giovedì 21 ottobre 2021 - Giovanni Greto

Choruses. Drammaturgie vocali.

Sei concerti interessanti dal ricco programma del 65° Festival Internazionale di Musica Contemporanea della Biennale di Venezia.

La Direzione artistica della Biennale Musica è stata affidata per la prima volta ad una donna, Lucia Ronchetti (Roma,1963), compositrice contemporanea contesa all’estero, con il compito di programmare il quadriennio 2021 – 2024.

Come si apprende dall’intervista che apre il catalogo “Ho scelto il titolo Choruses perché il termine inglese (plurale n.d.r.) offre una moltitudine di riferimenti, importanti per la programmazione del Festival: si riferisce alla vocazione del comunicare vocalmente insieme, da parte di un vasto numero di persone; denota la funzione drammaturgica di una singola voce nell’ambito del dramma, che recitando il prologo, spiega il concetto e indica la concezione di un testo teatrale; rimanda più esplicitamente alla funzione del Coro della tragedia greca e racchiude la potenzialità dell’attivarsi volontario di un ensemble corale nella performance sonora.

Il sottotitolo Drammaturgie vocali intende chiarificare la vastità delle possibili intenzioni compositive e il forte rapporto tra la creatività corale e la produzione teatrale e testuale contemporanea.

Il Festival mette in luce i diversi aspetti stilistici della scrittura vocale per ensemble di voci degli ultimi trent’anni, sostenendo la nascita di nuovi lavori legati alla coralità secondo forme vocali storicizzate e nuove tendenze stilistiche”.

Il primo concerto a cui ho assistito nella confortevole platea del Teatro Malibran ha presentato l’opera in due parti Only the Sound remains di Kaija Saariaho (Helsinki, 1952), cui è stato assegnato il Leone d’oro “per lo straordinario livello tecnico ed espressivo raggiunto nelle sue partiture corali e per l’originalità del trattamento della voce. Fra i maggiori compositori viventi e uno dei più eseguiti al mondo, la musica di Kaija Saariaho ha il dono della potenza e dell'immediatezza e genera affreschi acustici inediti e narrazioni sonore originali”.

L’opera interpreta due drammi No, antica forma di teatro giapponese, che si continua a rappresentare in Giappone nel rispetto e nel mantenimento della tradizione, basati sugli adattamenti delle traduzioni curate da Ernest Fenollosa, da parte di Ezra Pound durante la prima guerra mondiale.

La prima parte riprende il dramma Tsunemasa, lasciandone invariata la trama.

Sodzu Gyokei, sacerdote custode del tempio di Ninnaji, della corte reale, sta pregando per Tajima no Kami Tsunemasa, perito nella battaglia dei mari d’Occidente. Costui era uno dei favoriti dell’Imperatore, che gli aveva regalato un Biwa (il liuto giapponese) chiamato Seizan, “Montagna Blu”, prima della battaglia. Gyokei offre lo strumento all’altare del defunto, compiendo un rito nella speranza di donar pace alla sua anima tormentata dalla visione della battaglia in cui aveva combattuto. A mezzanotte, richiamato dalla melodia delle preghiere compare l’ombra di un uomo, il fantasma di Tsunemasa, il quale racconta in breve la sua storia e chiede a chi lo guarda di abbassare le luci in modo da poter scomparire, cosicchè rimane soltanto il suono della sua voce, che rende felice, anche se solo per un istante, il sacerdote. Sullo sfondo si vedono un danzatore in abiti tradizionali, alberi di Momiji, amatissimi dal popolo giapponese, calligrafie su ampi pannelli, alternate a disegni.

Hagoromo è il dramma scelto nella seconda parte.

