martedì 23 gennaio 2018 - Aldo Giannuli

Destre radicali: c’è davvero un pericolo? Intervista a Matteo Andriola

Matteo Luca Andriola, oltre che grande amico, è tra i giovani storici e politologi italiani forse il più preparato studioso della destra radicale in Italia e nel nostro continente e autore di un libro, “La Nuova Destra in Europa”, ormai tra le bussole per chi voglia approcciarsi al tema. Da appassionato di una materia “sorella” – la geopolitica – ho il grande piacere di poter fare due chiacchiere con lui per cercare di orientarmi nell’attuale scenario. 

Abbiamo da temere un ritorno di fiamma del pericolo fascista complice una crisi economica che si è fatta crisi sociale – o che forse addirittura da una pregressa crisi sociale e culturale deriva?

 

Si tratta invece di un allarmismo anacronistico agitato dalle classi dirigenti come “arma di distrazione di massa”? Oppure, tertium datur, il pericolo si è differenziato da quello del secolo precedente e ha assunto una forma diversa, forse più subdola? Partiamo da questo tema e vediamo se riusciamo a fare qualche incursione nella geopolitica – e sul tema delle rivoluzioni colorate che il blog di Aldo sta analizzando da diverse settimane.


Matteo, ci aiuti innanzitutto a distinguere tra il filone culturale della “Nouvelle Droite”, i cosiddetti populisti, i cosiddetti neocon e le estreme destre più “tradizionali”? Cosa distingue e cosa unisce questi quattro ambiti politico-culturali? 


Allora, partiamo innanzitutto da una distinzione che va fatta, e che spesso certi osservatori dei fenomeni che avvengono nella destra italiana o europea, magari per paraocchi ideologici, non fanno: tutti i fenomeni da te elencati si distanziano l’uno dall’altro, ma su certe tematiche possono convergere. La cosiddetta “Nouvelle Droite” – che analizzo nel mio La Nuova Destra in Europa. Il populismo e il pensiero di Alain de Benoist (Ed. Paginauno, 2014) – è innanzitutto una corrente filosofica sviluppatasi nel ‘68 attorno al Grece, il Groupement de recherches et d’études pour la civilisation européenne, associazione culturale a vocazione ‘metapolitica’ che agisce esclusivamente in ambito culturale, e non direttamente politico, e che ha fra i suoi teorici di punta il filosofo normanno Alain de Benoist, anche se la corrente ha avuto altri teorici, come Dominique Venner, Pierre Vial, Jean Varenne, Jean Haudry, Guillaume Faye, Robert Steuckers, Jean Mabire, Jean-Claude Valla, ecc. La corrente, a seguito dello studio degli scritti di Gramsci, opta per una strategia culturale che verte sulla costruzione di un’egemonia.

