martedì 19 settembre 2017 - Phastidio

Criptovaluta: falsari d’Italia, l’Italia l’è questa

Sabato, in una intervista al Quotidiano nazionale, il presidente dell’Associazione bancaria italiana, Antonio Patuelli, ha affrontato il tema della proliferazione delle criptovalute, l’ultimo strumento in ordine cronologico a svolgere la fondamentale funzione di separare gli sciocchi dal loro denaro. La soluzione proposta è semplicemente geniale.

Leggere per credere, domanda e risposta:

Alcuni Paesi come Svezia, Lituania o Regno Unito, stanno pensando di creare criptovalute nazionali. Può essere una strada per ‘addomesticare’ la moneta virtuale? «È un’evoluzione naturale da realizzare al più presto ma io proporrei una criptovaluta di Stato europea da affiancare a quella corrente. Una forma regolamentata con controlli anti abusi»

Geniale, no? Un’ossimorica “criptovaluta di Stato europea” per giunta da affiancare a quella corrente. Ma come vi vengono? A parte questo momento di creatività berlusconiana quattropuntozero, l’intervista a Patuelli è pregevole perché in essa il presidente dell’Abi, così ansioso di raddoppiare la circolazione monetaria, richiama uno dei maggiori scandali italiani post-unitari, quello della Banca Romana. Urge quindi un rapido ripassino, per testimoniare che gli italiani in fondo non sono mai cambiati: nel loro sciagurato destino c’è sempre una moneta da creare.

Come scriveva anni addietro lo storico Lucio Villari:

La Banca Romana, nata nel 1835, divenuta Banca dello Stato pontificio e poi passata indenne, dopo il crollo di questo Stato e del potere temporale, nel sistema bancario dell’Italia unita, era una delle sei banche di emissione (le altre erano Banca Nazionale del Regno d’Italia, Banca Nazionale Toscana, Banco di Napoli, Banco di Sicilia, Banca Toscana di Credito) autorizzate a battere moneta. Naturalmente ciascuna con l’obbligo di mettere in circolazione un numero di banconote definito per legge. Nel corso degli anni Ottanta si cominciò ad avvertire l’esistenza di anomalie nella circolazione dei biglietti della Banca Romana; nel senso che alle altre banche del gruppo affluivano questi biglietti in un numero spropositato per essere «riscontrati», cioè cambiati con biglietti che circolavano in regioni diverse da quelle che erano assegnate alla Banca Romana.

La Banca Romana, presieduta dal principe Giulio Torlonia, era diretta dal governatore Bernardo Tanlongoil cui obiettivo era di gestirne il patrimonio anche come strumento di potere finanziando speculatori edili (Roma era in piena espansione edilizia ma con tante esposizioni finanziarie di piccole banche verso imprese improvvisate da provocare una crisi di proporzioni enormi), uomini di governo, parlamentari e perfino editori di giornali. Al giornale La Riforma ad esempio, diretto da Francesco Crispi, Tanlongo aveva concesso prestiti allo scoperto, rappresentati da cambiali che non erano state mai pagate e in qualche caso neppure rinnovate. Nel marzo 1889 Crispi divenne presidente del Consiglio e del gabinetto fece parte Giolitti come ministro del Tesoro.

Nei mesi successivi le voci e i sospetti sulla Banca Romana si incrociarono con la crisi edilizia di Roma, con il fallimento della Banca Tiberina che delle speculazioni sui terreni e sulle costruzioni era stata in parte responsabile, e con una crisi bancaria scoppiata negli stessi mesi a Torino. Fu deciso allora, da parte del ministro dell’Agricoltura, industria e commercio Luigi Miceli, di ordinare un’ispezione sulla situazione delle banche di emissione affidandone l’incarico al senatore Giacomo Alvisi, coadiuvato, nell’ispezione della Banca Romana, da un alto funzionario del ministero del Tesoro, Gustavo Biagini. L’indagine fu condotta rapidamente e con scrupolo.

La relazione Alvisi-Biagini, presentata al governo, scopriva finalmente la verità. Per quanto riguardava la Banca Romana era venuto alla luce un fatto molto grave: esisteva una serie duplicata di biglietti che la banca aveva messo in circolazione utilizzandoli anche come fondi neri per finanziamenti occulti. La truffa era stata congegnata dal Tanlongo in modo semplice, come un gioco di bussolotti: ogni biglietto di banca era contrassegnato da una lettera e da un numero; era sufficiente stampigliare lo stesso numero su due biglietti, et voilà raddoppiata la circolazione monetaria.

