lunedì 23 maggio 2022 - UAAR - A ragion veduta

Diritti LGBT+: la strada per l’uguaglianza passa dalla laicità

Il 17 giugno di più di 30 anni fa, l’OMS ha definito l’omosessualità come una variante naturale del comportamento umano. Fino a quel momento era considerata una malattia.

Dal 2004 la data del 17 giugno è la Giornata Internazionale Contro l’Omofobia, che negli anni ha esteso la sua denominazione in Giornata Internazionale Contro l’Omobitransfobia (con l’acronimo inglese IDAHOBIT), in occasione della quale i movimenti LGBT+ di tutto il mondo celebrano la ricorrenza con iniziative, eventi e manifestazioni volti a chiedere a gran voce uguaglianza e giustizia sociale.

Nonostante siano passati tre decenni dalla storica dichiarazione, in Italia c’è ancora molto da fare per rendere le vite delle persone LGBT+ effettivamente dignitose e libere dalla minaccia dell’omobitransfobia. Una pista da seguire è suggerita direttamente dall’ILGA Europe, che pone il nostro paese al trentacinquesimo posto su quarantanove paesi europei classificati in base alle politiche di tutela dei diritti delle persone LGBT+.

Le raccomandazioni generali si riferiscono a: introdurre una legge sui crimini d’odio che copra esplicitamente tutti i crimini motivati da pregiudizi basati sull’orientamento sessuale, l’identità di genere, l’espressione di genere e le caratteristiche sessuali; vietare gli interventi medici sui minori intersex quando l’intervento non è necessario dal punto di vista medico e può essere evitato o rimandato fino a quando la persona non sia in grado di fornire un consenso informato; uguaglianza matrimoniale per tutti e riconoscimento automatico della co-genitorialità, in modo che i bambini nati da coppie (indipendentemente dall’orientamento sessuale e/o dall’identità di genere dei partner) non debbano affrontare alcuna barriera per essere riconosciuti legalmente dalla nascita dai loro genitori e adozione congiunta disponibile per le coppie dello stesso sesso.

Obiettivi di civiltà, basati sull’autodeterminazione e il diritto a una vita dignitosa, a cui l’UAAR aggiunge un fondamentale passaggio: l’abolizione del concordato. In nome del quale il Vaticano lo scorso anno ha ingerito nell’iter di approvazione del ddl Zan chiedendone una modifica in quanto avrebbe violato il concordato in alcune sue parti. Sappiamo poi come è andata a finire.

Nel nostro paese i casi di omobitrasfobia e la negatività nei confronti delle persone LGBT+ dilagano. Parallelamente le panchine pubbliche di molti comuni sono state dipinte con i colori della bandiera arcobaleno, simbolo del movimento LGBT+. Queste lodevoli iniziative simboliche da parte delle amministrazioni locali volte al sostegno e alla visibilità delle persone LGBT+ sono però inficiate, tra le altre cose, da concreti e cospicui finanziamenti pubblici a scuole private paritarie cattoliche che dal 29 marzo di quest’anno sono ufficialmente autorizzate dal Vaticano a discriminare le persone in base alla loro condotta di vita privata, qualora non conforme ai dettami della Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Nel mirino di tali discriminazioni finiscono anche le vite delle persone LGBT+. Non è infatti sfuggito alla cronaca e alla giustizia il licenziamento nel 2014, di un’insegnante di una scuola cattolica di Trento, licenziata e invitata a “curarsi” per la sua convivenza con una persona dello stesso sesso. La giustizia nel 2021 ha dato ragione all’insegnante, un fatto degno di nota in un paese ancora privo di una legge contro le discriminazioni in base all’orientamento sessuale.

Confortante è vedere che molti comuni italiani patrocinano i vari Pride locali e regionali. Tuttavia, l’aggiunta dello stemma del comune su un manifesto politico può ben poco in confronto all’impartizione della dottrina cattolica da parte di migliaia di insegnanti di religione scelti dal vescovo e pagati dallo Stato nelle scuole pubbliche. Dottrina, ricordiamo, secondo cui l’omosessualità è un “comportamento intrinsecamente cattivo dal punto di vista morale. Per questo motivo l’inclinazione stessa dev’essere considerata come oggettivamente disordinata.”

