lunedì 6 febbraio 2017 - Leandro Malatesta

Donne e lavoro | 40 anni dalla legge n.903 e il film "Sette Minuti"

Il 9 dicembre 2017 saranno trascorsi quarant'anni dall'entrata in vigore della legge N. 903 meglio conosciuta come “legge sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro” ma il dato che ci restituisce la realtà mostra in modo chiaro e netto che tale parità è purtroppo lungi dall'essere raggiunta.

D'altro canto i dati ISTAT affermano che nel nostro paese sono sempre le donne a dover scontare le maggiori difficoltà nel mondo del lavoro (e non solo in quest'ambito).

L'Istituto di statistica con la propria ricerca dice che una donna su tre abbandona o perde il lavoro dopo avere avuto un figlio, va poi sottolineato il fatto che gli stipendi dei colleghi maschi sono più alti così come le pensioni visto che per il cinquantadue per cento delle donne gli assegni pensionistici sono al di sotto dei mille euro, altro dato interessante è che il precariato è maggiore nel percorso lavorativo delle donne.

Cosa dovrebbe portare tutto questo se non ad un profondo senso di indignazione da parte dell'universo maschile?

Dal 1977 è passata un'enormità di tempo mentre i passi in avanti in materia sono stati a dir poco insufficienti.

Il fatto drammatico è che tale tema non sia (quasi) mai stato al centro effettivo del dibattito pubblico e che salvo dichiarazioni di superficie ci si sia fermati alla stesura della legge senza poi attivarsi in modo da poter verificare che gli effetti pratici stessero concretizzandosi nella quotidianità e potessero davvero innervarsi nella nostra società portando il mondo del lavoro alla piena parità dei diritti.

Cosa possa fare l'opinione pubblica in merito non è un dogma come però è fuori discussione che spegnere la discussione equivalga alla resa incondizionata.

Di recente è uscito nelle sale cinematografiche il film “7 minuti”, film diretto da Michele Placido (già testo teatrale scritto e diretto da Stefano Massini).

La pellicola racconta la vicenda delle lavoratrici di una fabbrica del comparto tessile che in seguito alla crisi economica rischia la chiusura salvo poi essere rilevata da una società francese la quale per concludere l'accordo di salvataggio chiede al consiglio di fabbrica (composto da undici donne, tra le quali nove operaie, una impiegata ed una rappresentante sindacale) di vincolare tale intervento alla rinuncia di sette minuti (da quì il titolo) dall'intervallo quotidiano (intervallo passato negli anni da 45 minuti a 15 e che con questo nuovo taglio si ridurrebbe in pratica a soli 8 minuti).

La sceneggiatura segue il percorso tracciato da “La parola ai giurati” di Sidney Lumet, riflettendo in modo plastico e palese tutte le problematiche di una scelta così delicata e capace di creare una frattura.

Ottavia Piccolo regge su di se un ruolo centrale senza per questo offuscare le ottime interpretazioni delle altre attrici quali Ambra Angiolini, Cristiana Capotondi, Violante Placido e va anche sottolineata l'ottima prova d'esordio di Fiorella Mannoia.

Come si può intuire il film non affronta direttamente la questione della disparità di trattamento lavorativo tra i due sessi ma esso si pone come un'opera importante in tempi che hanno relegato la battaglia collettiva in una battaglia individuale che vede spesso la singola persona sconfitta.

Ribadendo il grande valore del film di Placido, in quanto esso ha il pregio dell'attualità e dell'urgenza, vorrei però ritornare all'incipit dell'articolo facendo osservare come anche a livello europeo l'Italia manifesti il proprio ritardo essendo assieme a Spagna e Portogallo tra i paesi in cui la forbice del divario salariale tra uomo e donna continua ad aumentare mentre al contrario diminuisce in stati come Repubblica Ceca, Lituania e Polonia.

L'identità di una persona non si costruisce solo con la percezione che ognuno ha di se stesso ma anche con la percezione dell'individuo all'interno di uno spazio più ampio quale ad esempio la società.

Vale la pena quindi sottolineare come una situazione di disparità effettiva renda complicato e più difficile ogni discorso di emancipazione.

Oggi vista la situazione di difficoltà diventa ancora più semplice cadere nella trappola del ricatto e dover quindi accettare determinate condizioni di svantaggio come se esse fossero ineludibili.

La verità è che non dovrebbe essere così, tutti i lavoratori dovrebbero lottare in favore delle colleghe donne perché non si tratta più di una semplice questione di quote rosa.

Tremendo è poi pensare che al desiderio di famiglia corrisponda in larga parte la possibilità di dover perdere il lavoro per la scarsa tutela delle nuove forme contrattuali a termine e per lo scarso impegno in favore della lavoratrice-madre.

Rendere questi due ruoli davvero compatibili, anche con un nuovo e determinante intervento del legislatore, sarebbe l'unico vero modo per ridare centralità alla famiglia.

Non perdere questa lotta è una delle grandi sfide del futuro.

Quando si parla di lavoro però il tempo perde l'orizzontalità del proprio scorrere per unire il passato con il presente e non a caso vale la pena ricordare il “bread and roses” lo sciopero del 1912 delle lavoratrici dell'industria tessile svoltosi a Lawrence (Stati Uniti d'America).

“Pane e rose” (bread and roses) era lo slogan con il quale tale manifestazione divenne celebre; lo slogan fu estrapolato dal discorso che Rose Scheiderman fece in favore del suffragio universale dinnanzi ad una platea di donne appartenenti alla ricca borghesia di Cleveland.

Le parole dell'attivista americana risuonano ora più che mai attuali e la loro forza andrebbe recuperata, resa attuale e posta in posizione centrale nel dibattito pubblico in modo da non perderne l'impronta rivoluzionaria.

Citare tale discorso è quindi doveroso nella speranza che un cambiamento reale possa sbocciare il prima possibile:

«Ciò che la donna che lavora vuole è il diritto di vivere, non semplicemente di esistere – il diritto alla vita così come ce l’ha la donna ricca, al sole e alla musica e all’arte. Voi non avete niente che anche l’operaia più umile non abbia il diritto di avere. L’operaia deve avere il pane, ma deve avere anche le rose. Date una mano anche voi, donne del privilegio, a darle la scheda elettorale con cui combattere»

 

 




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