Un mattino di primavera il pescatore Hakuryo trova uno stupendo mantello di piume appeso al ramo di un pino. Vorrebbe portarselo a casa, ma uno spirito femminile, Tennin, che rappresenta la luna, gli chiede di restituirglielo, altrimenti non può far ritorno in cielo. Il pescatore si lascia commuovere dai lamenti, però in cambio vuol vedere lo spirito esibirsi in una danza celeste. Lo spirito acconsente, ma ha bisogno del mantello per l’esecuzione. Il pescatore non si fida, ma a lui così replica la creatura celeste: “il dubbio è per i mortali. Con noi non esiste inganno”. Il pescatore, vergognandosi, le cede il mantello. Lo spirito danza disegnando i movimenti crescenti e calanti della luna fino a scomparire nella foschia che avvolge la vetta del Fuji-san, la montagna sacra del Giappone.

Ottima la piccola orchestra, costituita da un quartetto d’archi; da una serie di flauti, basso, alto e in Do, splendidamente suonati da Camilla Hoitenge; da un set bene assortito di percussioni, padroneggiato da un attentissimo Kambe Mitsumori, teso a sottolineare i momenti diversi e ad accentare quelli salienti della narrazione e da Eija Kankaanranta al Kantele, un cordofono tradizionale finlandese, forse a richiamare la sonorità del Koto giapponese, per incarnare il suono magico della prima opera. Kaija Saariaho spiega nel catalogo di aver scelto un ensemble particolarmente ricco che permette di coprire una vasta gamma di tonalità, con l’obiettivo di scrivere una musica raffinata e ben definita che respirasse nell’acustica di un ampio spazio.

Elegante ed efficace il commento dei quattro vocalisti del Theatre of Voices. Professionali, il controtenore polacco Michal Slawecki e il baritono americano Bryan Murray. Attenta la direzione di Clément Mao-Takacs, il quale, assieme al regista Aleksi Barriere, figlio della compositrice, ha creato la “Chambre aux echos”, una compagnia di teatro e di musica da camera. Infine , va sottolineata l’eleganza, la snellezza e uno stile creativo nei movimenti del danzatore Moriyama Kaiji (Kanagawa, 1973), che ha iniziato la sua carriera in una compagnia di teatro musicale in Giappone, diventando in breve tempo coreografo professionista.

Sonorità ed acustica di grande qualità, con momenti inquietanti ed esplosivi che hanno calamitato l’attenzione del pubblico.

La sala delle Colonne di Ca’Giustinian, sede storica della Biennale, solitamente utilizzata per le grandi presentazioni alla stampa, ha ospitato con soddisfazione alcuni concerti. Il primo a cui ho assistito, diviso in due parti, ha avuto come protagonista il medesimo quartetto Theatre of Voices, questa volta diretto da chi lo ha fondato nel 1990, il Direttore d’orchestra e artistico Paul Hillier.

Nella prima, le quattro voci, - Else Torp, soprano; Iris Oja, mezzosporano; Paul Bentley-Angell, tenore; Jakob Bloch Jespersen, basso – hanno interpretato a cappella The little Match Girl Passion, “la passione della piccola fiammiferaia”, che vinse il premio Pulitzer nel 2008 come una delle partiture più originali e commoventi degli ultimi anni. Il compositore, David Lang (1957), attratto dalla favola di Hans Christian Andersen, che suggeriva una metafora cristiana nella figura della fiammiferaia, - che muore di freddo nell’indifferenza di una folla distratta dai preparativi della festa per la nascita di Cristo - ha voluto reinterpretarla musicalmente. Scrive Lang: “Non c’è Bach nel mio pezzo e non c’è Gesù – piuttosto la sofferenza della Piccola Fiammiferaia è stata sostituita a quella di Gesù. Elevando, spero, il suo dolore a un piano più alto”.

I cantanti intrecciano le loro voci simultaneamente percuotendo piccoli oggetti e strumenti ( una grancassa, campane tubolari) durante 35 minuti attraverso 15 stazioni, in cui si rappresenta la passione e la morte della fanciulla, seguiti da un pubblico attento e silente, che esploderà in un mare di applausi.

