lunedì 24 settembre 2018 - Entità astratta

Cosa sta succedendo in Libia, perché si combatte e cosa rischia l’Italia

Dalla caduta del Rais Gheddafi ad oggi la situazione in Libia è sempre più complicata. Ci sono tanti tasselli da tenere a mente: il ruolo della Francia, interessata all'oro nero libico, come la Russia, che anche qui fa capolino. L'Italia, che ha un qui ha passato coloniale ha puntato sul cavallo sbagliato: Sarraj, da tempo in difficoltà in Tripolitania e oggi pure a Tripoli. 

Il caos in Libia non è avvenuto dopo la morte di Gheddafi, o dal successo della rivoluzione. E' scoppiato quando il generale Khalifa Haftar ha fallito il colpo di Stato che ha iniziato con la battaglia di Bengasi. E' da lì che la situazione si è deteriorata”. Oggi al suo terzo tentativo, Haftar potrebbe riuscire a prendersi la Libia.

Ha le idee chiare Belal Ballali, un ricercatore libico da sei anni a Birmingham, in Inghilterra. La rivoluzione lui l'ha vista e vissuta con gli occhi dei conoscenti. Ma questo non gli impedisce di prender posizione. Da quando Muammar Gheddafi non c'è più la Libia non è un Paese più sicuro, e sicuramente è politicamente meno stabile. Di una cosa è convinto Adel, ex funzionario del regime di Gheddafi: “Quando finalmente Sarraj e il suo codazzo di soldataglie corrotte se ne sarà andato, inevitabilmente dovremo far fronte alle aspirazioni dittatoriali di Haftar. Lui e i suoi figli devono sapere che in Libia non c’è più posto per un nuovo Gheddafi”.

Haftar è visto come un uomo solo al comando: è lui che rende difficile ogni tentativo di conciliazione del Paese, forte della sua forza militare. Ed è sempre lui che dal 2015 guida l'“Esercito Nazionale Libico”. Anche quando la necessità di cacciare i soldati dell'Isis dalla zona di Sirte, le truppe di Haftar non hanno lanciato i giusti segnali d'intesa comune con i rivali.

Durante la Guerra Civile Haftar ha lottato, sottomettendo, praticamente ogni fazione, e questo gli è valso l'appellativo di “Signore della Guerra”. E' chiaro che Haftar preferisca la soluzione armata, piuttosto che quella diplomatica.

Dal 2011 a oggi il Paese è sprofondato nel caos più totale: in strada, a Tripoli, non c'è praticamente traffico civile, solo i pick-up con le mitragliatrici sul retro. Nelle periferie, a Gharyian o Nafusa, e in altre parti del paese, le case dove tornare sono distrutte, non ci sono più scuole e l'energia elettrica va e viene: il che è un paradosso nel Paese a più alto giacimento petrolifero d'Africa, serbatoio energetico della vicina Europa. La “Croce Rossa Internazionale” ha definito “disperate” le condizioni di vita in Libia, gli ospedali patiscono una cronica mancanza di forniture mediche, mentre fuori le riserve idriche latitano. Le rare infrastrutture costruite nei decenni passati sono ormai un cumulo di macerie, calpestate dai “signori delle armi” delle tribù locali, e oggi, ancora, il territorio è diviso in più di 140 fazioni, dalle alleanze volubili e in continuo movimento e contrapposizione. Mossi solo da interessi economici.

Oggi la Libia ha ufficialmente due governi: uno, debole, a Tripoli, e l'altro sempre più forte, in Cirenaica, a Tobruk. Al contrario di quello di Tripoli, quello di Tobruk, più moderato ideologicamente, ma militarmente più spietato, non è riconosciuto ufficialmente (ma “segretamente” sedotto) dalla Comunità internazionale. Francia, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Russia fanno l'occhiolino al premier Abdullah al-Thinni, affiliato al generale Khalifa Haftar, l'uomo forte della Cirenaica, eletto due anni fa da appena il 18 percento degli aventi diritto, con 32 punti percentuali in meno rispetto alla precedente consultazione, e “monco” sin dal nascere dei 12 rappresentanti dei territori più instabili, a cui è stato tolto il diritto di voto. Nel giro di una settimana, la “Camera dei Rappresentanti” (HoR) è stata abbandonata anche dai 30 candidati più islamisti (e da quelli di Misurata), fuoriusciti perché insoddisfatti dei parametri adottati nell'indire le elezioni e perché delusi dai risultati. E' questo il momento in cui è nato il NGNC, il “Nuovo Congresso Generale Nazionale”, il Governo di Tripoli, islamista, precursore di quello attuale, nato dalle penne di Skhirat e rimasto (solo) sulla carta quello di “Accordo Nazionale” (GNA). Il GNA, con base a Tripoli è l'altro governo presente in Libia, a guida Fāyez Muṣṭafā al-Sarrāj, il “bomber” sempre più “spuntato” della coalizione “Alba Libica”, contrapposta a quelli raggruppati attorno all' “Operazione Dignità” di Haftar, quella che ha sospinto, dopo un mancato golpe, alle elezioni del 2012. Oltre all'Italia, che ha un debito storico con la Libia ma ha anche molti interessi, Sarraj può ancora contare su l'Onu, la Lega Araba, il Qatar e la Turchia, quest'ultimi preoccupati nel vedere una Tripoli “poco” islamizzata.

