lunedì 2 ottobre 2017 - Phastidio

Concorsi Raccomandati | Contro "Raccomandopoli" non serve l’ennesimo inutile codice etico

Senza entrare troppo nel merito della vicenda dei concorsi telecomandati (o raccomandati) per le cattedre universitarie, occorre piuttosto sottolineare quanto sia inadeguato il nostro ordinamento attuale a prevenire e reprimere simili situazioni.

di Luigi Oliveri

Egregio Titolare,

 

La vicenda, in sintesi, è chiara: non si tratta della presentazione in stile anglosassone da parte di un docente universitario di un valido ricercatore, per corroborarne la richiesta di partecipazione ad una selezione per l’assegnazione di una cattedra universitaria, bensì della pianificazione di scambi: un docente “presenta” un suo pupillo perché sia incaricato in quell’ateneo, se altro docente dell’ateneo medesimo ottiene di poter “presentare” a sua volta un proprio “candidato” presso l’ateneo del collega.

Non è esattamente, dunque, come si nota la “referenza”, che in quanto tale deve essere disinteressata ma un sistema di scambio, non a caso definito “do ut des” dall’inchiesta.

Bene, caro Titolare. La cosa potrebbe consistere in reato di corruzione o anche di abuso d’ufficio. Non lo sappiamo e dobbiamo attendere, ovviamente, l’evolversi dell’inchiesta e dell’eventuale giudizio penale per saperlo.

Molti, però, si chiedono: esistono, tuttavia, modalità per sanzionare comunque comportamenti di questo genere senza dover aspettare necessariamente il giudizio penale, posto che è anche altissimo il rischio che le sentenze arrivino in tempo per dimenticarsi della vicenda o, cosa più grave, perché maturi la prescrizione (come molte volte già avvenuto)?

Come raccontano le cronache, il Ministro dell’istruzione, Valeria Fedeli, allo scopo ha maturato una vera e propria “ideona”: un “codice etico” il cui scopo sarà, nelle intenzioni, evitare il ripetersi della raccomandopoli.

Come dice, Titolare? Le norme vigenti, oltre che il senso etico in sé, non bastano?La situazione di allarme di un ordinamento giuridico ha un preciso indicatore: la quantità di regole e norme, di varia fonte e forza, che ripetitivamente intervengono sulla stessa materia, senza che nessun effetto visibile ne consegua.

Facciamo un esempio. Molte norme pongono un divieto, con la formula: “è fatto divieto di ….”. Si assiste alla ripetuta violazione del divieto e come soluzione, Legislatore e Governo, invece di concentrarsi sulle modalità per far rispettare il divieto in via preventiva (azionare controlli efficaci) e reprimerlo (con azioni disciplinari e giudizi civili, erariali ed amministrativi rapidi e senza orpelli), interviene sulla medesima norma, riformandola nel testo, come segue: “è fatto assoluto divieto di…”

Lo stesso (anzi, la situazione è anche peggiore) avviene quando le norme consentono di fare una certa cosa, ma nel rispetto di certe condizioni. Per esempio, il testo unico sul lavoro pubblico prevedeva che le amministrazioni potessero attivare rapporti di lavoro flessibile per rispondere “ad esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale”. Molte volte queste esigenze non sono state rispettate; quindi, la recente riforma Madia ha pensato bene di modificare la norma stabilendo che si possono attivare le forme flessibili per “comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale”. Ovviamente, il risultato in questi casi è pari a zero.

Quando l’aggiunta di aggettivi o avverbi ai precetti non basta, allora alle leggi si aggiungono regolamenti, oppure piani nazionali e “aziendali” (meglio se pluriennali) finalizzati alla prevenzione del rischio, corroborati, se possibile, da “codici etici”.

È, in sostanza, quanto si è fatto con la normativa “anticorruzione”. Che, caro Titolare, è bene precisare si distingue in due parti. Per una parte, riguarda il diritto penale, visto che ha configurato in modi nuovi alcuni reati contro la pubblica amministrazione, tra i quali in particolari la concussione. Non sempre, tuttavia, comportamenti eticamente o amministrativamente scorretti si spingono fino alla commissione di reati; per questo, l’altra parte della normativa anticorruzione non ha nulla a che fare col diritto penale, ma colpisce i conflitti di interesse che possano portare ad una gestione della cosa pubblica tale da inquinarla, perché l’interesse pubblico viene subordinato, in misura variabile, da interessi privati inconciliabili.