Il senatore Alvisi propose di portare la sua relazione in Parlamento e di renderla pubblica, ma il governo decise di apporvi il segreto di Stato. L’ improvvisa morte di Alvisi sigillò il silenzio. L’anno successivo, il 1890, Giolitti propose addirittura di nominare senatore Bernardo Tanlongo. Lo scandalo sarebbe stato dunque soffocato se non ci fossero stati due economisti, due intellettuali liberali con un forte senso dello Stato e della legge. Prima di morire Alvisi volle informare l’ economista Leone Wollemborg della sua relazione. Un lascito morale del quale Wollemborg rese subito partecipe un altro famoso economista, Maffeo Pantaleoni, noto per la sua avversione alla politica autoritaria, liberticida, colonialistica di Francesco Crispi.

Fu Pantaleoni a trasmettere la relazione a un parlamentare repubblicano, Napoleone Colajanni, da tempo impegnato in una campagna di moralizzazione della vita politica italiana. E questi il 20 dicembre 1892 (da un mese era Giolitti il nuovo presidente del Consiglio) denunciò alla Camera la contraffazione della cartamoneta e gli ammanchi di cassa della Banca Romana. L’impressione in Parlamento e nel paese fu enorme. Parlamentari socialisti, radicali, repubblicani parlarono del «fango che sale» e gettarono il guanto di sfida della «questione morale». Formule politiche di grande efficacia che, come è noto, torneranno, senza grandi risultati, in momenti cruciali anche dell’Italia repubblicana.

Fu ordinata una commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Antonio Mordini (che era stato pro-dittatore di Garibaldi in Sicilia) e di lì a poco il 15 gennaio 1893 Tanlongo e il suo cassiere Lazzaroni furono arrestati. Tutto il sistema bancario italiano fu a questo punto messo in discussione e dallo scandalo scaturì il progetto di concentrare le emissioni in un solo e nuovo istituto, la Banca d’Italia, lasciando soltanto ai Banchi di Napoli e di Sicilia la facoltà di stampare moneta ancora per qualche anno (in verità fino al 1926). Giolitti, protettore di Tanlongo, non aveva mai preso una lira dalla Banca Romana; Crispi, la moglie, altri suoi familiari e amici invece sì. Fu l’occasione per un redde rationem tra i due statisti che non si erano mai amati. Giolitti presentò al presidente della Camera un «plico» di documenti che provavano i rapporti tra Crispi e la banca romana e anche vicende private della moglie di Crispi Linda.

Lo statista siciliano negò tutto con grande violenza e, sostenuto dal re, tornò nel dicembre 1893 alla presidenza del Consiglio. Si sparse allora la voce che avrebbe fatto arrestare Giolitti con l’accusa di aver sottratto documenti all’inchiesta giudiziaria. Non era vero, ma il gesto fu (ricorderà poi Nitti, ripensando allo scandalo nel 1944, in tempi molto più tragici per l’Italia), «vergognoso». Per evitare il rischio del carcere Giolitti si trasferì per qualche tempo a Berlino presso la figlia Enrichetta.

Alla fine, mentre Tanlongo veniva assolto da giudici molto accomodanti, l’immagine di Giolitti usciva più danneggiata di quella di Crispi. I ruoli si erano rovesciati, ma lo scandalo restava senza colpevoli rendendo così più torbida la vita pubblica italiana. Se ne vedranno le conseguenze nella strage di Milano del 1898, nelle leggi reazionarie di Di Rudinì e nel sigillo finale del regicidio del 29 luglio 1900

Come avrete potuto osservare, in questo episodio c’è l’Italia. Che è rimasta uguale a se stessa: invariabilmente, desolatamente. Cambiano solo le tecnologie. Che tuttavia stanno rendendo più difficile la vita agli aspiranti falsari, a differenza degli anni della Banca Romana:

«Nella questione dei biglietti duplicati della Banca Romana, finora non vi ha di certo che questo: – Esistono biglietti di vario taglio portanti timbro ad umido, di creazione del 1872, i quali invece d’essere firmati dal Guerrini, governatore a quel tempo, sono firmati dal governatore Tanlongo, venuto tre anni dopo. Tali biglietti trovansi in possesso di vari deputati. Ma pare che la cosa si spieghi come errore innocente di timbratura. Ad ogni modo non mancano i commenti umoristici, tanto più combinati colla recente nomina di Tanlongo a membro della Commissione di vigilanza del Debito pubblico. Figurarsi se le cartelle di Rendita pubblica dovessero essere timbrate con uguale vigilanza!» (Corriere della Sera, 28 dicembre 1892)




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