giovedì 1 giugno 2017 - Giuseppe Aragno

Cialdini e gli storici neosavoiardi

ra i cittadini onorari di Napoli, non c’è più Enrico Cialdini, criminale di guerra. Scandalizzato, Francesco Barbagallo, ex dirigente del Pci, è salito in cattedra per ripristinare la memoria precisa di eventi lontani e farci la lezione sulla verità dei fatti, di cui è geloso custode e depositario unico. E poiché alla sua verità occorre inchinarsi, criminali di guerra compresi, ci ha esclusi dalla comunione dei fedeli: “neo-sudisti” e figli una “ideologia scadente”. Questa la sentenza del Sant’Uffizio.

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Noi però insistiamo. Le ricostruzioni storiche non sono indiscutibili verità scientifiche; lo riconobbe anni fa lucidamente Le Goff, ricordando le continue “nuove letture del passato”, le “perdite, le resurrezioni, i vuoti di memoria e le revisioni”. Per noi, la “verità della storia” è un’invenzione degli storici legati a questa o quella congrega politica e concordiamo con Carr: i fatti, di per sé “muti”, rispondono alle domande degli storici, sicché, se cambi domande, anche la “verità” spesso cambia. Inutile perciò “scomunicare”.
 
Lo storico ricostruisce eventi, ma è lui che li sceglie e li interpreta, così che, per quante riserve si possano esprimere, non ha torto Hoakeshott: “la storia è l’esperienza dello storico”. Persino i “termini con cui gli storici francesi hanno via via descritto le folle parigine che hanno avuto una parte così importante nella rivoluzione francese – les sens culottes, le peuple, la canaille, les bras-nus – sono, per chi conosce le regole del gioco, manifesti di una particolare posizione politica e di una particolare linea interpretativa”. Così scrive Carr e Croce, non un “neosudista scadente”, sostiene che la “storia dello storico” è spesso più interessante e rivelatrice della storia che egli racconta. E’ incauto perciò Barbagallo, quando distribuisce patenti e incolla etichette su chi non la pensa come lui.
 
A chi parla di neosudismo e scrive che “non furono i piemontesi a conquistare il Regno delle Due Sicilie, ma i democratici e repubblicani Garibaldi e Mazzini a consegnare il Mezzogiorno ai piemontesi”, come fossero buoni amici da cui Cavour attendeva regali, viene da chiedere com’è che i sacerdoti della memoria, non ricordino il ringraziamento toccato a Mazzini, mentre il Parlamento italiano apriva per la prima volta i suoi battenti. Fu Silvio Spaventa, che il 4 febbraio 1861 sollecitò istruzioni a Cavour sulla sorte di Mazzini di passaggio per Napoli:
 
“Da persona degna di qualche fede – egli scrisse – sono assicurato che il Mazzini è di nuovo qui; questa notte egli avrebbe dormito in casa del Direttore del Popolo d’Italia e nel momento che scrivo sarebbe in casa dell’Acerbi; andrebbe in Caserta la notte ventura. Se queste cose fossero vere, come avrei da regolarmi? Quando S.M. era qui, e vi si trovava pure il Mazzini, si stimò non conveniente di procedere ad alcun atto contro di lui. Come V.E. sa il Mazzini fu condannato nelle antiche province a morte in contumacia”. Che fare, quindi? Colpirlo? Si sarebbe potuto fare, ma occorreva prudenza, perché, scriveva Spaventa, “Mazzini veste ancora l’abito di tenente colonnello garibaldino, come vestiva l’altra volta che fu in questa città. Mi dicono ancora che degli emissari mazziniani sono spediti presso le nostre truppe regolari nelle diverse province, con qual fine non saprei dire determinatamente. Piaccia all’E.V. rimanere intesa, perché se il crede bene ne avverta anche il Generale Della Rocca.
Il Consigliere S. Spaventa”.
 
Non se ne fece nulla, ma Cavour non rimosse Spaventa, né decise la prescrizione per la condanna a morte, che giunse nel 1870. Poiché Mazzini però preparava sommosse – era anch’egli un brigante? – fu di nuovo arrestato e morì sotto falso nome, esule in patria e sempre minacciato. In quanto a Garibaldi, Barbagallo lo ignora: giunto a Napoli per nostalgia, semiparalizzato dall’artrosi, a pochi mesi dalla morte, fu tenuto sotto stretto controllo dalla polizia politica, come un volgare malfattore e non mosse un passo senza che un questurino spiasse e riferisse. Brigante anche lui.
 
In realtà, lo scontro tra repubblicani e monarchici è interno al capitale e la partita giocata in quegli anni nel Sud è lotta di classe. Ci sarebbe piaciuto, perciò, che facendoci la lezione, qualcuno avesse posto l’accento sulla vena di autentico razzismo antimeridionale che emerge dalle lettere di Farini, luogotenente generale delle provincie napoletane. “amico mio, che paesi son mai questi […]. Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica. I beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile!”. E non era il solo a pensarla come Bossi. Per Minghetti, il Napoletano “non ha popoli, ha mandrie […]. Ora con questa materia che cosa vuoi costruire? E per Dio ci soverchiano di numero nei parlamenti se non stiamo bene uniti a settentrione”. Invano Liborio Romano osservò che “le nuove leggi ed i nuovi regolamenti erano di gran lunga inferiori alle leggi e ai regolamenti che vandalicamente e col cipiglio della conquista abolivano”. Ci pensò l’ex cittadino onorario Ciadini, che usò il ferro e il fuoco.
 