Tutto ciò è spiegato molto bene nel Piano Nazionale Anticorruzione del 2013:

«Il concetto di corruzione che viene preso a riferimento nel presente documento ha un’accezione ampia. Esso è comprensivo delle varie situazioni in cui, nel corso dell’attività amministrativa, si riscontri l’abuso da parte di un soggetto del potere a lui affidato al fine di ottenere vantaggi privati. Le situazioni rilevanti sono più ampie della fattispecie penalistica, che è disciplinata negli artt. 318, 319 e 319 ter, c.p., e sono tali da comprendere non solo l’intera gamma dei delitti contro la pubblica amministrazione disciplinati nel Titolo II, Capo I, del codice penale, ma anche le situazioni in cui – a prescindere dalla rilevanza penale – venga in evidenza un malfunzionamento dell’amministrazione a causa dell’uso a fini privati delle funzioni attribuite ovvero l’inquinamento dell’azione amministrativa ab externo, sia che tale azione abbia successo sia nel caso in cui rimanga a livello di tentativo»

Quindi, caro Titolare, è sicuramente possibile colpire la “raccomandopoli” quanto meno sul piano disciplinare ed amministrativo, anche senza scomodare il diritto penale.

Ma, allo scopo, occorre un “codice etico”, come condizione? Diremmo proprio di no. La normativa anticorruzione, infatti, si applica a tutti i dipendenti pubblici, docenti universitari compresi. Inoltre, nell’insieme del corpus normativo anticorruzione esiste già un “codice etico”: il dpr 62/2013. L’articolo 3 di detta norma dispone, per esempio, che il dipendente pubblico “osserva la Costituzione, servendo la Nazione con disciplina ed onore e conformando la propria condotta ai principi di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa”; inoltre “svolge i propri compiti nel rispetto della legge, perseguendo l’interesse pubblico senza abusare della posizione o dei poteri di cui è titolare” ed “evita situazioni e comportamenti che possano ostacolare il corretto adempimento dei compiti o nuocere agli interessi o all’immagine della pubblica amministrazione. Prerogative e poteri pubblici sono esercitati unicamente per le finalità di interesse generale per le quali sono stati conferiti”.

Occorre molto altro, per attrarre nel codice etico già vigente la “raccomandopoli” ed applicare le conseguenti sanzioni? Sempre il dpr 62/2013, caro Titolare, dispone: “La violazione degli obblighi previsti dal presente Codice integra comportamenti contrari ai doveri d’ufficio. Ferme restando le ipotesi in cui la violazione delle disposizioni contenute nel presente Codice, nonché dei doveri e degli obblighi previsti dal piano di prevenzione della corruzione, dà luogo anche a responsabilità penale, civile, amministrativa o contabile del pubblico dipendente, essa è fonte di responsabilità disciplinare accertata all’esito del procedimento disciplinare, nel rispetto dei principi di gradualità e proporzionalità delle sanzioni”. Quindi, da subito, senza attendere processi penali, civili o contabili, sarebbe possibile sanzionare disciplinarmente questi comportamenti.

Occorre, quindi, un “codice etico” per i docenti universitari? La logica dice no. La normativa è un po’ meno chiara. Infatti, l’estensore del codice etico a suo tempo stabilì che si applicasse direttamente solo ai dipendenti pubblici “contrattualizzati”, ma non a quelli in pieno regime di diritto pubblico, tra i quali proprio i docenti universitari. Tuttavia, l’articolo 2, comma 2, del dpr 62/2013 espressamente dispone che “le norme contenute nel presente codice costituiscono principi di comportamento” per le categorie di dipendenti in regime di diritto pubblico. Del resto, molte Università hanno adottato i piani triennali anticorruzione (nell’accezione non penalistica vista prima) e codici etici “aziendali”.

Dunque, l’ideona di aggiungere un ulteriore codice etico, mirato ai docenti universitari pare destinata a sortire solo l’effetto di dare l’impressione che, senza, non sia possibile perseguire i conflitti di interesse emergenti da “raccomandopoli” se non sul piano penale. Per condurre, in futuro, alla produzione dell’ennesima norma ripetitiva di altre, che con aggettivi più enfatici ripete le stesse cose, ed accorgersi, però, che l’aggettivo non era precisissimo ed occorreva qualificarlo con qualche avverbio.




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