Da un po' di tempo, però, Sarraj, appare più debole e isolato, “monco” di alcuni pezzi del potere politico-militare, e di alcuni territori, concessi dopo il tentato golpe a Khalifa al-Ghweil, ex primo ministro del NGNC poi auto-esiliatosi a Misurata e desideroso quanto il nemico Haftar o i “nuovi” nemici di Tarhuna di spodestare Sarraj. In molti sussurrano proprio che la “Settima Brigata” di Tarhuna, una di quelle trattate con i guanti, da Gheddafi prima e Serraj poi, siano ora unite da qualcosa in più di una comunione di intenti avversa al Presidente del Consiglio Presidenziale della Libia.

Tripoli appare in questi giorni come “borderline”: in alcuni quartieri, funestati dai combattimenti, le persone chiedono aiuto alla “Croce Rossa Internazionale” per scappare verso posti sicuri. Invece in altre zone della città, più quiete, la vita si trascina tranquilla. Gli scontri a Tripoli sono sempre più intensi: da agosto sono morte 140 persone e sono state ferite oltre 444. L'avanzata di Haftar e gli assedi di al-Ghweil non rappresentano, comunque, una guerra vera e propria, quanto piuttosto una caotica guerriglia. Accade così che truppe fedeli a Serraj passino da un giorno all'altro con il nemico Haftar, ipotesi, nel caso della “Settima Brigata” smentita ufficialmente da Sarraj, che comunque ha rilanciato il desiderio di avanzare verso Tripoli senza ottenere un bagno di sangue.

Oggi appare scissa anche Misurata, la città industriale a 200 km da Tripoli i cui militanti hanno scritto le pagine più importanti della storia recente della Libia: sono stati loro ad uccidere il Colonnello e suo figlio Mutassim, o a scacciare sempre grazie ai militari internazionali e sempre da Sirte, i jihadisti dell'Isis. Quelle di Misurata, tra i più feroci oppositori di Gheddafi, sono considerate assieme a quelle di Haftar, le truppe militari più preparate, a cui spesso Sarraj ha affidato la difesa di Tripoli. Nonostante le dichiarazioni di rito, questa volta, però, alla volta di Tripoli sono partiti solo un numero limitato di combattenti: 500 su 10 mila. Per “Il sindaco di Tripoli”, come viene ironicamente chiamato Sarraj, non vale più la pena combattere. Questo perché non c’è voglia di morire per un governo da molti considerato inefficace nella lotta contro la povertà, alla corruzione e nel controllo del territorio. Di certo, spiega Hafed Al Gwell su “Arabnews”, Sarraj non è stato favorito da dagli accordi di di Sekerath, scaduti dieci mesi fa, in quanto le istituzioni in suo possesso possono esser considerate deboli e piene di contraddizioni e veti incrociati, che hanno reso difficile ogni decisione.

Non appare migliore la situazione decisionale di Tobruk, criticata come quella di Tripoli dall'inviato Onu Ghassan Salamé. Anche qui hanno prevalso gli interessi personali, piuttosto che quelli generali. Infatti non è stata votata la nuova costituzione, proposta e mediata anche dall'Onu, e nemmeno la legge elettorale, due capisaldi necessari affinché potessero essere indette le elezioni a dicembre, come voluto dalla Francia e dalla stessa Onu.

E' questa la situazione che precede lo scenario della sempre più probabile conferenza italiana sulla Libia, caldeggiata dagli Stati Uniti e che si terrà a meno di clamorosi scenari, in Sicilia a metà novembre. Questa volta, a differenza di quella di Parigi, con tutti gli interessati partecipi e questa volta, si spera, che precederà stretto giro le nuove elezioni. Qualcuni ha azzardato in autunno del prossimo anno.

La bozza a lungo suggerita dall'Inviato speciale delle Nazioni Unite Salamé, il sesto approdato in Libia, prevede una maggiore ripartizione dei poteri tra le cariche dello stato, una maggior rilevanza delle tre macro regioni: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, come era prima di Gheddafi, e l'esercito in mano al Parlamento, l'organo a maggior rappresentanza numerica. Proprio la gestione dell'esercito sarebbe stato un punto osteggiato, sorpattutto da Haftar.

Oltre ad Haftar, che l'Italia segretamente seduce, avranno molto peso gli uomini di Misurata, tra tutti Abdulrahman Sewehli, i quali potrebbero essere l'ago della bilancia nella nuova Libia quando si tornerà al voto. Le milizie di Misurata vedono col fumo agli occhi una salita di Haftar e, sul fronte internazionale, di buon occhio l'Italia, data la massiccia presenza nel campo base di Shama della “Brigata Paracadutisti Folgore” e presente anche con un ospedale da campo in città.

