtà. Spero mi stupisca. Per ora è l’immancabile claim: change. Cercando disperatamente di evitarne la declinazione francese, che fa: plus ça change, plus c’est la même chose.
P.S. Qui si può apprezzare (o disprezzare) la potenza del sistema elettorale britannico di First Past The Post: il Labour ha ottenuto meno voti in percentuale rispetto alla landslide di Blair del 1997 ma anche delle elezioni del 2017, ma lo stesso trionfo del 1997 in termini di percentuale di seggi.
Photo by Keir Starmer on flickr – CC BY-NC-ND 2.0