martedì 6 ottobre 2020 - UAAR - A ragion veduta

Cimitero dei Feti, aborti e sussidiarietà: non solo privacy

Della vicenda ormai più che nota che ha visto emergere, non per la prima volta a dir la verità, la assurda pratica di sepoltura di feti abortiti tra le 20 e le 28 settimane di gestazione sotto una croce con il nome della donna e, nella sostanza, a sua insaputa, si è posto in risalto soprattutto il profilo della privacy.

Il che, ci mancherebbe, rappresenta la lesione più evidente e resta un nodo fondamentale, già a Torino nel 2015 è peraltro stato affrontato e risolto con l’attribuzione di nomi di fantasia ai feti non reclamati dalle famiglie.

Espediente che però non risolve il secondo grosso tema che questa storia porta ad affrontare. È davvero lecito trattare i prodotti abortivi e i feti come persone defunte, quando non sono tali né dal punto di vista medico né da quello giuridico, a imperitura memoria di una interruzione di gravidanza in luogo pubblico, in rigorosa tumulazione singola? Ed è lecito farlo contro la volontà stessa della donna che quella gravidanza, per scelta, per necessità mediche, spontaneamente ha interrotto? A insaputa e contro la volontà di una donna che ha esercitato un suo diritto, quello cioè a rinunciare alla sepoltura e forse anche alla stessa memoria, o quantomeno l’esternazione di essa? In nome di quale morale lo stato può sopprimere la libertà individuale, il diritto all’autodeterminazione sessuale e riproduttiva, il diritto stesso alla integrità psicofisica, fino a disporre di una parte del nostro corpo che noi stessi non desideriamo venga commemorata?

E poi si arriva il terzo punto, questo sì passato quasi in silenzio ma che meriterebbe ben più di un approfondimento.

Perchè anche come viene commemorato il feto aggiunge indignazione. Persino in questa Italia dove il diritto all’aborto viene nascosto in un angolo o sistematicamente collegato alla traumaticità (come se si dovesse giustificare prima e pagare pegno poi per esercitare un diritto), e si concedono spazi pubblici alla sua criminalizzazione, non ultimo il recente Registro dei bambini mai nati a Marsala, mantiene la sua valenza sfregiante e annullante la volontà della donna e suoi diritti fondamentali.

A Roma, si è visto, l’Azienda municipalizzata della nettezza urbana, incaricata dai vari (pochissimi: solo 5 per l’aborto terapeutico) ospedali della città di ritirate i feti non reclamati, tumula sotto singole croci di legno bianche. Impone un simbolo religioso senza alcun criterio, senza alcuna giustificazione che non sia la consuetudine. D’altronde si tratta di sepolture cosiddette in beneficenza, che per il Comune di Roma per gli adulti nullatenenti sono scelte esclusivamente dalla Caritas diocesana e dalla Comunità di Sant’egidio. Una consuetudine dalle gambe corte e dalle mani lunghe.

Se già questa è una ben triste immagine del confessionalismo marcato delle nostre istituzioni, da quello smaccato a quello più nascosto fra le pieghe di piccole grandi cose quotidiane, è anche una violazione della libertà di coscienza, uno sputo sullo schiaffo.

Purtroppo, non finisce qui. Perché, forti di una normativa nazionale del 1990 e di legislazioni regionali via via più reazionarie, molte asl in molte città non hanno nemmeno bisogno di chiamare i servizi funerari pubblici. Ci pensano associazioni dai nomi eloquenti come Difendiamo la vita con Maria (la più diffusa), Comunità Giovanni XXIII o ancora Armata bianca (sic).

Se entro 24 ore dall’aborto la famiglia non ne fa richiesta, arrivano questi solerti difensori della negazione di scelta altrui che a loro spese battezzano feti e residui organici (di solito impongono il nome “Celeste”, perché, ironia della sorte, è no gender), celebrano messe in suffragio e tumulano sotto croci in spazi appositi. Spazi appositi a loro volta spesso attrezzati a spese dell’amministrazione comunale in appositi “Giardini degli angeli”, moltiplicatisi in giro per lo stivale soprattutto negli ultimi vent’anni. Anche perché l’orrore non ha mai fine e infatti non finisce qui.

Dal 1990 è infatti possibile chiedere la sepoltura (e in alcune regioni è persino obbligatorio) anche dei prodotti del concepimento, cioè anche di quelli che possono essere frutto di interruzione volontaria di gravidanza. E, ancor più solerti, le associazioni di cui sopra ritirano e realizzano a forza anche quelli, per la gioia di altrettanto diligentemente devoti dirigenti asl che asseriscono così di poter risparmiare. E chissenefrega dello sprezzo totale di almeno quattro o cinque diritti fondamentali.

Chi non risparmia è sicuramente la donna che vuole sottrarsi a questa barbarie: deve accollarsi le ingenti somme che una tumulazione vera e propria, con tanto di carro funebre obbligatorio, comporta.

E poi, insomma, parlare di risparmio di denaro pubblico per la sepoltura dei feti quando solo i cappellani negli ospedali sono pagati come infermieri e costano 35 milioni di euro annui di contributi regionali è un ragionamento in ogni caso oltre la decenza.

Anche se questa pratica specifica si basa giuridicamente su una frase, “chi per essi” inserita in un regolamento di polizia mortuaria, vi sono ben altre porte, anzi portoni dalla quale si rende plausibile l’ingresso di soggetti privati, quasi sempre fortemente connotati dal punto di vista confessionale, quasi sempre cattolici, nella gestione ed organizzazione di servizi fondamentali della realtà pubblica.

Ed entrano colossi a passo di carro armato, così come il principio di sussidiarietà orizzontale (dove non arriva il pubblico, arrivi il privato) è entrato nella costituzione nel 2001 con la modifica del titolo V e dell’art. 118.

Quel principio lodato pubblicamente dallo stesso Giovanni Paolo II e che vede le associazioni no-choiche sistematicamente invischiate nei consultori, quando non direttamente titolari di servizi; che vede cooperative di religiosi organizzare l’insegnamento di educazione affettiva nelle scuole pubbliche; che vede scorrere cospicui finanziamenti verso il soggetto privato perché fornisce servizi al posto di uno Stato che ha definitivamente accantonato anche solo l’idea di una gestione diretta (un esempio su tutti, la Caritas. Ma anche la sanità lombarda insegna qualcosa).

L’elenco sarebbe lungo, troppo e sempre troppo poco oggetto di dibattito. Di certo vi è che con una tale compromissione ideologico religiosa all’interno di settori sensibili il rischio concreto di una lesione sistematica della libertà di coscienza del cittadino è certo. La discriminazione fatta protocollo d’intesa, e per giunta a spese economiche e morali del discriminato.

Adele Orioli

 




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