Cina in Africa: una colata vi seppellirà
Investimenti cresciuti e tonnellate prodotte in loco: il cemento cinese nel continente nero ha già superato la crisi e rappresenta per Pechino la valvola di sfogo del mercato interno.
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di Raffaella Colombi
Nel luglio 2012 la BBC pubblicò un servizio in cui per la prima volta si vedeva un’enorme città africana, corredata di strade, scuole e ospedali, completamente deserta. Quello che però rendeva davvero uniche quelle immagini non era tanto il fatto di trovarsi di fronte all’ennesima, enorme, cattedrale nel deserto, quanto piuttosto che quelle immagini fossero state girate nella prima città fantasma africana interamente costruita da imprese cinesi.
In rete non è difficile trovare immagini di Nuova Ciudade de Kalimba, sessanta chilometri a sud di Luanda, capitale dell’Angola, e a un primo momento verrebbe da chiedersi perché quelle migliaia di appartamenti, circa ventimila in totale, regolarmente messi sul mercato da Delta Imobiliaria siano rimasti praticamente del tutto invenduti. La risposta è più facile di quanto non si pensi: in Angola ancora oggi buona parte della popolazione vive con circa due dollari al giorno mentre un appartamento a Kalimba ha un prezzo medio che si aggira attorno ai 120 mila dollari. Secondo i responsabili vendite, invece, sembrerebbe che il problema maggiore legato ai mancati contratti siano le difficoltà burocratiche che le banche creerebbero per la concessione dei mutui sostenendo che il prezzo degli appartamenti rispecchi effettivamente il loro valore di mercato.
Sia come sia, sta di fatto che dopo un anno dalla sua inaugurazione e della messa sul mercato della prima tranche di 2.800 appartamenti ne siano stati acquistati solo 220 e la quasi totalità delle persone che ci vivono sono di nazionalità cinese, mentre gli angolani che si aggirano per la città sono quasi tutti parte del personale di manutenzione.
Da alcune interviste fatte a Luanda si scopre che per loro Kalimba è come una specie di sogno irrealizzabile, un luogo tranquillo, pulito e sicuro (oltre che lussuoso) dove andare a vivere, un paradiso per una classe media che in Angola ancora non esiste.
Se le cose stessero davvero così sembrerebbe che l’investimento di tre miliardi e mezzo di dollari fatto dal China Africa Developement Fund, un fondo di investimento cinese che opera in Africa, nato nel 2006 durante uno degli incontri del Forum China-Africa Cooperation, sia stato un enorme fiasco. Se in parte lo fosse, le conseguenze non ricadranno certo sulle società asiatiche investitrici; infatti l’accordo con l’Angola prevede il pagamento dell’intera cifra in petrolio, materia prima che il Paese africano ha in enormi quantità essendo il secondo esportatore al mondo dopo l’Arabia Saudita. Questo però crea un duplice problema al governo angolano visto che da una parte deve saldare l’intera somma alla Cina e dall’altro si trova con una città quasi del tutto disabitata da cui non riesce a trarre nessun guadagno. L’unica soluzione che il presidente José Eduardo Dos Santos è stato in grado di trovare, con una mossa puramente volta al consenso politico, è stata quella di dichiarare che una parte consistente degli appartamenti verrà utilizzata per l’housing sociale; attualmente però non è stato ancora presentato alcun progetto in tale direzione.
Questo in Angola è però solo l’ultimo e più imponente progetto edilizio che la Cina ha realizzato nel continente africano grazie al China-Africa Developement Fund. A partire dal 2006 il fondo, joint venture di diversi gruppi industriali cinesi, ha costruito nuovi quartieri e città in Sierra Leone, Zambia, Zimbabwe, Egitto, Nigeria e Mozambico che però in dimensioni e costi non si avvicinano ai numeri di Nuova Ciudad de Kalimba. Il precedente più ambizioso si trova in Mozambico, con un investimento di 880 milioni di dollari per diecimila appartamenti, scuole, un centro commerciale e un ospedale. Quindi non è certo un caso che il fondo abbia quattro sedi in Africa: A Johannesburg (Sudafrica), Accra (Ghana), Adis Abeba (Etiopia) e Lusaka (Zambia) e per quanto diversificati i settori di maggio interesse restano l’housing e soprattutto l’industria del cemento.
Da come si può intuire dalla scelta dei pagamenti in petrolio quello delle città fantasma africane made in China non è semplicemente una questione di speculazione edilizia ma riguarda un complesso e diversificato piano di investimenti cinesi in Africa che in termini monetari ha significato un passaggio da un miliardo di dollari guadagnato nel 1980 ai più di 163 miliardi nei primi dieci mesi del 2012, attestando la Cina al secondo posto nella classifica dei partner commerciali del continente africano dopo gli Usa, superando Francia e Gran Bretagna, partner storici legati al passato coloniale. Il passo decisivo nell’aumento degli introiti è avvenuto proprio nel 2006 quando a Pechino il primo ministro dell’epoca Hu Jintao ha creato il CADF, oltre ad avere concesso prestiti ai Paesi africani per un valore di 5 miliardi di dollari.
