giovedì 1 luglio 2021 - UAAR - A ragion veduta

Divorzio: le nozze d’oro di una conquista laica

Sono passati 50 anni dall’approvazione della legge 898 che ha modernizzato i rapporti familiari, aprendo la strada dei diritti civili. Ne parla Valentino Salvatore sul n. 1/2021 della rivista Nessun Dogma.

 

La travagliata storia del divorzio in Italia inquadra bene il triste connubio tra stato e chiesa cattolica. Un antesignano della laicità e dei diritti civili in Italia, il deputato Salvatore Morelli, presenta la prima proposta nel 1878, poi nel 1880. Nel periodo liberale, quando l’anticlericalismo aveva slancio, vengono discussi altri testi, bocciati. Poi il fascismo alleato della chiesa mette tutto in soffitta.

Nel dopoguerra, durante il dibattito della Costituente, sull’articolo 29 relativo alla famiglia si arriva al compromesso tra Democrazia cristiana e Partito comunista. La Dc politicizza la difesa del matrimonio. Dal canto suo il Pci, come nell’affaire dell’articolo 7 che blinda il concordato fascista, non vuole creare fratture: ci tiene a tranquillizzare le masse in gran parte cattoliche.

Si rischia di sancire l’indissolubilità delle nozze, su cui insiste il democristiano di sinistra Giorgio La Pira: proposta bocciata per una manciata di voti grazie all’emendamento del socialista riformista Umberto Grilli. Il leader comunista Palmiro Togliatti precisa che non intende sdoganare il divorzio, ritenendolo in quel momento storico «innaturale» e «dannoso». Espressioni strumentalizzate poi nella campagna referendaria con tanto di manifesti sequestrati dalla magistratura perché fuorvianti. Impedire comunque l’inserimento della clausola di indissolubilità in Costituzione è lo spiraglio che permette, un quarto di secolo dopo, la conquista del divorzio.

Nell’Italia del boom covano trasformazioni sociali che innescheranno grandi riforme nel diritto di famiglia. Troppe coppie sono costrette a rimanere insieme, nel nome del perbenismo cattolico. Solo chi ha i soldi, in quel paese ben più classista di oggi, può rivolgersi alla Sacra Rota per ottenere la nullità del matrimonio. Un colpo di spugna confessionale che cancella ab origine il legame, come se non fosse mai esistito: anche se consumato, dopo anni, con figli.

Negli anni cinquanta i socialisti Luigi Renato Sansone e Giuliana Nenni propongono invano il cosiddetto “piccolo divorzio”. Con l’evoluzione culturale degli anni sessanta matura una più impegnata coscienza politica, si fanno strada rivendicazioni femminili contro una millenaria condizione di subalternità. Il divorzio diventa tema di costume. Basti citare un film come Divorzio all’italiana: qui Pietro Germi già nel 1961 inscena una sferzante satira del familismo e dell’onore, giustificati dall’impossibilità di porre fine consensualmente alle nozze.

La proposta di legge vincente è avanzata dall’onorevole socialista Loris Fortuna, che si impegna per anni in un’ardua battaglia parlamentare con il sostegno del liberale Antonio Baslini. La storia di Fortuna è istruttiva: antifascista, partigiano, aderisce al Pci ma dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria passa al Psi, è all’avanguardia sul fronte dei diritti civili. Di ispirazione anche il modo in cui si arriva all’approvazione: bypassare gli accordi sottobanco tra partiti e scegliere di portare la questione nelle piazze. Fortuna propone un testo nel 1965 che inizia il suo lento iter, ma il leader socialista Pietro Nenni insiste per un passo indietro. Il deputato fa invece un passo avanti, oltre le logiche partitiche: si rivolge all’opinione pubblica di ispirazione laica che auspica una modernizzazione. Si mobilita la Lega per l’istituzione del divorzio (Lid), fondata nel 1966 come emanazione del Partito radicale e animata da Marco Pannella. La questione è sentita nella società: non solo tanti intellettuali ma persino riviste, rotocalchi e vip dell’epoca fanno coming out schierandosi a favore. Non si ha paura di chiamare “clericali” i clericali, come ci dicono anche i manifesti della gente nelle piazze.

