mercoledì 1 giugno 2022 - UAAR - A ragion veduta

Contrasto dell’omofobia: è tempo di andare oltre un parlamento subalterno

Il fallimento del ddl Zan rappresenta anche la spinta per un rinnovato impegno: ne parla Andrea Ruggieri, che intervista anche l’attivista Michela Capris Martelli, sul sul n. 1/2022 della rivista Nessun Dogma

A distanza di qualche mese dalla sua bocciatura, in un periodo in cui il tempo sembra più lungo e scandito da decreti, isolamenti e quarantene, mi viene chiesto di parlare di come la questione del disegno di legge Zan abbia segnato l’anno appena passato.

Riflettere sul nefasto esito del ddl Zan potrebbe essere da un lato semplicissimo, tacciando l’episodio come qualcosa di fatale e ineluttabile, dall’altro potrebbe portare a una districata analisi della situazione sociopolitica italiana e dei sempre più inaspriti movimenti reazionari. Quello che voglio fare in questo caso è limitarmi a riflettere con voi sugli eventi e su come li ho vissuti in prima persona, con un breve confronto con un’attivista che ha reagito in maniera un po’ diversa rispetto alla mia.

Questo disegno di legge ha vissuto un percorso travagliato, iniziato ancora prima della pandemia. Presentato a inizio legislatura alla Camera, nel novembre 2018, si è dovuto attendere un anno per l’assegnazione alla Commissione giustizia, nell’ottobre 2019, con una discussione che è durata fino all’estate 2020. Da lì, si è poi aperta la discussione alla Camera – straordinariamente breve, solo tre mesi – e a seguire, dopo l’approvazione, il ddl è stato trasmesso al Senato, dove ha finito la sua corsa nell’ottobre 2021.

Sul contenuto del disegno di legge le falsità che sono circolate in questi quattro anni sono tra le più disparate. Alcune le ho rimosse dalla mente, altre probabilmente non le ho nemmeno lette, per salvaguardia. Certo è che il ddl Zan è diventato l’emblema della lotta al gender, la prova che la fantomatica “lobby gay” stia prendendo il sopravvento. Tanto è bastato ai gruppi reazionari per attivare la classica macchina del fango e delle fake news.

Possiamo chiarire sin da subito un paio di punti: il fulcro della legge Zan è (o meglio, sarebbe stato) il contrasto ai crimini d’odio nei confronti delle donne, persone Lgbt+ e persone con disabilità. Non c’è nulla che riguardi il percorso di transizione, le carriere alias per giovani trans nelle scuole, la gestazione per altri o le linee guida per i programmi scolastici. Questo disegno di legge andava proprio nella direzione di gestire un problema nazionale, come più volte richiesto anche dall’Unione Europea e come nel frattempo riconosciuto anche dallo stesso parlamento che l’ha bocciato (nel decreto 34/2020 Misure urgenti connesse all’emergenza Covid-19, infatti, vengono stanziati fondi per l’accoglienza delle vittime di violenza sulla base di orientamento sessuale o identità di genere).

Nella società italiana, la normalizzazione dei crimini d’odio, siano essi attacchi fisici o verbali, è ormai un dato di fatto: il numero di atti omolesbobitransfobici denunciati in Italia si aggira intorno alle 300 unità nell’anno passato, ma basta fare un controllo incrociato del dato con le notizie dei principali quotidiani per scoprire che il numero di violenze è ben superiore a quella cifra. Analizzando le mappe su libertà d’espressione e avanzamento dei diritti umani dell’Unione Europea o dell’Onu, l’Italia è sempre un gradino sotto la media.

A causa di queste premesse sconfortanti, di fatto, il ddl Zan è riuscito a raccogliere attorno a sé un’enorme quantità di speranze e aspettative da parte della comunità Lgbt+.

In tutte le riunioni cui ho partecipato in questi anni si è continuato a ripetere: non accontentiamoci dell’ennesima legge “a metà”. Eppure fin da subito era chiaro che quella era la direzione. Nonostante tutto, abbiamo accettato il compromesso e ci siamo anche battuti per questo. Parafrasando l’editoriale di Michela Murgia, uscito all’indomani del voto su L’Espresso, l’esaltazione di chi vuole difendere il privilegio di odiare i più deboli è stata la ciliegina sulla torta, una torta di bocconi amari che avevamo già dovuto nostro malgrado digerire, come collettività e come singole soggettività.