Nonostante le evoluzioni, la corrente, spiega Pierre-André Taguieff, ha cinque costanti: 1) la denuncia del retaggio giudeo-cristiano della cultura occidentale e la sua incarnazione della “religione monoteista dei diritti umani”; 2) la critica all’«utopia egualitaria»; 3) l’elogio del paganesimo come diretta conseguenza della critica al monoteismo dirittumanista, presentato come alternativa spirituale per il popolo europeo nel corollario del “fondamento e riferimento normativo al patrimonio indoeuropeo”; 4) la critica all’economicismo, all’utilitarismo liberale, all’occidentalismo come American Way of Life, distinta dalla cultura europea, e alla visione mercatista, specie in chiave “mondialista” e finanziaria, una costante dagli anni Ottanta, specie dopo l’uscita nel 1981 del best seller di Guillaume Faye Le système à tuer les peuples (ed. it. Il sistema per uccidere i popoli, AGA Edizioni, 2017) o, nel 1984, del pamphlet La NSC: Nouvelle société de consommation; e 5) l’etnodifferenzialismo radicale, emerso nella seconda metà degli anni ‘70 dalle analisi etnoregionaliste elaborate a suo tempo nei primi anni Sessanta, ed evolutosi negli anni ‘90 in una sorta di relativismo culturale ispirato alle tesi di Claude Lévi-Strauss. Nonostante la sua “apoliticità”, la ND, come spiego nel mio libro, ha interagito con certo «nazional-populismo», una categoria che raggruppa partiti come il Front national di Marine Le Pen al Fpö (l’ex partito di Jörg Haider), al Vlaams Belang del separatista fiammingo Philip Dewinter fino a formazioni come l’Unione democratica di centro (Udc-Svp) in Svizzera e la Lega Nord in Italia, soffermandomi sulle interconnessioni col neodestrismo. Tale area politica non rappresenta tout court il populismo, dato che, come spiega il prof. Marco Tarchi – politologo che ha diffuso le tesi di de Benoist in Italia – «Si può concordare sul fatto che esso [il populismo] non corrisponde in alcun modo univoco a un particolare e ben definito tipo di regime politico, o che non ha presentato contenuti omogenei in tutte le sue manifestazioni empiriche e pertanto non può essere ricondotto né a una visione del mondo intesa secondo i canoni delle classiche Weltanschauung né a un programma politico fissato una volta per tutte». Per Tarchi il populismo, più che un’ideologia è un’attitudine, che può coinvolgere partiti di destra (quelli che ho studiato io), ma pure di sinistra, si pensi al dibattito sulla “sinistra populista” di Laclau. I minimi comun denominatori però sono i medesimi: la centralità del leader carismatico, che cerca un legame col popolo, mitizzato. Il come una comunità omogenea, specie interclassista, da contrapporre ai tradizionali partiti, usurpatori dell’effettiva sovranità popolare. Il leader populista, di solito, parla in Tv con un linguaggio semplice, “popolare”, a volte volutamente volgare (si pensi al vecchio motto leghista come «La Lega ce l’ha duro!») e non usa affatto il “politichese”, una lingua “straniera” per la maggioranza delle persone.

Di solito – a destra o a sinistra – il populista denuncia nei suoi interventi il distacco dei partiti politici tradizionali dall’elettorato. Solo che a destra – cosa che nel populismo “di sinistra” o in soggetti politici come il M5S non avviene –, quando si parla di democrazia referendaria/diretta, si intende per “democrazia” la «sovranità del popolo nato ed originario della comunità, che si esprime direttamente attraverso il suo capopopolo, che rappresenta organicamente tutti». Una caratteristica della “Nouvelle Droite”, un minimo comun denominatore col populismo e soprattutto col “rosso-brunismo”, oltre ad un antiamericanismo che nasce da una critica alle storture del mercato, è la messa in discussione della diade liberale destra/sinistra per animare una “nuova sintesi” trasversalista per superare l’impasse che l’Europa liberista sta affrontando, riprendendo simultaneamente elementi “di destra”, come l’identitarismo e il culto per una certa visione antimoderna e tradizionale, con quelli di “sinistra”, come l’ecologismo integrale, la decrescita, la socialità e un certo comunitarismo dipinto come “socialismo”, una risposta ad un pensiero postmoderno che mette anch’esso in discussione tale diade ideologica sostenendo però la fine delle ideologie in nome del dominio di una: quella del mercato. Il rossobrunismo, però, non agisce solo nell’ambito culturale, ma cerca di agire politicamente. Ecco la differenza basilare con la Nuovelle Droite.

Parlando dei neocon parliamo di un’area politica di origine americana di stampo liberal-conservatore, occidentalista e soprattutto interventista, favorevole all’esportazione del modello societario occidentalista anche con l’uso della forza e ad un rafforzamento del primato statunitense nel mondo nel quadro unipolare. Siamo distanti dalla Nouvelle Droite e dal “rosso-brunismo” (termine che non amo, e poi spiegherò perché), non solo perché tali aree sono antiamericane e, recentemente, filorusse, ma perché qui si elevano alcune peculiarità a loro diametralmente opposte; vi è invece una certa convergenza con alcune aree del populismo, come quello olandese (ma pure nella Lega, nel Front national ecc.), specie su temi come l’Islam, pensiamo a come certi ambienti del centrodestra elogiano gli scritti di Oriana Fallaci o Magdi Cristiano Allam, candidato, non a caso, in Fratelli d’Italia, dove però convivono – come nella Lega e in altri partiti populisti – sensibilità che potremmo dire filtrate dal neodestrismo.

Dove possiamo collocare partiti politici come Lega Nord, Front National, Alternative Fuer Deutscheland et similia? E quali le affinità e divergenze tra questi stessi movimenti?