Una breve pausa tecnica precede il rientro di tre cantanti – rimane in camerino il basso – assieme a tre musicisti del PMCE (Parco della Musica Contemporanea Ensemble) – Filippo Fattorini, violino; Luca Sanzò, viola; Anna Maria Armatys, violoncello – pronti ad eseguire, nella versione originale per trio di voci ed archi, uno dei molti capolavori del compositore estone Arvo Part (Paide, 1935), lo Stabat Mater (1985), un canto liturgico che mette in musica il testo in latino medievale, attribuito a Jacopone da Todi (tra il 1230 e il 1236 circa – 1306). E’ una meditazione sul dolore di Maria ai piedi della croce e un’invocazione alla Vergine, fonte d’amore, per rendere partecipe i fedeli delle sue sofferenze. Come semple splendida e inquietante, la musica di Part penetra nel cuore di chi la ascolta, inducendo a meditare sulla qualità dell’esistenza e sul significato della vita, ma soprattutto su quello della morte e dell’al di là.

La sonorità soddisfacente in una sala di media grandezza permette di mantenere ferma l’attenzione nel seguire opere non eccessivamente lunghe.

Il teatro alle Tese ha ospitato un programma di musiche d’avanguardia di tre autori di nazionalità diverse. Nell’ampia pedana è ricomparso il PMCE in un organico più ampio – senza il violino, ma con in più il contrabbasso (Massimo Ceccarelli), la celesta ( Giulia Tagliavia), il flauto (Manuel Zurria) e le percussioni (Flavio Tanzi) – assieme al SWR Vokalensemble, l’ensemble vocale della Radio del sud-ovest (SudWest Rundfunk), di base a Stoccarda. L’Ensemble è un doppio coro – 12 voci maschili e 12 femminili - con Joanna Zimmer, soprano solo e Sabine Czinczel, contralto solo, - diretto dall’inizio della stagione 2010-2021 da Yuval Weinberg.

Il primo pezzo, per doppio coro, è stato commissionato a Francesco Filidei (Pisa, 1973) dal SWR Vokalensemble. Costruito sulle architetture linguistiche sperimentali di Nanni Balestrini (1935 – 2019), Tutto in una volta è il titolo dell’ultima poesia della raccolta Ma noi Facciamone un’altra, scritta dal poeta della Neoavanguardia tra il 1964 e il 1968. Il testo è una successione di versi brevissimi fatti di semplici parole di due o tre sillabe che rinviano continuamente un senso compiuto. Nelle parole del compositore, la musica asseconda la fluidità della poesia concatenando serie di accordi che mutano leggermente il colore a ogni passo in un caleidoscopio di immagini frammentato dalle sezioni del coro. Il pubblico ha seguito in silenzio quasi trattenendo il fiato, fino a sciogliere in un applauso convinto la tensione accumulata.

Rothko Chappel per soprano, contralto, coro misto e strumenti (viola, percussioni e celesta) è un lavoro dello statunitense Morton Feldman (1926 – 1987) che si ispira alle grandi tele dell’espressionismo astratto americano, in questo caso l’edificio ottagonale della cappella di Houston o, piuttosto, “meditation room”, spazio destinato alla meditazione, per la quale erano stati commissionati 14 dipinti a Mark Rothko (1903 -1970), pittore di origini lettoni, naturalizzato statunitense, uno dei maggiori esponenti dell’espressionismo astratto, morto suicida solo pochi mesi dopo aver portato a compimento il lavoro. Gli interventi vocali di coro e solisti, privi di parole e ridotti a puro mormorio, sono intonati con la spiritualità delle tele dell’artista. La strumentazione, ridotta, è affidata alla viola, protagonista di un assolo iniziale, punteggiato dagli interventi dei timpani e da quello finale, squisitamente melodico, che conclude il pezzo (circa 25 minuti di durata) con una successione di note ripetute, quasi a sottolineare l’eterno scorrere del tempo, con l’ausilio del vibrafono che ripete poche singole note in una sorta di ad libitum. Un brano, per certi versi onirico, per altri angoscioso, tuttavia pieno di fascino.

