lunedì 22 marzo 2021 - UAAR - A ragion veduta

Dio ti guarda, e pure l’arbitro (in VAR)

Ancora oggi in Italia la bestemmia viene sanzionata con una sonora multa: dai 51 ai 309 euro. In un paese tradizionalista come il nostro sembra che questa “piaga” affligga anche il mondo del calcio. Tra i tanti casi negli anni, cui puntualmente segue l’autoflagellazione del profanatore, il tema torna d’attualità in chiave meno vittimistica con le dichiarazioni dell’allenatore Serse Cosmi.

Il casus belli è la partita tra Como e Juventus del 1975: una fragorosa bestemmia all’88esimo diventa il primo caso nazionale. In teoria già all’epoca il regolamento prevede l’espulsione del blasfemo e un calcio di punizione, ma si tende a sorvolare. Il commissario speciale della Federazione Italiana Giuoco Calcio Gianni Petrucci invoca nel 2001 la stretta sulla blasfemia in campo, da sanzionare con l’espulsione. Nel 2010 la Figc, sollecitata anche da Petrucci in veste di presidente del Coni, allarga il campo dell’inquisizione. L’allora presidente Giancarlo Abete ci tiene a precisare che “se tale comportamento non verrà rilevato dal direttore di gara, sarà possibile intervenire attraverso la prova tv con una sanzione successiva”. Per giunta, allungando i tempi di quattro ore per far acquisire e vagliare i filmati dalla Procura federale. È un illecito, punito dal Codice di giustizia sportiva della Figc all’articolo 37, con tanto di procedimento del giudice sportivo.

L’arrivo dei microfoni in campo e la progressiva pervasività delle telecamere per assecondare sponsor e canali che detengono i diritti ha creato una sorta di Grande Fratello (sarebbe meglio dire “Grande Frate”) clericale. In questo modo tantissime ingiurie che nessuno capterebbe vengono immortalate, magari in diretta. Prevedibilmente si genera un meccanismo conformista che favorisce la delazione tra collaboratori e sportivi, magari per danneggiare la squadra avversaria. Non sono più sicuri neanche gli spogliatoi e la panchina. Senza contare l’invadenza più marcata nelle questioni sportive di sacerdoti e prelati, o delle associazioni cattoliche, sempre pronti a indignarsi e a fare pressing per essere assecondati.

I casi sono numerosi, basti citarne di recenti ed eclatanti. Solo un paio di settimane fa Andrea Tiritiello del Cosenza è stato squalificato per segnalazione “a mezzo e-mail”. A febbraio, il portiere Gianluigi Buffon ha dovuto pagare 5mila euro di multa e Gennaro Gattuso, tecnico del Napoli, ha patteggiato con 3mila euro. Manuel Lazzari, esterno della Lazio, deve saltare una giornata. Nel giugno scorso squalifica-doppietta per Beppe Iachini e Martin Caceres della Fiorentina.

L’elenco potrebbe continuare con altri processi inquisitoriali verso i bestemmiatori. È stata invece la recente reazione dell’allenatore del Crotone Serse Cosmi, espulso per blasfemia, ad avere dato nuova linfa al dibattito. Per una volta non si vede qualcuno cospargersi il capo di cenere, spergiurare di essere un devoto cattolico o addurre la tradizione toscana o veneta a sua discolpa. Cosmi è stato inchiodato dal giudice sportivo per un’espressione pronunciata non in campo ma negli spogliatoi durante l’intervallo della partita con il Torino, “rilevata dal collaboratore della Procura Federale”. Dopo il match con la Lazio, cui non ha potuto assistere dalla panchina per la squalifica, interpellato dai giornalisti si è voluto togliere qualche sassolino dalla scarpa. Con tono pacato, esprime perplessità sul fatto che “neanche mentre rientri nel tuo spogliatoio tu possa parlare”, “lasciarti andare”. Aggiunge: “mi auguro che si ritorni presto a prendere in considerazione questo tipo di normativa per quello che riguarda la parola blasfema nella maniera giusta” dato che “fino a prova contraria io penso di vivere in un paese laico”. “Ci sarebbe da disquisire anche sul contenuto della norma”, ma avverte, “non lo voglio fare perché sennò entrano in mezzo tutte le associazioni clericali”. Basterebbe una modifica: “o modificano le norme o modificano le persone che stanno vicino, dentro gli spogliatoi”. Viste le levate di scudi (crociati), Cosmi ha poi precisato che “era una riflessione generale”: “auspicavo solo che si avesse la serenità di valutare con più attenzione eventuali frasi dette in momenti di tensione”, “non ho mai pensato di sdoganare la blasfemia e far passare una bestemmia come una cosa normale”.