Sono tutti parte del nazional-populismo o “populismo di destra”. Vi sono però delle differenze: nella Lega, nonostante la svolta operata da Salvini, rimangono forti sensibilità regionaliste, su cui si può saldare il discorso del comunitarismo identitario sviluppatosi in area neodestrista, mentre nel Front national rimane una visione “giacobina” e nazionalista. L’area frontista converge con quella leghista sul tema immigrazionista e sulla critica all’Ue, nonostante la svolta di Marine Le Pen ha portato il partito a sposare una certa visione “sociale” e trasversalista (“non siamo né di destra né di sinistra, siamo al di là” ecc.) che ha favorito uno sfondamento nell’elettorato operaio e che ha una inequivocabile matrice neodestrista, nonostante de Benoist abbia sempre criticato il Front (ma molti ex aderenti al Grece sono poi passati in area frontista, dando un loro contributo ideologico). Per quel che riguarda AfD siamo davanti ad un soggetto protestatario giovane che attecchisce contro le “vecchie destre” neonaziste (come il Npd) per via delle leggi draconiane contro la propaganda hitleriana, in cui è forte una profonda islamofobia di matrice neocon e, in certe sue frange, filo-israeliana, ma il tabloid neodestro tedesco Junge Freiheit – che ha sempre dato un appoggio alla Lega e al Fpö di Haider – ha sostenuto il movimento perché potevano esser veicolati discorsi identitaristi e di critica alla classe dirigente tedesca.

Le destre sono storicamente un panorama politico molto variegato che nello spazio del solo XX secolo ha ospitato liberali ed autoritari, populisti ed elitisti, clericali ed anticlericali, cattolici tradizionalisti e neopagani, liberisti e statalisti, nazionalisti e localisti, diversissimi ma spesso alleati: oltre ai quattro filoni che ti presentavo nella mia prima domanda ne identifichi altri oggi come oggi?

Éléments, l’organo della Nouvelle Droite, pubblicò nel n° 94 del febbraio 1999 un’inchiesta, arrivando a censire ben… 36 tipologie di destra, come quella nazional-rivoluzionaria, contro-rivoluzionaria, liberale, federal-europeista, comunitarista, bio-eugenista, democratico cristiana, razzista, libertaria, tradizionalista, neofascista, nazionalista, anarchica, regionalista, moralista, anticomunista, tecnocratica, borghese, moderata, americanista, cospirazionista, cattolica, nazista, ecologista, ecc. Morale? Secondo loro la «destra non esiste, non solo le inclinazioni e le referenze divergono, ma non si trovano nemmeno dei valori referenziali ultimi su quali le destre accordarsi». La situazione italiana è simile (nell’alveo della fascisteria nostrana). Franco Ferraresi, nel panorama della destra radicale italiana che si ispirava più o meno al fascismo, scriveva che nel neofascismo convivevano «monarchici e repubblicani, “socializzatori” e difensori della proprietà privata, corporativi e anticorporativi, filoborghese e antiborghesi ma anche neutralisti, filoatlantici, antiatlantici addirittura qualche voce filosovietica; filoarabi e antiarabi; in seguito, filoisraeliani e antisraeliani. Inoltre: cattolici osservati, tradizionalisti anti- o a-cattolici; fra questi, gli ostili alla Chiesa per motivi politici (il “tradimento” del Fascismo), i neopagani, i mistici orientalisti, i simpatizzanti per l’Islam, e così via». Tutte tendenze tutt’oggi presenti nell’estrema destra.

E il “filone rossobruno”? Ti faccio una domanda molto diretta: esiste ed è rilevante nella destra moderna o è una invenzione giornalistica, oppure ancora è stata solo una suggestione intellettuale del passato, tra Niekish e Bombacci?