Al termine di una seduta fiume nella notte tra 30 novembre e primo dicembre 1970 viene approvata la legge 898 che rende legale il divorzio in Italia. Con 319 “sì” e 286 “no”. Al governo, una coalizione di democristiani, socialisti e repubblicani retta da Emilio Colombo. Un lavorio di anni che ottiene un sostegno trasversale e porta alla «Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio»: nel testo non c’è mai la parola “divorzio”. Da Sydney, dove si trova in visita, papa Paolo VI esprime «profondo dolore», teme il «danno gravissimo» alla famiglia e già pone le basi per l’ingerenza poiché «stima la presente legge lesiva del concordato».

La Dc subodora da tempo la sconfitta. Subito infatti viene lanciato un appello al referendum sul quotidiano dei vescovi Avvenire e fondato un apposito comitato capeggiato dal giurista Gabrio Lombardi, con il sostegno di clero, Azione cattolica, democristiani, missini e monarchici. Per la prima volta ci si appella in Italia al referendum abrogativo, la cui legge di attuazione è da poco approvata alla bisogna, per poter cassare il divorzio dopo l’approvazione in aula. Il 14 febbraio 1972 la Corte costituzionale dichiara ammissibile il quesito referendario.

La legge è uno smacco per la chiesa, che va perdendo la presa su una società sempre più secolarizzata. Il Vaticano, felpato, tasta il terreno con Dc e Pci per depotenziare la riforma. Grande manovratore dietro le quinte è il segretario della Cei Enrico Bartoletti, che lavora a fuoco lento. Ci sono incontri tra il comunista Paolo Bufalini e il democristiano Francesco Cossiga per una mediazione sulla nuova proposta avanzata nel 1971 dalla senatrice della Sinistra indipendente Tullia Romagnoli Carettoni.

Tra i cattolici tanti però accettano il divorzio. Ma l’ala integralista della Dc, sostenuta dalla chiesa, si lancia nell’avventura referendaria convinta di avere dietro il suo popolo. La campagna è aspra da entrambe le parti; tra i tasti su cui battono i clericali: bambini, distruzione familiare, collasso sociale, anticomunismo e demonizzazione degli avversari.

Col tempo appare chiaro che il mondo cattolico è diviso. Il papa ribadisce la dottrina ma tentenna: teme che la lotta al divorzio possa essere per i fedeli un «eroismo pastoralmente inutile». Dopo il 12 e 13 maggio 1974 ecco la doccia fredda per lo schieramento clericale. Nel referendum più partecipato (quorum all’87,7%) il “no” all’abrogazione segna il 59,3% distanziando di netto i favorevoli al 40,7%. La riforma Fortuna-Baslini è prevedibilmente sgradita alla Democrazia cristiana, intrisa di clericalismo – sebbene ora si tenda a minimizzare il confessionalismo della Dc, forse perché i politici oggi sono più sguaiati nell’ostentarlo. Ma anche il Partito comunista inizialmente manifesta dubbi, timoroso di apparire antireligioso e di farsi trascinare in una battaglia “borghese” e “liberale”, per poi schierarsi. Pier Paolo Pasolini, col suo consueto moralismo passatista, bolla la vittoria come trionfo «dei valori dell’ideologia edonista e del consumo e della conseguente tolleranza modernistica».

Poche settimane prima del referendum il segretario della Dc Amintore Fanfani in un rutilante comizio a Caltanissetta delinea uno scenario apocalittico. «Volete il divorzio? Allora dovete sapere che dopo verrà l’aborto. Dopo ancora il matrimonio tra omosessuali. E magari vostra moglie vi lascerà per scappare con la serva», avverte. Per terrorizzare l’elettorato timorato, con un pizzico di omofobia e misoginia prospetta un futuro paradossale agli occhi dell’uomo medio. Ma l’apocalisse non c’è stata, anche con aborto e coppie gay. La società italiana si è avviata, un po’ più laica ed emancipata, verso nuove conquiste civili. E verso una lenta separazione dall’invadente abbraccio della matriarca vaticana.

Valentino Salvatore

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