Date queste premesse, passati più di 30 anni dalla storica dichiarazione dell’OMS, non sorprende che ci sia ancora qualcuno che crede che l’omosessualità o più in generale le attrazioni sessuali e le identità di genere non conformi a una norma eterosessuale e cisgender, debbano essere curate.

Stiamo parlando delle terapie riparative che commistionando pseudoscienza, psicoanalisi freudiana e disegno divino hanno, citando le farneticazioni del guru del settore Joseph Nicolosi, tra gli obiettivi primari: “l’analisi delle dinamiche familiari che possono aver provocato lo sviluppo omosessuale di un individuo. La riappacificazione con il padre è uno dei primi passi in questo processo riparatore…”.

Tali fantasie pseudoscientifiche sono particolarmente gradite alle frange più conservatrici di svariate fedi religiose che sostengono, in coro con i ciarlatani seguaci di Nicolosi, che si nasca eterosessuali e che un trauma infantile possa rendere le persone omosessuali. Per i sostenitori di tali pratiche, qualcosa “si è rotto” nell’animo innocente di un bambino o una bambina durante la sua infanzia e bisogna correre ai ripari con una cura. Peccato che non ci sia nulla di rotto, anzi, sono proprio le terapie riparative ad essere lesive del benessere e della dignità delle persone LGBT+. Lo sostiene l’APA (American Psychological Association), che oltre a dichiarare la nocività di tali trattamenti, esprime anche la preoccupazione che il diffondersi di queste terapie, e relative teorie, contribuisca all’aumentare i pregiudizi e le discriminazioni sociali e – di conseguenza – le condizioni di stress per gli individui e le loro famiglie. In Italia, a differenza che in altri paesi, non esistono centri e istituti per la conversione dell’orientamento sessuale, tuttavia non tranquillizzano le esternazioni bergogliane sulla necessità della psichiatria in tenera età, quando questa “inquietudine” si manifesta. Inoltre, la preoccupazione in Italia, dove non ci sono leggi che tutelano dagli abusi psicologici camuffati da terapia, è stata espressa dalla SIA (Società Italiana di Andrologia) che nel febbraio scorso ha dichiarato che fino al 10% dei giovani LGBT+ è vittima di pratiche tese a correggere l’orientamento sessuale.

A tal proposito, già nel 2016 il senatore Lo Giudice aveva presentato un disegno di legge contro le terapie riparative. Il destino di tale ddl non è stato l’affossamento, perché non è stato proprio mai discusso.

Assai inquietante è leggere che proprio un paio di mesi fa una famiglia torinese abbia richiesto ad un prete di sottoporre la figlia sedicenne ad esorcismo. Il motivo? Ha una relazione con una ragazza. Evidentemente per la famiglia torinese un rituale di esortazione al maligno di uscire dal corpo di una persona indotta a «gravi depravazioni», «atti intrinsecamente disordinati» che «in nessun caso possono essere approvati», come la dottrina cattolica definisce l’omosessualità, è ciò che serve in questi casi. Non è mai retorico ripetere che gli esorcismi non sono pratiche innocue, sono abusi veri e propri, e che, quando non sono applicati a sane persone omosessuali, sono rivolti a persone con disturbi psichiatrici che avrebbero bisogno di cure mediche appropriate e non di schizzi di acqua santa per scacciare il demonio.

Di fronte a tutto questo le istituzioni e la politica italiana continuano a voltarsi altrove, anzi, a genuflettersi e a perseverare nell’astensione dall’intervento. In Italia molti diritti civili sono ancora negati alle persone LGBT+, non bastano sporadici sostegni simbolici in occasioni di ricorrenze internazionali come il 17 maggio. Serve invece la laicità dello Stato e delle istituzioni, condizione senza la quale l’uguaglianza è un obiettivo irraggiungibile.

Maria Pacini

 

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