Allora, la corrente “rossobruna” esiste, ed è una corrente culturale che «In termini prettamente politico-letterari – notava Francesco Boezi su L’Intellettuale Dissidente, rivista online legata a tale area –, coloro che si richiamano a questa visione del mondo, spaziano da Gramsci a Gentile, da Bombacci a figure anarchiche come Proudhon e Bakunin. Filosofia idealista, ergo triade Fichte-Hegel e Marx, sino ad arrivare a politici di riconciliazione nazionale e difesa sovranitaria quali Chavez, Guevara e De Gaulle». Ergo, suggestioni di destra e di sinistra unite in un unico corpus dottrinario, a cui verranno aggiunte suggestioni prese dal marxismo idealistica di Costanzo Preve, l’antiliberalismo socialista di Jean-Claude Michéa, la metafisica di Aleksandr Dugin, il teorico antimoderno della “Quarta Teoria Politica” capace di sintetizzare il marxismo col tradizionalismo di Julius Evola, e le citate suggestioni della Nouvelle Droite. Ma parliamo di un’area politicamente marginale, gruppuscoli che tentano, in nome di una logica antiamericana, di creare un ponte fra una certa destra antimondialista e una certa estrema sinistra. Storicamente è esistito un filone simile nato in seno alla Konservative Revolution tedesca, area culturale sviluppatasi in Germania fra le due guerre ce ha dato argomentazioni al nazionalsocialismo hitleriano, il “nazionalbolscevismo”, animato dall’ex socialista Ernst Niekisch, che teorizzò – alla pari della cosiddetta “sinistra nazionalsocialista”, interna al Nsdap di Hitler e critica di certe politiche anticomuniste dei vertici del partito – una sintesi fra nazionalismo e forme di pianificazione economica di tipo sovietico e di controllo operaio assieme alla collaborazione con la piccola borghesia produttiva contro quella finanziaria. Niekisch, rifacendosi alle tesi di Fichte, esalterà lo “Stato Totale”, imperniato su un nuovo tipo di nazionalismo socialrivoluzionario, indipendentista, uno Stato pronto a sacrificarsi e a servire, che non dipendesse dalle leggi della domanda e dell’offerta, ma, anzi, che piegasse l’economia alle sue necessità, che rifuggisse dall’economia internazionale aperta, scegliendo l’autarchia, esaltando il ruralismo per forgiare un uomo nuovo, teutonico, spartano, diverso da quello “democratico”, frivolo, tipico degli Stati Occidentali.

In politica estera, rifacendosi alle tesi di Karl Haushofer, proporrà l’alleanza fra la Germania e l’URSS e, in un secondo momento, la nascita di un’Europa unita da Vlissingen a Vladivostok, una superpotenza autarchica e social-patriottica da contrapporre agli stati “talassocratici” e mercantilisti come l’Inghilterra e le nazioni vincitrici della prima guerra mondiale. Tutte tesi che il moderno “nazional-comunitarismo” – grazie a Aleksandr Dugin o alle tesi dell’ex comunista ed ex SS vallone Jean Thriart, che creerà Jeune Europe, movimento nazional-europeista e “nazional-comunista”, nato per creare «una grande patria comune, una Europa unitaria, potente, comunitaristada Lisbona a Vladivostok» – e la Nouvelle Droite fa sue, filtrate a sua volta dalla cartina dell’Europa delle Waffen-SS! Ma è un’area che da sola non conta nulla, ma che ha diffuso nell’estrema destra – si pensi al ruolo chiave del mensile Orion negli anni ‘80 e ‘90 – la geopolitica e l’eurasiatismo, cioè l’idea di unire l’Europa, libera dall’America e quindi sovrana, con la Russia e i paesi asiatici per costituire un baluardo antiglobalista, e che, come la Nouvelle Droite, è penetrata nei populisti grazie a personalità finite nell’entourage di Marine Le Pen o Matteo Salvini: chi è che organizza i viaggi di Salvini in Russia se non Gianluca Savoini, presidente di Lombardia-Russia e amico di Maurizio Murelli, fondatore di Orion e amico di Dugin? E chi predicava nel Front national l’idea della nascita di un’asse Parigi-Berlino-Mosca se non l’ex neodestrista ed ex nazionalbolscevico Christian Bouchet, oggi dirigente del Fn di Nantes e ieri leader del gruppo “rosso-bruno” Nouvelle résisance, o il geopolitico Aymeric Chauprade, collaboratore di Éléments e punto di contatto con Russia Unita? Sono contatti che dimostrano come tale area sia più interessata a interconnettersi col nazional-populismo, che offre pure una maggiore visibilità, che con certa sinistra ormai marginale, checché ne dicano i «cacciatori di “rossobruni”», categoria creata in Russia dall’entourage liberale di El’cin per criminalizzare un partito comunista che sposava il patriottismo e criticava le privatizzazioni, e diffusosi in Europa occidentale a sinistra dai primi del 2000 per protestare contro l’ipotetica “infiltrazione” di personalità della destra antimondialista nelle manifestazioni contro la guerra contro l’Iraq e che, col tempo, è stata utilizzata a sproposito per denominare non solo chi, da destra, espone le posizioni sopra citate, ma per schedare e marginalizzare chi oggi a sinistra “stecca nel coro” e, su basi marxiste, fa sua la difesa della sovranità popolare europea contro la globalizzazione o critica la criminalizzazione di quei governi e regimi che si oppongono all’unipolarismo americano, dai socialismi arabi come quello in Siria, alla Cina Popolare, al Venezuela, alla Corea del Nord, a Cuba, all’Iran fino alla Russia di Vladimir Putin, o che s’azzarda a dire, da basi marxiste, che l’immigrazione è uno squilibrio e che se le masse votano a destra, forse è tempo per la sinistra di andare al popolo e di parlarne, e non di schedarli come pericolosi “rossobruni”, una patologia che si nutre della psicosi dell’infiltrazione nazimaoista nata negli anni ‘70, oggi anacronistica.

