venerdì 25 settembre 2015 - Giovanni Graziano Manca

Cinema & letteratura combinazione "necessaria" (pt.2)

Il cinema ha rappresentato opere appartenenti a ogni genere o tendenza letteraria, dal romanticismo e dal romanzo ottocentesco in genere al realismo, dal verismo al surrealismo, dal futurismo al decadentismo, neorealismo, etc.. Tra i generi che da sempre figurano tra quelli più rappresentati al cinema vi è la fantascienza, particolare modalità espressiva che rappresenta situazioni che si collocano a metà strada tra la realtà e l’immaginazione di scenari futuri. La fantascienza ha fornito alla settima arte spunti e narrazioni che hanno portato alla realizzazione di autentici capolavori come, agli albori del cinema, Viaggio nella luna [Francia 1902], di Georges Melies, ispirato al romanzo di Jules Verne Dalla terra alla luna e, in tempi più vicini a noi, Blade runner, opera diretta dal regista americano Ridley Scott tratta dall’omonimo romanzo di Philip K.Dick. 

 

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Un sia pur limitatissimo elenco di grandi film italiani tratti da altrettante opere letterarie scritte da autori del nostro Paese potrà forse stimolare in chi legge il desiderio di rivisitare analiticamente (e comparativamente nel senso indicato nell’articolo) le opere proposte:

 

 

Cenere (1916), di Febo Mari

 

Mediometraggio che riassume i caratteri del cinema di ambientazione sarda dell’epoca, prevalentemente deleddiani. Recentemente restaurato dalla Cineteca italiana di Milano, tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice nuorese Grazia Deledda, questo film è incentrato sulla ineluttabilità del fato e si colloca tra le opere di genere realista-positivista e per altro verso, per via di alcuni degli aspetti della vita sarda di quel tempo da esso messi in luce, di estrazione documentaristica. Sulla interpretazione della protagonista principale di Cenere, l’attrice teatrale Eleonora Duse, va ricordato come durante la lavorazione del film essa volle essere ripresa in campi medi e lunghi senza mai apertamente mostrare il proprio volto.

 

La terra trema (1948), di Luchino Visconti

 

Liberamente tratto dal capolavoro verista di Giovanni Verga appartenente al c.d. ciclo dei vinti, I Malavoglia, La terra trema è uno dei più acclamati e discussi lungometraggi del primo Visconti. Girato in Sicilia con un cast di attori non professionisti che recitano nello stretto dialetto parlato nell’isola, il film viene solitamente inserito nel contesto neorealistico, genere che prende il via in Italia negli anni dell’immediato dopoguerra. Si distingue, tuttavia, rispetto alle opere di Rossellini e di De Sica, maestri del genere cinematografico citato, per il contenuto fortemente politico che Visconti volle dare alle vicende narrate e alle dimensioni contenutistica e formale impresse dal regista ad un film che infatti da tali aspetti peculiari risulta essere fortemente connotato.

 

Il mulino del Po (1949), di Alberto Lattuada

 

Lungometraggio di ambientazione storica, Il mulino del Po mette in scena lo svilupparsi, alla vigilia della riunificazione d’Italia, delle prime lotte contadine nei confronti dell’aristocrazia terriera. Finale amaro, quasi verghiano, per questo capolavoro cinematografico e della letteratura, che vede le protagoniste famiglie dei lavoranti scontrarsi ed annientarsi a vicenda. Riccardo Bacchelli, autore del romanzo omonimo, partecipò egli stesso alla sceneggiatura del film rimanendo alla fine soddisfatto del risultato qualitativo raggiunto dal film diretto da Lattuada.

 

Il giardino dei Finzi Contini (1970), di Vittorio De Sica

 

Orso d’oro a Berlino (1971) e Oscar per il miglior film straniero (1972), Il giardino dei Finzi Contini è la riduzione cinematografica dell’omonimo romanzo di Giorgio Bassani

Portata sul grande schermo da Vittorio De Sica, l’opera riflette le vicende di giovani appartenenti ad alcune famiglie della borghesia ebraica di Ferrara, in particolare a quella, appunto, dei Finzi Contini. Tali vicende si svolgono nella piccola città emiliana nel periodo in cui iniziano a entrare in vigore anche nel nostro paese le leggi razziali. In primo piano, al di là delle vicende umane vissute concretamente da Bassani in prima persona (il lungometraggio di De Sica le rappresenta in maniera piuttosto fedele), il rimpianto per un mondo che non esiste più perché sprofondato nell’orrore e nell’angoscia del vivere in un contesto di vicende storiche crudeli e, forse, almeno in una certa misura, inaspettate. Tra gli interpreti, un giovanissimo Helmut Berger, attore oggi irriconoscibile, in quegli anni indimenticabile interprete di alcuni capolavori diretti da Luchino Visconti.

 

Il Decameron (1971), di Pier Paolo Pasolini

 

Pasolini ambienta a Napoli un grappolo di novelle boccaccesche e lo fa magistralmente e con perizia tale da suscitare, con questo film, a una serie nutrita di misere quanto furbesche imitazioni (sono gli anni in cui inizia a prendere l’avvio il filone cinematografico della commedia sexy italiana). Il Decameron è stato definito un film gioioso perché riesce a rappresentare efficacemente e in maniera decisamente esilarante vicende pruriginose. Attraverso tale accorgimento, non senza però infondere all’opera una punta di amaro pessimismo, il regista mira a intaccare la morale cattolica sessuofoba ancora molto ben radicata negli anni in cui il lungometraggio fu girato.

