venerdì 4 maggio 2018 - Aldo Giannuli

Corea | Kim e Moon, analisi di un vertice storico

Avviamo con questo articolo una serie di analisi degli scenari nella penisola coreana dopo l’incontro tra i leader di Pyongyang e Seul. In questo primo articolo, saranno analizzati proprio gli obiettivi dei protagonisti del vertice del 28 aprile: Kim Jong-un e Moon Jae-in.
Lo storico incontro tra il leader di Pyongyang Kim Jong-un e il Presidente di Seul Moon Jae-in al confine tra Corea del Nord e Corea del Sud il 28 aprile scorso apre una nuova, cruciale fase che potrebbe aprire a un notevole allentamento delle tensioni sul 38° parallelo e, soprattutto, rompere uno status quo che dura dal 1953 e che vede le due Coree ancora in guerra l’una contro l’altra.


Il frutto più dolce del processo di dialogo, prima ancora dell’auspicata denuclearizzazione della penisola coreana, potrebbe essere la conclusione di un trattato di pace atteso da più di sei decenni e la prima rimarginazione della frattura politica, morale e geografica (i tre chilometri disabitati della zona demilitarizzata di confine) che ha diviso un popolo che non ha mai cessato di considerarsi unito.

Per Kim Jong-un l’accordo con Seul è un’assicurazione sulla vita migliore del nucleare
Il summit di Panmunjom ha inoltre certificato un successo strategico per i due leader coinvolti. Per Kim Jong-un, passato in poche settimane dallo status di paria a protagonista di una serie di incontri che, dopo la tappa a Pechino da Xi Jinping e lo storico vertice con Moon, culminerà con l’atteso faccia a faccia con Donald J. Trump, previsto entro fine maggio, e certificato nella sua posizione di agente razionale.

L’obiettivo di Kim sembra chiaro, scrive il Corriere: presentarsi come leader ragionevole capace di dialogare, non solo di minacciare. Vuole garanzie di sopravvivenza, per il regime e personali. Tali garanzie sono state a lungo sovrapposte con il possesso del deterrente atomico, nel quadro di una visione geopolitica fortemente inficiata dall’ideologia Juche, la dottrina ufficiale della Corea del Nord, elaborata nel 1955 dal fondatore della nazione Kim Il-Sung.

Fondata sulla contaminazione tra elementi del materialismo storico marxista-leninista e uno spiccato spirito autarchico, che si declina una dottrina strategica fortemente autonomista per quanto concerne il posizionamento della Corea del Nord nel contesto mondiale, la Juche incorpora tra i suoi capisaldi principali il jaju (letteralmente “indipendenza”) e il jawi (“autodifesa”), presupposti essenziali per la compiuta affermazione del socialismo. Memore del loro inserimento nel famigerato “Asse del Male” e della fine di dittatori come Saddam Hussein e Muammar Gheddafi, i Kim hanno perseguito le loro avventure balistiche e nucleari avendo ben chiari questi due capisaldi strategici.

Tuttavia, la sostenibilità della monarchia Juche di Pyongyang appare più plausibile, sul lungo termine, solo sotto la condizione di un contesto regionale stabile: rifuggiamo qualsiasi discorso semplicistico sulla “pazzia” di Kim Jong-un, certamente, tuttavia siamo consci della pericolosità di un programma di armamento nucleare unilaterale come quello di Pyongyang per la tenuta geopolitica dello scacchiere dell’Asia-Pacifico. L’accordo con la Corea del Sud è, come detto, un’assicurazione sulla vita molto più grande per il “Regno Eremita”: in primo luogo perché le due Coree hanno l’obiettivo comune di evitare un conflitto che le vedrebbe interessate come campo di battaglia, mettendo a rischio al contempo la pace mondiale. In secondo luogo, per sanare le ferite della Storia e avviare l’obiettivo di lungo corso della riunificazione condivisa, perlomeno in forma ideale. Infine, perché un dialogo diretto rappresenta per Pyongyang e Seul la garanzia migliore per portare avanti le proprie istanze con il massimo grado di indipendenza possibile, in uno scenario che vede affacciarsi autentici colossi come Cina, Stati Uniti, Russia e Giappone.

Dopo l’incontro con Moon, Kim appare intenzionato a dare segni di buona volontà. Dal suo punto di vista, anche il suo omologo ha tutto l’interesse ad approfondire un dialogo su cui ha fondato il proprio progetto politico: e, in questo contesto, Moon Jae-in è l’uomo giusto al momento giusto per la Corea del Sud.

La pace come leva geopolitica: la visione strategica di Moon Jae-in
Eletto nel 2017 a larga maggioranza Presidente della Corea del Sud sulla base di una piattaforma incentrata proprio sul dialogo con il Nord Moon Jae-in, 65enne cattolico ed ex attivista per i diritti umani, ha lavorato a lungo nell’ombra mentre Kim e Trump, proseguendo nella loro sfida muscolare, occupavano le prime pagine dei media.

Moon Jae-in ha rilanciato la cosiddetta Sunshine policy del predecessore di fine XX secolo Kim Dae-jung, inserendola in un contesto più ampio che vede Seul giocare un ruolo sempre più autonomo tra Pechino, Pyongyang e Washington e basandola su tre punti ben sintetizzati da Luciano Lombardi su Panorama: “la Corea del Sud si impegna a cercare attivamente la cooperazione con la Corea del Nord; non cercherà – in alcun modo – di assorbirla; non sarà disposta a tollerare alcuna provocazione armata della Corea del Nord”.

Il lavoro diplomatico coronato dal vertice di Panmunjon ha avuto i suoi presupposti nel trionfo d’immagine della cerimonia d’apertura dei Giochi Olimpici invernali di Pyeongchang, che ha visto Corea del Nord e del Sud sfilare unificate e Moon stringere la mano alla sorella del Leader Supremo, Kim Yo-jong, in un incontro che è stato il decisivo presupposto della giornata del 28 aprile.

Per Moon la pace con il Nord è vitale anche in chiave geopolitica, dato che un modus vivendi con Pyongyang consentirebbe a Seul di portare avanti in maniera sempre più approfondita l’avvicinamento alla Cina e lo sviluppo dell’interscambio bilaterale con Pechino senza tuttavia pregiudicare un’alleanza con Washington che resta, in ogni caso, centrale per le sue prospettive securitarie.

L’incontro tra Moon e Kim non basterà a risolvere la crisi nella penisola coreana, che si inserisce nel quadro più ampio di una situazione regionale molto tesa e volatile, ma può mandare un messaggio forte, legato a un credibile impegno per la pace tra i due Paesi centrali nello scenario. Da Panmunjon è partita un’onda che influenzerà le strategie degli altri attori in gioco, che non mancheremo di analizzare nei prossimi articoli.

Andrea Muratore

 
 



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