E qui scatta il collegamento con la geopolitica: chi parla di destre estreme, destre radicali e destre populistiche (uso volutamente il plurale, anzi, i plurali!) finisce, nell’Europa di oggi, per parlare inevitabilmente di Europa orientale, e più ancora di Russia. Che cos’è questo “vento nero dall’Est”?

Per come la stanno descrivendo oggi i giornali è un mezzo usato per criminalizzare la Russia di Putin alla pari di chi, appoggiando i “ribelli” in Siria, da del “fascista rossobruno” ad Assad perché in Italia o in Francia certi settori dell’estrema destra e i vari partiti comunisti solidarizzano con il governo, mentre lì vi sono ministri comunisti e socialisti! È vero che Vladimir Putin difende nei suoi discorsi la sovranità russa dall’americanizzazione e certi valori “profondi” come la famiglia ecc., temi che da noi sono affrontati solo dalla destra, ma Russia Unita è un partito centrista in Russia, mentre se vogliamo guardare all’ultradestra, si punti il dito a Žirinovskij, nazionalista e populista di destra, mentre certo patriottismo, unito da forti toni socialisti e nostalgici dell’URSS, è usato anche dai comunisti di Zjuganov! Forse dobbiamo capire che la politica russa non è quella italiana o europea e ci sono discrimini diversi dai nostri (destra/sinistra spinti allo sfinimento e al tifo calcistico, anche se c’è da privatizzare – o liberalizzare, come si opta a sinistra – si superano le distanze), e cioè lì vi sono formazioni che incarnano la vecchia “slavofilia” che si contrappongono a formazioni “occidentaliste”, il che porta i comunisti a criticare Putin per la politica economica ma a lodarlo e a sostenerlo per quella estera. È senz’altro vero che certi settori del populismo europeo guardano a loro modo alla Russia, ma in parte nasce dall’identificazione che da noi ha assunto da anni la sinistra (o anti-autoritaria, radical e movimentista o prona alla finanza e liberista) e, in parte, per intercettare il voto di quei settori della borghesia nazionale che hanno avuto non pochi problemi con le sanzioni alla Russia. Insomma, Vladimir Putin è un liberale, ma di tipo sovranista. Se dovessi paragonarlo ad un politico europeo azzarderei un paragone con Charles De Gaulle, ergo col vecchio gollismo, non quello da Sarkozy in avanti.

Ci addentriamo sempre di più nel mio campo di studi preferito. Se posso dire la mia, l’Occidente – e le sue democrazie – non è estraneo al supporto allo sciovinismo dei paesi dell’Est, penso a come abbia prima coccolato in funzione antiserba un violento nazionalismo croato e come oggi tolleri quello ucraino altrettanto virulento, per non parlare del silenzio assenso sulle discriminazioni contro le minoranze russe nei paesi baltici (private persino della nazionalità!). A tuo avviso si tratta solo di un tacito consenso o c’è di più? Mi riferisco all’afflusso di armi e volontari da molti paesi europei a supporto dei combattenti croati durante gli anni ’90 e di volontari a supporto di quelli ucraini oggi.