Per far parte dello scacchiare libico sarà necessario anche il sostegno delle tribù dei Warfalla, dei Ghadafa, dei Meqarha e dei Zuwayya. Del loro apporto, come nel caso della caduta di Gheddafi, non si può fare a meno.

Le elezioni sono una forte fonte di tensione “perché – spiega l'esperta in fatti libici Rhiannon Smithogni gruppo deve trovarsi in una situazione di forza al momento dello scrutinio, per far passare il suo candidato e preservare i propri interessi”.

Nelle scorse settimane anche il Quartier Generale della “National Oil Company” (NOC), al centro di Tripoli, è stato preso d'assalto dai miliziani. Due sono stati i morti, l'attentato potrebbe esser stato di matrice jihadista, condotto da un soldato dell'Isis, ancora presente in Libia con 450-700 miliziani.

Oggi avere potere sui centri petroliferi significa avere la liquidità necessaria per i propri affari e per assoldare altri combattenti: lo è il petrolio, ma anche il traffico di armi verso il Sahel e quello dei migranti verso l'Europa. La NOC, comunque, rappresenta uno delle poche certezze in Libia, l'unico che ha retto agli effetti della Primavera Araba e degli scontri tra Sarraj e Haftar.

Oltre a due governi e ai due Parlamenti la Libia ha anche due Banche Centrali che stampano moneta, l'una, quella di Tripoli, più efficiente dell'altra. Anche questo è un problema politico da superare. Come per gli approvvigionamenti del carburante, le file agli sportelli delle banche sono lunghissime, Al contempo il dinaro libico non vale più niente: se prima veniva cambiato a 3 dollari, oggi vale appena 73 centesimi (62 eurocent). Il dollaro e l'euro, due monete meno volatili, al mercato nero sono molto care. L'inflazione annua, infine, viaggia al 32%.

L'esportazione di petrolio e gas, che tempo fa garantivano il 95 percento degli introiti per lo stato, e il 60 percento del Pil, è calata . Nell'ultimo anno le esportazioni sono fluttuate dai 700 mila al milione di barili al giorno, quote più basse rispetto alla media degli ultimi 50 anni (1,346 milioni di barili) e lontane dal blocco del 2013, quando il Paese ha esportato 300 mila barili, soprattutto grazie ad Eni, l'unica ad esser rimasta in Tripolitania (e in Libia) durante il conflitto.

Almeno da questo punto di vista le condizioni in Libia sono migliorate. Già dalla primavera scorsa col ritorno della multinazionale francese Total, gli investimenti nel reparto idrocarburi sono aumentati. La Total, va ricordato, è legata storicamente alla Cirenaica, dove ci sono l'80 percento dei giacimenti libici, molti dei quali a confine con la Tripolitania. Gli investimenti francesi, che hanno rilevato quote di mercato di aziende americane, potrebbero innalzare la produzione e quindi gli introiti pubblici. Non solo. La NOC conta di accrescere le esportazioni da qui al 2023 portandole fino a 2,2 milioni. Non lontano dal record degli anni 70. Un'ipotesi possibile se venisse confermato l'interesse dei russi di Gazprom, intenzionati a produrre in Libia e ad espandere la loro influenza in Libia.

Da un punto di vista geopolitico oggi la Libia appare lontana dalla Nato. Da quando c'è Trump gli Stati Uniti hanno mostrato poco interesse nell'intervenire, sulla linea di Obama, che dopo l' “errore” di concedere il decisivo apporto alla caduta del Rais, è intervenuto poco e soprattutto per sedare la minaccia jihadista. Al contrario la Russia sta facendo sempre più capolino in Libia. Il Cremlino da tempo sostiene Tobruk, ed è interessata sempre più ad consolidare la sua presenza in Nord Africa, non solo per interessi commerciali (si veda la Siria). L'Egitto di Al Sisi ha invece interesse a eliminare la presenza dei “Fratelli Musulmani”, presenti nel Parlamento di Tripoli con il “Partito della Giustizia e dello Sviluppo”. L'Italia ha tutto da perdere: dalla Libia passano i migranti, un tema molto caldo per l'attuale Governo, ha appoggiato Sarraj e per questo, in passato, è stata accusata da Abdullah al-Thinni di essere nemica della Libia. E poi c'è Eni, il cane a sei zampe, la maggiore azienda petrolifera del Paese, che ha tutti gli interessi a rimanere in Libia anche in futuro.

Gli interessi attorno alla Libia sono tanti, e per esser davvero efficaci, a Novembre, in Sicilia, dovranno esserci davvero tutti. Sia che Haftar abbia già vinto militarmente contro Sarraj, sia che gli scontri siano ancora in atto.

 

 




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