Il risultato, alla fine di questa corsa, è in realtà un segno di speranza: all’indomani del voto segreto in Senato che ha fermato il ddl Zan, le realtà che sono scese in piazza per l’approvazione con lo slogan #moltopiùdiZan – manifestazioni nelle quali l’Uaar è sempre stata presente – si sono lanciate nell’organizzazione degli “Stati genderali”, gli stati generali della comunità Lgbt+ italiana. C’è stato un primo incontro a Roma, in forma ibrida online e fisica, a fine novembre e ci sono in programmazione altri appuntamenti per continuare a lavorare in una forma più collettiva possibile. L’intento principale è uno ed è più che condivisibile: adesso la legge ce la scriviamo noi.

Per tutto l’ultimo anno, la storia del ddl Zan l’ho vissuta in una maniera un po’ inusuale: ho represso l’ira per bene, nascondendola sotto un’agenda fitta di impegni e trasferte, mi sono fatto sopraffare da un non indifferente timore del contagio, ero già disilluso: ho sin da subito preferito salvaguardarmi dalla disperazione. Per questo ho deciso di coinvolgere un’amica e compagna in questo breve articolo di inizio anno e farci dire qualcosa sulla sua esperienza.

Michela Capris Martelli, co-fondatrice del collettivo “La Gruppa” e attivista mia coetanea, che ha seguito la genesi, l’evoluzione e la morte del ddl Zan, passando anche dalle piazze, per fare sentire la sua voce, nonostante la paura per il contagio.

Michela, come hai passato quei mesi?

Ho seguito la discussione parlamentare assiduamente sin dall’inizio. Le continue negoziazioni tra le rappresentanze dei gruppi parlamentari sono state estenuanti, il disegno di legge sembrava sempre in bilico tra successo e fallimento. Con l’inserimento della clausola “salva idee” ho capito che si stava giocando per l’ennesima volta con le nostre vite e non c’era una vera volontà politica di arginare la violenza contro le donne, la collettività Lgbt+ e le persone disabili.

Che sentimento registri, in te ma anche in altri membri della comunità?

Durante la pandemia ho seguito il dibattito interno nelle maggiori associazioni Lgbt+ italiane, prima a distanza, poi ho sentito la necessità di essere presente nelle piazze, di presidiare spazi pubblici e politici, che iniziavano a riempirsi di “pro life” e “no gender”. Da luglio 2020 sono tornata in piazza insieme a tante altre persone e ai vari collettivi transfemministi da sempre critici nei confronti del ddl Zan, denunciando la violenza istituzionale che viviamo quotidianamente e mettendo in luce le criticità di una legge basata sui compromessi politici e non sui bisogni delle persone… io, comunque, ancora ci speravo…

E cosa è successo dopo lo stop al Senato?

Mi sono, ci siamo, sentit* tradit*: i politici e le politiche che dovevano tutelare le nostre vite non sono stat* in grado di rispettare il patto ufficioso stretto con la collettività Lgbt+, che aspettava da tanto, troppo, tempo una legge. Dal giorno seguente al blocco del ddl la postura è cambiata: era unanime l’idea che la politica non fosse in grado di rappresentarci e di capire i nostri bisogni. Adesso la legge ce la scriviamo noi, avviando una riflessione interna che tenga conto della complessità delle nostre vite entro lo spazio sociale, sanitario, lavorativo, educativo, politico, per capire quali sono i nostri problemi, i nostri desideri e proporre soluzioni. Gli Stati genderali per me sono stati “ossigeno transfemminista”, prima tappa importante per rimettere insieme le idee, riflettere e iniziare a lavorare su proposte concrete. Mi auguro ce ne siano tante altre.

Quale pensi sia il tassello che manca, in chi quel giorno di ottobre si è permesso di esultare all’arresto di un disegno di legge che per persone come me e te può costituire un importante strumento in più nella vita di tutti i giorni? È questo, quello che ti ha fatto scendere in piazza proprio ora?

Alcune persone non hanno certamente coscienza della cultura etero-catto-patriarcale in cui vivono, altre invece ne sono assolutamente coscienti e sono comode dentro ai privilegi che quella cultura concede loro. Ho frequentato tre grandi piazze nel secondo anno di era pandemica: il pride di Bologna, la piazza transfemminista Lgbt+ di Bologna subito dopo il naufragio del ddl Zan, la piazza chiamata da Nudm a Roma del 27 novembre. Sai, durante i vari lockdown, necessari per tutelare la salute collettiva, non poter frequentare gli spazi transfemministi e Lgbt+ – dove si fa aggregazione, cultura e politica – è stato qualcosa di molto pesante da sostenere e mi ha fatto provare un senso di grande solitudine. Mi è sembrato che mi venisse negato qualcosa di fondamentale per la nostra lotta: la visibilità.

Non ci può essere resistenza senza occupazione degli spazi fisici attraverso i nostri corpi e le nostre vite non conformi, che qualcun* fa finta di non vedere.

Andrea Ruggeri

 

 




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