Fu lotta di classe, come a Bronte avevano già dimostrato le fucilazioni di Bixio, e sarebbe stato utile che qualcuno degli storici che fanno la lezione a inesistenti neosudisti, avesse, se non altro, posto ai fatti domande che non si fanno, per evitare che venga poi fuori un’altra verità. La Questione Meridionale si presentò in tutta la sua gravità sin dai moti dei Fasci Siciliani. Quale posizione assunse nello scontro feroce il PSI? Ascoltò i compagni meridionali e affiancò i proletari del Sud o scelse un comportamento da Ponzio Pilato? Turati si scaricò la coscienza di ogni responsabilità, chiedendo lumi a Engels che, com’è noto, conosceva il Sud meglio dei meridionali. Chiarisse lui ai compagni equilibrati e maturi del neonato triangolo industriale qual era il compito del partito nel Sud, dove i lavoratori erano plebei per definizione e l’immancabile ribellismo meridionale era in perenne agguato. Poteva il grande partito dei lavoratori star lì a liquidare residui feudali, per accelerare la rivoluzione democratica? Engels dettò la regola: la guida e il controllo delle masse contadine toccavano a media e piccola borghesia. Sapeva Engels che da quelle terre di barbari giungevano a Roma contributi fiscali più cospicui di quelli provenienti dal Nord e dal Centro e con quelle risorse si pagavano i servizi per l’Italia “civile”, mentre ai cafoni, massacrati da Cialdini, mancava ormai tutto e per prima le scuole? Turati lo sapeva, però, forte del parere di Engels, mollò Garibaldi Bosco, Barbato, Verre, De Felice e i Fasci Siciliani.
 
Si giunse così all’idillio Turati-Giolitti e per il Sud fu la fine: in attesa che vi sorgessero una “sana borghesia” e un “vero proletariato” – da noi si nasce sanfedisti per vocazione – si deposero le armi. Invano Salvemini – anche lui neosudista? – puntò il dito sull’intesa perniciosa tra i socialisti e il “ministro della malavita”; il partito adottò la formula di Turati. lo sviluppo del Nord avrebbe trainato verso la civiltà la barbarie meridionale. Si consolidarono così le due Italie e il lavoro, in due fabbriche dello stesso padrone, al Sud costava la metà e il risparmio garantiva l’elite proletaria dell’altra fabbrica, quella che operava nelle terre di Salvini. La “grande guerra” e il fascismo fecero la loro parte e all’alba della repubblica la lotta di classe riprese il suo andamento anomalo.
 
Il PCI reclutò come intellettuale di riferimento Aldo Romano, storico fascista e spia dell’Ovra, che negli anni Trenta, con De Vecchi, direttore della “Rassegna storica del Risorgimento”, aveva letto le vicende dell’unificazione nazionale in chiave fascista. Non bastasse, invece di epurare gerarchi, mise alla porta i sindacalisti napoletani, rei di aver organizzato un sindacato di classe che non voleva essere cinghia di trasmissione dei partiti. In quanto a Nenni, il suo vento del Nord mortificò i partigiani del Sud e quei combattenti delle Quattro Giornate che avevano varcato le linee, per proseguire la lotta al nazifascismo. Giunti al referendum, si spinsero a destra quei protagonisti della resistenza napoletana che non chiedevano assistenza in cambio di voti, ma la «restituzione ai gloriosi Banco di Napoli e Banco di Sicilia delle rispettive loro riserve aure, depredate dal fascismo in pro della Banca d’Italia (nonché la restituzione dell’intero residuo ammontare del ricavato della vendita dei beni demaniali di manomorta dell’ex Regno delle Due Sicilie in £ 4.105.000), in esecuzione della legge Minghetti; lo stanziamento dell’ultimo prestito sottoscritto nel Meridione per la costituzione di un primo fondo destinato alla esclusiva ricostruzione del Mezzogiorno […] per sopperire alle esigenze del solo bilancio meridionale».
 
C’è voluto un romanzo di Rea per conoscere la sorte del “Gruppo Gramsci”, formato da Arfè, Marotta e Piegari, messo a tacere per aver criticato le scelte elettoralistiche di Amendola, che ci sarebbero costate care. Antonio Labriola avrebbe detto che si voleva “bestiame votante”, ma questa è un’altra storia. Napoli è stanca di mezze verità e ministri della malavita che usano questori e prefetti a fini politici. Chi batte sul tasto del neosudismo, farebbe bene a preoccuparsi del neofascismo al quale la sua parte politica fa da sponda, per creare difficoltà alla Giunta ribelle. Napoli è stanca dello stereotipo della città di plebe. Danni ne ha fatti già troppi. E’ ora di piantarla.



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