Se è vero che un tempo il capitalismo fordista usò il fascismo, prodotto di una società capitalista instabile e della reazione della grande borghesia contro il proletariato emergente attraverso la mobilitazione di masse piccolo-borghesi e sottoproletarie (il “regime reazionario di massa”, come lo descrissero i comunisti in clandestinità, o “reazione di classe estrema del capitalismo per difendere se stesso”, per citare Renzo De Felice), oggi il neocapitalismo post-fordista è molto più flessibile – come del resto la sua stessa struttura economica, liquida – e più maturo, e, oltre ad essersi gradualmente emancipato da quelle caratteristiche valoriali tipiche del vecchio capitalismo produttivo – la sacra triade borghese “Dio-Patria-Famiglia” – s’è gradualmente emancipato dall’azione di tipo reazionaria. Nella seconda metà degli anni ‘70, infatti, la superpotenza americana ha archiviato l’uso massiccio dei golpe militari, connotati a destra, e ha quindi optato per finanziare le note “rivoluzioni colorate”, in parte spontanee perché cavalcavano le contraddizioni di quei governi non allineati agli Usa e, al contempo, supportate e infiltrate dai servizi di intelligence occidentali. Solo che nel caso ucraino, fallita la rivoluzione colorata, s’è passato all’uso delle armi, e lì, effettivamente, i nazionalisti ucraini erano storicamente russofobi, e quindi l’apporto di tali milizie è stato propiziatorio per fare il lavoro sporco. Sul caso croato – e in generale balcanico, specie nei primi anni ‘90 – siamo davanti ad un ottimo laboratorio, dove, soffiando sullo sciovinismo economico delle regioni più sviluppate, Croazia e Slovenia, il grande capitale ha favorito la disgregazione di una repubblica che, pur con tutte le contraddizioni, favorendo la nascita di repubbliche autonome che, nel caso croato, pescavano nel recente nazionalismo ustascia, cioè filofascista.

Per la nuova “società liquida” i golpe militari di destra erano troppo “solidi”: meglio quindi puntare su strumenti “liquidi” a propria volta, più accettabili dalle opinioni pubbliche dei tanti, impresentabili Pinochet. Ma allora si tratta di mie fantasie oppure il supporto, sempre nella doppia forma di uomini e mezzi, verso i nazionalisti antirussi balcanici ieri ed ucraini o caucasici oggi (sino al supporto ad elementi jihadisti in Bosnia, in Siria e forse anche in Cecenia) non è episodico e contingente ma risponde ad un disegno più strutturato? Esagero se ipotizzo – quantomeno come filone di indagine– l’esistenza di una sorta di “Gladio leggera” che, invece che essere una struttura permanente, è appunto liquida e si “dissolve e ricoagula” alla bisogna? Qui potrebbe darci una grossa mano Aldo – chissà che non voglia farne tema per un suo pezzo (o chissà, per il capitolo di un libro).

Qui il prof. Giannuli può esserci veramente d’aiuto dato che è esperto di servizi segreti: personalmente non credo che questi, dai tempi della strategia della tensione, siano molto cambiati: se negli anni ‘60-‘70 infiltravano la destra radicale usandola a fini eversivi, non vedo perché oggi non debbano usare – e ripeto, i Balcani sono stati un ottimo laboratorio dopo il crollo del muro di Berlino, un osservatorio per studiare i futuri comportamenti della Nato sia nel primo conflitto civile che durante la seconda guerra ai danni della Serbia – l’estrema destra nazionalista (ovviamente quella avversa ai nemici geopolitici, e nel caso balcanico i croati non solo erano avversi ad una Serbia che guardava ad una Russia all’ora impotente, ma si consideravano l’Occidente, mentre nel caso ucraino si cavalca la nota ostilità ucraina verso Mosca) o il fenomeno della radicalizzazione delle comunità musulmane, facilitato nel caso bosniaco dal massiccio invio di investimenti da Ankara e delle petromonarchie arabe, Arabia Saudita in testa. E’, a mio avviso, la nuova politica estera di Erdoğan in veste neo-ottomana, che vuole creare non solo una repubblica conservatrice islamica, ma anche un’area d’ingerenza corrispondente al vecchio impero a cavallo fra l’Ue e l’Eurasia, dialogando ora con gli uni (per entrare nell’Ue) e poi con gli altri (ha cominciato a dialogare con l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, o SCO, l’associazione di carattere economico formata da Russia, Cina, Kazakhistan, Kyrghizistan, Tajikistan ed Uzbekistan ), ma senza uscire dalla Nato… non è un caso che qui l’Occidente va in contraddizione: perché Erdoğan, presidente di un paese membro della Nato, è attaccato dalla stampa liberale alla pari di Maduro, di Kim Jong-un e di altri politici antiamericani? Forse per tale progetto?

