lunedì 23 agosto 2021 - UAAR - A ragion veduta

Come si fa a distinguere una credenza religiosa “vera” da una “inventata”?

In punta di diritto come si fa a distinguere una credenza religiosa “vera” da una “inventata”? Ne parla Adele Orioli sul n. 5/2021 della rivista Nessun Dogma.

Che cosa sia o possa essere considerata una religione dal punto di vista giuridico non è una domanda che riesca a ricevere risposta univoca.

Di sicuro nel complesso e globalizzato mondo contemporaneo, dove le religioni riconosciute superano le molte migliaia (sic!) persino secondo le stime più prudenti, dove nuovi culti, sette, piccoli scismi e diaspore sono quotidiani, dove l’organizzazione ecclesiale cristiana viene messa sempre più a confronto con un islam diffuso senza apici o vertici univoci, dove anche l’occidente subisce la seduzione di discipline e dottrine spirituali non basate su esseri trascendenti, tracciare un fil rouge che davvero accomuni quanto l’uomo è disposto a chiamare religione (e cioè un complesso di credenze, sentimenti, riti che legano un individuo o un gruppo umano con ciò che esso ritiene sacro) non è facile.

Forse come elemento comune, ben prima che il riconoscimento statuale dell’autorità, va osservata l’auto-percezione come culto da parte degli adepti che ne perseguono le finalità e ne osservano i precetti. Ed è proprio sulla base dell’auto-percezione che nuovi movimenti si propongono al legislatore nazionale e sovranazionale pur con finalità di rottura, di scardinamento quando non direttamente di mero dileggio dello stesso fenomeno religioso. Le fake religions, insomma, per quanto, a essere razionali e razionalisti, i concetti di vero e di falso mal si applicano a una visione dogmatica del reale.

Famoso è il pastafarianesimo, o culto del Prodigioso spaghetto volante, sorto nel 2005 per protesta contro l’insegnamento del creazionismo nelle scuole e i cui adepti aspirano al riconoscimento anche giuridico formale come religione. E in qualche caso riuscendoci pure, in altri comunque sottolineando le illogicità che la tutela del sacro porta inevitabilmente con sé. Se in Nuova Zelanda e nei Paesi Bassi il pastafarianesimo è riconosciuto ufficialmente al pari di altre chiese tradizionali, in Austria come a New York così in Repubblica Ceca è stato quantomeno concesso il diritto di ottenere la foto con il sacro copricapo, lo scolapasta, sui documenti di identità. D’altronde è qui che il dito di simili esperimenti liturgici affonda nella piaga dell’irrazionalità giuridica della tutela del fenomeno religioso nei suoi aspetti fideistici. Proprio perché non dimostrabile, non discutibile, non razionalizzabile, la cosiddetta verità di fede, con i suoi conseguenti precetti, nel momento nel quale costituisce il presupposto di eccezioni della normativa generale si presta a proteggere il velo della suora, il chador e lo scolapasta.

Se si protegge l’onorabilità di un essere dalla incerta esistenza con le leggi anti-blasfemia diventa arduo distinguere, peraltro su supposte basi razionali, tra un Geova e uno spaghetto prodigioso. Se è poi in fondo l’auto-percezione come religione organizzata a essere la prima molla del riconoscimento istituzionale dei culti, come valutare la serietà o meno della credenza e della adesione a essa, qualunque cosa essa propugni? Se si protegge un figlio di dio che si incarna in prodotti da forno, su quali basi giuridiche considerare anche offensivo (cfr. in Russia) un culto del divino al sugo? Può sicuramente essere argomento di dibattito filosofico, storico, persino antropologico. Ben più arduo sostenerne invece la corretta discernibilità e discriminabilità in ambito giuridico.

Le conseguenze si vedono, ben oltre gli scolapasta. Anche perché il riconoscimento di una religione, oltre agli elevati principi del diritto umano di libertà di coscienza sia come singolo sia nelle formazioni sociali, porta normalmente con sé i ben più triviali ma alquanto graditi soldi pubblici. Come hanno ben compreso i seguaci dello zuismo, neopaganesimo islandese a ispirazione sumera che nel 2015, per protesta contro i finanziamenti statali alle religioni, promette di devolvere ai suoi adepti quanto ricevuto e vede la conversione alle sue schiere di più dell’1% della popolazione. Simpaticamente ed efficacemente simoniaci. E se non sono finanziamenti sono comunque esenzioni a vario titolo. Ne gode ad esempio il movimento del Satanic Temple, che della necessità di combattere proprio il diffuso sistema di privilegi fiscali ha fatto il motivo ispiratore del riconoscimento come chiesa. Per una equa redistribuzione di quanto ingiustamente riconosciuto a religioni e superstizioni, nulla di meglio di un (in questo caso) beffardo e irridente riferimento al satanismo, che ha come missione quella di «incoraggiare benevolenza ed empatia fra le persone». Come scopo sociale, bisogna ammetterlo, suona meglio del dividere il mondo fra un «noi che abbiamo ragione» e un «loro che hanno torto».

Ma questa è un’altra storia. Quello della fiscalità privilegiata è anche uno dei motivi che ha portato alla fondazione e al riconoscimento della First Church of Cannabis a Indianapolis, similmente a quanto accade alla International Church of Cannabis, basata sul cosiddetto elevazionismo, formalmente riconosciuta in Colorado. D’altronde persino in un paese sciaguratamente proibizionista come il nostro il possesso di marijuana è stato considerato lecito se associato alla meditazione rastafari. E quella rastafari è una religione vera, verissima. Perché il discrimine, la linea di confine quando si ha a che fare con l’assiomatico indimostrabile, pur se palpabile o intuibile o sarcasticamente evidente, non è traducibile in corrette differenziazioni normative. A meno di non applicare un giudizio del tutto arbitrario e discrezionale, al di là della norma stessa. E quando si opta per l’uniformità di trattamento diventano religioni riconosciute persino le peggiori frange suprematiste bianche con determinate liturgie e pratiche, come ha dovuto ammettere una corte federale a proposito del Creativity Movement.

Che le religioni d’altronde abbiano non solo una vocazione, ma molto spesso la stessa loro genesi dovuta a obiettivi ben terreni e secolari, non è una novità. Nuova è invece la slovena “Chiesa zombie trans-universale del beato squillo”, riconosciuta nel 2013 e con oltre diecimila seguaci, quinta religione del paese, nata per contrastare la corruzione della classe politica e come «critica acritica allo stato moderno che non ha rispettato i suoi impegni sociali», per usare le parole del fondatore.

E che si parli di corruzione o piuttosto in generale di una mancanza di modernità, da intendere come compiuta e al contempo progressiva tutela equanime dell’individuo, senza distinzione di sesso razza lingua e appunto religione, indubbiamente le religioni-parodia, come troppo sbrigativamente e riduttivamente vengono definite, centrano il punto. Porre individuali irrazionali credenze alla base di una normazione che tutti e ciascuno dovrebbe garantire non può che comportare ingiustizie, storture, parodie – queste sì, per quanto involontarie – dello scopo principale del diritto: una uguaglianza pluralista e vicendevolmente, razionalmente, rispettosa.

 

Adele Orioli

 

Approfondimenti

chiesapastafariana.it
thesatanictemple.com
creativitymovement.net
zuism.is

 

Per leggere tutti i numeri della rivista associati all’Uaarabbonati oppure acquistala in formato digitale.

 




Lasciare un commento