 

Le avventure di Pinocchio (1972), di Luigi Comencini

 

Si deve a Luigi Comencini, autore piuttosto sensibile nei confronti dell’universo infantile una delle più conosciute e apprezzate riduzioni del classico collodiano Le avventure di Pinocchio. Il lungometraggio, che fu realizzato con la partecipazione di un cast di attori di primo livello (tra gli altri, come molti della generazione dei nati all’inizio degli anni Sessanta certamente ricorderanno, Nino Manfredi nella parte di Geppetto, Gina Lollobrigida nei panni della fata turchina, Vittorio De Sica in quelli del giudice, Franchi e Ingrassia nella parte del gatto e della volpe) e del piccolo Andrea Balestri quale interprete del più celebre e amato dei burattini (in questo lungometraggio ‘umanizzato’ dal regista e perciò particolarmente realistico), mette in evidenza lo speciale talento del cineasta bresciano nel rappresentare il mondo dei più piccoli. Emergono su tutto il grande amore, il più profondo rispetto e la volontà di questo grande uomo di cinema di capire fin nel profondo e spiegare il mondo incantato dell’infanzia.

 

Todo Modo (1975), di Elio Petri

 

Todo Modo, uno degli ultimi lungometraggi del regista romano Elio Petri, è tratto da un romanzo di Leonardo Sciascia e si colloca all’interno di quel filone cinematografico che, soprattutto nella prima metà degli anni Settanta del secolo scorso, rappresenta tematiche relative alla tormentatissima vita politica del nostro Paese. Tra gli autori che contribuirono al successo di questa particolare tipologia filmica figurano Giuliano Montaldo, Citto Maselli, Francesco Rosi, il Bellocchio di Sbatti il mostro in prima pagina (1972), Florestano Vancini e, appunto, Elio Petri. Todo Modo mette brutalmente in scena (e lo fa impiegando una certa dose di ironia) il potere politico in alcune delle sue rappresentazioni deteriori più conosciute. Negli anni in cui la Democrazia Cristiana rappresenta il partito di maggioranza relativa (ma già, di lì a non molto, il consenso nei confronti di questa formazione politica sarebbe gradualmente venuto meno) un ritiro spirituale cui partecipano politici e aderenti a vario titolo al sistema di dominio amministrativo posto in atto dal partito cattolico, mette in mostra l’ipocrisia e la conseguente messa in secondo piano dei valori cristiani, due degli elementi anomali che pervadono da sempre la vita politica italiana. All’interno del gioco al massacro rappresentato nel lungometraggio, la Chiesa, che sostiene il partito dei cattolici per eccellenza, ha un ruolo negativo tutt’altro che marginale. Il film è ricordato anche per la strabiliante (e addirittura imbarazzante per la ottenuta somiglianza all’allora Presidente del Consiglio Aldo Moro) interpretazione resa da uno dei più grandi attori che il cinema italiano abbia mai avuto: Gian Maria Volontè

 

Cristo si è fermato a Eboli (1978), di Francesco Rosi 

 

Carlo Levi è un medico e pittore torinese che durante gli anni della dittatura fascista viene confinato a Eboli, piccolo villaggio della Lucania, in quanto non gradito al regime. Il film, uno dei più interessanti del cineasta napoletano Francesco Rosi, tocca le corde della più intima riflessione e crescita umana del personaggio rappresentato, che tra la gente del sud troverà non solamente un contesto esistenziale più ‘a misura d’uomo’ all’interno del quale più forti, vivi e sinceri sono i rapporti sociali e la solidarietà umana, ma anche nuove ragioni di vita e per cui valga la pena lottare e impegnarsi in prima persona. Il principale interprete del film, Gian Maria Volontè, diede del protagonista del romanzo autobiografico di Levi una delle sue interpretazioni più intense.

 

Enrico IV (1984), di Marco Bellocchio

 

Per realizzare Enrico IV Marco Bellocchio si ispira a Pirandello e precisamente alla omonima commedia in tre atti presentata sulla scena teatrale italiana nei primi anni Venti del Novecento. L’opera, che pare rappresentare piuttosto fedelmente i caratteri di fondo dell’Enrico IV pirandelliano, si svolge in un contesto atemporale e si sviluppa tra realtà e finzione e tra le miserie morali e le ipocrisie dei personaggi coinvolti, abbracciando quelle tematiche psichiatriche e psicoanalitiche da sempre tanto care al maestro piacentino e dallo stesso rappresentate soprattutto nella seconda parte della propria carriera. 

 

Gomorra (2008), di Matteo Garrone 

 

Da uno dei casi editoriali di maggior successo di questi ultimi anni, il bestseller di Roberto Saviano che porta lo stesso titolo, il pluripremiato film del giovane regista romano Matteo Garrone riassume, non senza coraggio, efficacia scenica e momenti di particolare crudezza, scenari, circostanze ed elementi fondanti della tragica supremazia che le organizzazioni camorristiche esercitano sul territorio. 

 




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