martedì 16 agosto 2016 - Marina Serafini

Di madre in figlia

Donne che indossano abiti succinti, donne coperte da un velo scuro, donne dai capelli rasati... Donne che provocano e che subiscono, che si adeguano o lottano, donne che hanno smesso di farlo. Donne mutilate che impongono la stessa sorte alla loro figlie, in nome di una religione che non è nata con quello scopo violento. Sono una donna anch'io. Che provoca, che lotta, che subisce.
E che a volte si sente impotente.
Sono stata cresciuta da una donna, che ripeteva sempre lo stesso mantra: prima gli altri, poi te. Tu devi restare nel buio, servire gli altri e renderli felici.
Infatti, in piena coerenza, lei non era felice. Questa storia non mi ha mai convinta, così ho preso un'altra strada, quella orientata allo sforzo congiunto verso la realizzazione del bene comune. E della felicità condivisa.
Anche in nome di una sola idea la persone si uccidono, si torturano, si odiano.
E per sfuggire al dolore lo diffondono intorno, perché appaia meno evidente la differenza con ciò che dolore non è. 
Ogni anno muoiono bambine e donne che hanno subito mutilazioni genitali. Ogni anno le stesse donne che le hanno ricevute le infliggono alle loro figlie, perpetrando un misfatto che la stessa Unione Africana ha condannato.
La mentalità - lo sento ripetere ovunque - lo sappiamo bene, è difficile da cambiare. 
 
Io non capisco. Se un bambino si brucia toccando un oggetto bollente non inviterà certo altri suoi simili a ripetere l'azione. Semmai cercherà di evitarne la ripetizione. A meno che non abbia voglia di ferire qualcuno. Qualcuno che lo ha messo nella condizione di farsi del male.
Vien da pensare che queste donne vivono una condizione tanto misera da non tollerare nemmeno il proprio ruolo di madre. Vivono forse una tale restrizione di esistenza da considerare lo splendido dono della maternità come un aggravio ulteriore e, forse, senza nemmeno rendersene ben conto, puniscono chi, senza alcuna colpa diretta, conferma il terribile ruolo di donna-contenitore, infliggendo anche a chi esce dal loro ventre un marchio di fabbrica: tu come me. E tua figlia dopo di te.
 
Le convinzioni son dure da cambiare, soprattutto se nate nel dolore e nella frustrazione. Alzatevi, donne, e gridate la vostra rabbia, nutritela con la vostra sofferenza e fuggite l'ignominia.
Che la violenza non alimenti, giustificandola, altra violenza, ma serva per comprendere che è tempo di cambiare strada.
 



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