Interessante la tua lettura del fenomeno Erdogan – a mio avviso l’Erdoganismo è una delle tante manifestazioni proteiformi non solo dell’islam politico moderno “inventato” dai Fratelli Musulmani ad inizio XX secolo e da chi a loro si ispira ma anche di un certo modo “europeo” di intendere le destre nazional-conservatrici. Molto ci sarebbe da dire anche sull’estrema destra turca dei lupi-grigi che non è estranea al collaborazionismo coi ceceni e forse anche coi jihadisti siriani e, a quanto sappiamo, in forti rapporti con gli ambienti atlantici. Anche loro quanto a “proteiformismo” non scherzano, se pensi che Meral Akşener, la candidata di un nuovo partito centrista-europeista che sfida Erdogan è un ex-membro dei Lupi e fino a poco tempo fa esponente del partito di estrema destra MHP.

Per concludere torniamo però alla domanda di apertura: se un pericolo di estrema destra c’è, sotto quale forma è presente? È oggi come ieri ascrivibile – almeno in alcuni paesi – alla vicinanza allo stato profondo o è un fenomeno puramente sociale e politico? Cosa fare per combatterlo efficacemente?

C’è l’ascesa di una destra radicale (CasaPound, Forza Nuova, Alba Dorata ecc.) di palese matrice neo-nazifascista e di una destra nazionalpopulista, ma la prima – se si esclude il caso greco – non credo possa costituire oggi un pericolo, e mi limito ai dati elettorali e non ovviamente ai valori predicati, per la democrazia. Per quanto riguarda la destra nazionalpopulista italiana è composta da Lega Nord e Fratelli d’Italia, due formazioni che hanno già governato il paese con l’appoggio del centro moderato cattolico e liberale e non credo che possano costituire un pericolo serio come non lo è stato effettivamente Berlusconi; ripeto, parlo di instaurazione di stati autoritari ecc. come si temeva nel 1994, e consiglio di sfogliare lo speciale sulle destre del 1994 di MicroMega, dove l’ascesa del berlusconismo era vista come l’inizio dello stato autoritario per la preseza del Msi e della Lega Nord. Oggi nessuno può dire questo! Idem per paesi come l’Austria, che furono sanzionati nel 1999 dall’Ue per la presenza di Haider, ma il loro operato – nonostante certe esternazioni forti e xenofobiche del governatore della Carinzia – non creò alcuno stato postnazista. All’estero, in paesi come la Francia, fin’ora non hanno mai governato, ma ripeto, i meccanismi interni all’Ue impedirebbero la nascita di regimi neofascisti e antidemocratici. Lo spostamento a destra dell’elettorato è la cartina al tornasole del fallimento della sinistra, sia riformista che neo e postcomunista. Non è sventolando l’impossibile nascita di dittature che la sinistra guadagnerà di nuovo voti dal suo elettorato storico, la working class, ma facendo poco per volta i passi verso di lei, interpretando i suoi umori e i suoi malesseri dando risposte atte a proteggerla dagli squilibri della globalizzazione neoliberista. Vedere CasaPound che distribuisce generi alimentari nei mercati, non dovrebbe spingere la sinistra a denunciare il voto di scambio – ma perché, promettere i famosi 80 euro non è un demagogico voto di scambio? Tu dai il voto a me, e io ti do un bonus? – ma piuttosto a radicarsi di nuovo, come avveniva un tempo, nelle periferie, dove serpeggia un forte disagio sociale.

Beh, concordo: una certa sinistra ha sposato in toto non solo le prassi politiche ed economiche ma anche i presupposti culturali del liberismo e ha perso completamente non solo il contatto con la propria gente ma anche qualsiasi capacità di analisi sociale – quel che il blog di Aldo denuncia da sempre!

Grazie mille Matteo! Attendiamo le tue prossime fatiche
Amedeo Maddaluno




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