Contestare la condanna per la bestemmia non ha come obiettivo, come qualcuno potrebbe credere, aprire le gabbie al “rutto” libero o all’offesa gratuita. Al di là dell’epidermica antipatia che anche un non credente può avere nei confronti della bestemmia in quanto espressione volgare oppure offensiva verso la sensibilità dei credenti, il punto non è il gusto personale o il tatto da avere. Quelle rimangono appunto questioni di coscienza, lasciate al buon senso degli interessati al fine di garantire la convivenza civile. Archiviamo poi l’assurdità prescrittiva per cui un “vero” ateo non dovrebbe bestemmiare, altrimenti vorrebbe dire che ci crede: sebbene appaia arguto, questo ragionamento è sofistico. Un ateo non bestemmia perché in maniera recondita crede in dio ed esprime rabbia verso di lui, come vorrebbe qualche bigotto in vena di transfert, o qualche ateo iper-moralista. Lo fa perché è un intercalare comune in certe zone e contesti, per lo scarso controllo di sé che può avere quando si sfoga, per la potenza espressiva, persino come forma di protesta. Altrimenti non dovremmo nemmeno usare tante espressioni di uso comune con rimandi religiosi come “addio”, “oddio”, chiamare qualcuno scherzosamente “angelo/santo/diavolo”.

Occorre superare i retaggi confessionalisti che ancora pervadono la nostra legislazione per arrivare a uno stato più laico. E la sanzione sulla bestemmia è un residuo, l’ennesimo, della normativa fascista che tutelava l’allora religione di stato, quella cattolica. Frutto del Codice Rocco degli anni trenta, l’articolo 724 considerava reato anche l’offesa “contro la Divinità o Simboli o le Persone venerate nella religione dello Stato”. Solo nel 1995 la Corte costituzionale toglie il riferimento alla religione “di stato” (la revisione del Concordato l’aveva fatto un decennio prima), lasciando la tutela alla sola divinità, allargata alle varie religioni. E solo una riforma del 1999 lo derubrica – si fa per dire – da reato a illecito amministrativo, sempre passibile di multa.

Se è vero che nel mondo del calcio il turpiloquio è frequente, l’occhiuta repressione della bestemmia ha poco a che vedere con l’offesa in sé e si presta a grattacapi dal punto di vista giuridico. Spesso non è in flagranza e spesso sono le telecamere a “puntare” certi giocatori o tecnici per inseguire l’ennesima polemica. E a monte, a voler essere pignoli, è problematico supporre l’esistenza di una “persona” divina da tutelare. Perché, di norma, è l’interessato a dover sporgere denuncia se si sente calunniato o diffamato. Se dio si sente insultato quando lo si accosta a qualche sua creazione biologica può sporgere denuncia lui. O chi lo fa per suo conto deve essere munito di una debita procura, firmata dall’interessato. Qui scendiamo volutamente nel ridicolo perché, a rifletterci serenamente, è ridicolo proprio il fatto che uno stato si erga a giudice per conto di dio. Ma ormai tanti – persino non credenti – sono così immersi nel confessionalismo sistemico da scambiare lo scudo anti-bestemmia con l’esigenza della buona creanza.

La repressione della bestemmia serve infatti a creare un clima culturale di sospetto e di riverenza nei confronti della religione dominante, a far diventare certi concetti un tabù, a limitare la libertà di espressione. L’attore comico Enrico Montesano, interpellato sul caso Cosmi, involontariamente rende bene questo clima: “La bestemmia è una cosa molto grave. Perdono, ma non giustifico, non lo ammetto. Perdonare è cristiano, ma che si ammetta in campo una bestemmia non è rispettoso per la religione cristiana, quindi non è ammissibile”. Anche lui, da devoto, si appella alla tutela della religione dipinta come bistrattata, invidiando il piglio di altre culture: “vorrei un po’ difendere questo nostro cristianesimo, che mi sembra un po’ indifeso. Mi sembra che altre religioni siano molto più ferme e decise, e le sanzioni siano molto più gravi se ti azzardi ad offenderle”. Infatti in molti paesi, specie quelli musulmani, qualsiasi critica alla religione viene interpretata come “blasfema” e sanzionata, talvolta con la pena di morte. Qui da noi gli integralisti cattolici puntano ad allargare il campo della blasfemia, con campagne di ossessiva indignazione e panico morale (spesso a “difesa” dei bambini). Ora la attribuiscono persino al passato Festival di Sanremo. Meno male che era l’Uaar a far “polemica” sulla kermesse!

La regressione confessionalista sulle bestemmie nei campi italiani aveva suscitato il netto disaccordo del sindacato internazionale dei calciatori FifPro, già nel 2010. “Ognuno ha il diritto di dire ciò che vuole, anche se può essere spiacevole”, sottolineava l’avvocato Wil Van Meger, “In base alle norme nazionali e alla legislazione internazionale, la libertà di espressione può essere rivista soltanto con un atto del Parlamento. Il potere di una federazione sportiva non può essere estesa ai diritti fondamentali. Se la Figc vuole punire questo, lo può fare solamente con l’appoggio del Ministero della Giustizia. Ma vorrei far notare che nessun governo ha fatto qualcosa del genere negli ultimi 100 anni”. Parole sante di una voce nel deserto, verrebbe da dire, se non fosse “blasfemo”.

Valentino Salvatore

 

Foto di Tania Dimas da Pixabay 




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