martedì 31 ottobre 2017 - Pino Mario De Stefano

Critica della trasparenza

Cosa perdiamo se guardiamo un film e badiamo prima di tutto al “significato”, preoccupandoci di tradurre in linguaggio logico e coerente il flusso delle immagini, invece di lasciare ad esse l’iniziativa e farci guidare dalle loro suggestioni?
Cosa perdiamo quando davanti a un quadro cerchiamo i testi e i concetti di cui quelle immagini sarebbero la visualizzazione, invece di farci provocare dal gioco di quelle forme e quei colori?
E soprattutto quanto perdiamo quando nell’ascoltare un canto ci lasciamo sequestrare dalle parole invece di consentire alle note di accompagnarci nel territorio dell’indicibile? Cosa perdiamo se la musica diventa solo “parole in musica”?
Vi siete mai fatte queste domande? Io mi sono fatto spesso questo tipo di domande. Non ho saputo e non saprei ancora rispondere. Ho solo cominciato a comportarmi in modo inconsueto. 
Per esempio, ho cominciato con il leggermi le trame dei film prima di sedermi sulla poltrona del cinema o davanti alla tv per guardare qualunque film. Ho pensato che se conoscevo già la trama potevo lasciarmi trasportare dalle immagini dove volevano, senza filtri; e magari fare un diverso tipo di esperienza.
Ho cominciato, nel visitare un museo o nel fermarmi davanti a un quadro, a rifiutare di servirmi delle schede critiche, E a fermarmi a contemplare quei dipinti lasciandoli agire su di me per vedere che effetto mi avrebbero fatto e quali emozioni avrebbero risvegliato. In attesa di intuire anche vagamente quella logica-non-linguistica e radicalmente non-testuale con cui le immagini producono in noi senso e sapere (G.Boehm).
 
Ho cominciato ad ascoltare brani musicali solo strumentali, senza parole o magari con parole in una lingua che non potevo capire, per sperimentare il potere della musica di farci accedere a ciò che è (era?) prima della parola. Se è vero che “nella musica viene all’espressione qualcosa che nel linguaggio non può essere detto”, come scrive Agamben e non credo ci siano seri motivi per non credergli.
E allora cosa perdiamo? Io penso che perdiamo molto in termini di esperienza, di ulteriorità. di prospettive, di possibilità e di scelte. 
La smania di concludere, di portare sempre “a casa” qualcosa: quel film voleva dire questo....; quel quadro rappresenta quest’altro....; quella canzone dice questo o mi ricorda quello....ci impoverisce.
Se tutto quadra, se riusciamo a collocare ogni cosa nel suo scaffale, se tutto ha una logica, un inizio e una conclusione, se tutto è traducibile in un racconto coerente, se tutto diventa trasparente, non è detto che tutto vada bene.
Quanto perdiamo, presi come siamo dall’ossessione della trasparenza assoluta in tutti i campi dell’esperienza e del sapere, fino a impoverirli, a chiuderli nella camicia di forza della nostra logica fino ad inaridirli tutti, anche quelli (come l’arte, la musica, il cinema...) nati per trasportarci “altrove”, verso altre dimensioni, altre esperienze, altri saperi? Si, perdiamo davvero tanto, a volte irrimediabilmente!
Può sembrare paradossale, ma, forse nel percorso della vita, bisognerebbe temere la chiarezza eccessiva. “Fidatevi dell’intelligenza seconda, fidatevi della notte”, ho letto, una volta, da qualche parte, e ho volentieri accolto questa apertura, generosa e liberante, verso altre dimensioni e altre trame, mai conclusive, del reale.



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