Insieme alla costruzione di quartieri e intere città, la Cina ha prima venduto e poi iniziato a costruire impianti per la produzione del cemento. Di primaria importanza nel Paese, l’industria del cemento cinese ha conosciuto recentemente una forte battuta d’arresto dovuta da un lato dalla crisi e dall’altro da esigenze di natura ambientale.
Già nel 2009, per la prima volta, circa il 25% del cemento prodotto dal gigante asiatico è rimasto invenduto, causando enorme preoccupazione anche nelle più alte sfere del governo che considera cemento e acciaio i due settori chiave dell’economia cinese. L’allora primo ministro Wen Jabao vista la situazione rilasciò subito un comunicato ufficiale in cui spiegava che in base alle disposizioni elaborate, la manovra sarà incentrata sullo sviluppo del settore dell'acciaio, del cemento, del vetro, del carbone, del silicio e dell'eolico. Sono previsti stretti controlli circa l'accesso al mercato e verranno rinforzati gli organi di supervisione ambientale. Le banche saranno autorizzate a emettere prestiti ai settori interessati solo nell'assoluta osservanza delle attuali politiche industriali. Infine importanti agenzie governative saranno incaricate di monitorare la sovrapproduzione industriale e di rilasciare informazioni chiave, quali la scala di operazioni, la domanda pubblica e le politiche aziendali del governo.
Eppure anche questa stretta sui controlli non è bastata a fermare il declino dell’industria cementizia e la percentuale del cemento invenduto nel 2010 è aumentata ulteriormente fino ad arrivare ad oggi, 2013, periodo in cui il governo preoccupato per il rischio dello scoppio di una bolla speculativa simile a quella statunitense ha prima decretato lo stop per 5 anni alla costruzione di grattacieli (edifici cioè che superino i 25 piani o i 125 metri, ma non solo) a partire dal luglio di quest’anno sono entrate in vigore nuove norme che regolano le emissioni di monossido di azoto prodotto dagli impianti di produzione del cemento. Con una media di 880 mg per metro cubo la qualità dell’aria attorno agli impianti era diventata insostenibile e la crisi del settore ha dato l’opportunità al ministero dell’ambiente di dare un’importante stretta ai regolamenti. Il limite della presenza di monossido di azoto nell’aria è stato più che dimezzato con 450 mg per metro cubo per gli impianti esistenti e di 320 mg per metro cubo per le nuove strutture. Per gli industriali è stato un altro duro colpo dopo che alcuni impianti, definiti improduttivi dal governo, sono stati chiusi in presenza di un mercato interno iper controllato e non più in così forte espansione.
Una risposta a questa prima crisi del settore è arrivata proprio dall’Africa, come si è visto, continente in cui l’espansione edilizia è all’inizio e in cui la Cina sta giocando uno dei ruoli principali ma non solo: viste le limitazioni dell’industria interna, il Dragone sta diventando uno dei primi Paesi a impiantare in Africa una delle prime mega strutture per la produzione del cemento.
La prima è stata edificata nel 2010 in Sudafrica, finanziata dal China-Africa developement Group, dal Jidong Developement Group e dalla società americana Continental Cement (che nel 2008 aveva acquisito le licenze per lo sfruttamento delle cave di calcare) per un investimento totale di 1,65 miliardi di dollari.
L’impianto una volta costruito, completo di strutture e macchinari importati direttamene dalla Cina, è stato consegnato ad una società locale che ne gestirà la produzione. L’esempio però è servito ai cinesi per capire che il mercato africano ha fortissime prospettive di crescita e che, visti i mutamenti del mercato interno, oltre che per abbassare i costi di produzione sarebbe meglio produrre e vendere cemento direttamente in Africa. I numeri sono impressionanti, solo nel 2012 la Cina ha importato in Africa 112 milioni di tonnellate di cemento, il 26% in più del 2011; per questo motivo nel maggio di quest’anno è stato inaugurato in Etiopia il primo impianto per la produzione del cemento costruito e gestito direttamente dalla Northen Heavy Industries, società cinese che ha già investimenti diversificati in 13 stati africani, soprattutto Angola e Tanzania (nel 2012 solo con l’esportazione di macchinari industriali in Africa ha incassato 500 milioni di dollari). Costato 70 milioni di dollari e iniziato nel 2008 entrerà a pieno regime solo alla fine di quest’anno con una previsione di produzione di 1,4 milioni di tonnellate entro 2015. Dentro questo immenso impianto ci lavoreranno 750 persone, di cui solo un decimo provenienti dalla Cina.
La NHI non ha certo intenzione di fermarsi e attualmente sta valutando altri progetti simili, come la costruzione di un altro impianto gestito direttamente in Chad e di un altro in Angola gestito in joint venture.
Le parole del portavoce dell’Nhi Wang Cumin sono emblematiche e sembrano sottolineare come la Cina sembri riuscita a trovare un modo per mantenere profitti alti senza far scoppiare la bolla speculativa nel mercato interno: «[In Africa] L’industria del cemento sarà uno dei nostri principali interessi nei prossimi 10 anni, in cui la bassa competizione nel settore ci sta dando il vantaggio del migliore posizionamento in questo tipo di industria».