Nel brano finale, Timna, al coro misto si affiancano 5 strumenti : flauto, viola, violoncello, contrabbasso e percussioni. Il compositore israeliano Samir Odeh-Tamimi (1970), il cui linguaggio musicale è un’originale combinazione fra avanguardie occidentali e tradizioni musicali arabe, ha immaginato i riti praticati nei templi di Timna, capitale di un antico regno dell’Arabia Meridionale, nell’attuale Yemen, fondato alla fine del VII secolo a.C. Il testo, incomprensibile, scritto dallo stesso Samir, si ispira ad un arabo arcaico derivato dall’antica lingua dei Sumeri. Applausi convinti premiano alla fine la bravura tecnica ed espressiva dei musicisti e dei vocalisti.

Al Teatro alle Tese c’è stato forse il concerto maggiormente ostico all’ascolto, pur se affascinante : la Wolfli-Kantata, iniziata nel 2001 e conclusa nel 2006, del compositore Georges Aperghis (Atene, 1945). Protagonisti Neue Vocalsolisten e SWR Vokalensemble, entrambi di Stoccarda, diretti da Yuval Weinberg.

Divisa in cinque sezioni – la n°1 e la n° 3 per sei solisti vocali; la n°2 e la n°4 per coro misto (36 cantanti disposti orizzontalmente in tre file); la 5 per solisti e coro – la Kantata è stata scritta dall’autore, attratto dalla vicenda umana dell’artista svizzero Adolf Wolfli (1864 – 1930). Costui, dopo un’infanzia drammatica di sofferenza, sviluppò comportamenti sempre più aggressivi e una morbosa attrazione per le ragazze molto giovani, finché dopo l’aggressione ad un bambino venne rinchiuso fino alla morte nel manicomio di Waldau. Ma qui scoprirà che disegnando e scrivendo testi e partiture musicali riesce a placare i frequenti attacchi violenti. Aperghis dà un nome ad ogni sezione, selezionando parole immaginarie create da Wolfli in una lingua che è un impasto di tedesco, dialetto di Berna e fonemi privi di significato (Petrrohl, la n°1 e Vittriool, la n°3); o prendendo in prestito i titoli di due dei cinque volumi da lui scritti (Trauer-Marsch, la n°4 e Von der Wiege bis zum Graab, “dalla culla alla tomba la n°5), mentre la n°2, Die Stellung der Zahlen (la posizione dei numeri), fa riferimento all’abbondanza di numeri, molti anche inventati. Interessante la sezione finale, la più breve, nemmeno cinque minuti, su un totale di cinquantacinque. Solisti e coro intrecciano frasi ed accordi con un perfetto controllo delle dinamiche sonore. Da segnalare che quasi tutti i cantanti utilizzano un diapason, per aiutarsi ad emettere le giuste note, onde non essere travolti dalle differenti notazioni.

Bravi i solisti ad esprimersi con mezzi diversi – effetti, suoni, recitativi e parlati ritmici, con sequenze che variano in velocità, oltre al bel contrasto timbrico tra voci maschili e femminili – e il coro, con le voci che si rincorrono, dando vita ad una musicalità inimmaginabile.

E proprio ai Neue Vocalsolisten è stato assegnato il Leone d’argento per la collaborazione creativa con alcuni tra i più grandi compositori viventi e per lo sviluppo di un repertorio vocale a cappella nell'ambito della scrittura contemporanea. I sette solisti d’eccezione che lo compongono – Johanna Vargas, Suzanne Leitz-Lorey, Truike van der Poel, Daniel Gloger, Martin Nagy, Guillermo Anzorema, Andreas Fischer – hanno formato un ensemble che è anche laboratorio sperimentale sulla drammaturgia vocale, gruppo aperto di discussione sulle tecniche vocali contemporanee e sul significato del canto d’insieme nella sua prospettiva storica e potenzialità futura.

Nella Basilica di San Marco, dall’acustica particolare che percorre lo spazio, la Cappella Marciana, che discende direttamente dall’antica Cappella della Repubblica Serenissima, le cui prime attestazioni sono datate 1316, ha eseguito con rispettosa attenzione i nove numeri musicali nei quali si articolano i Canti liturgici (2005) di Valentin Silvestrov (Kiev, 1937), ispirati ai testi integrali della divina liturgia di San Giovanni Crisostomo, il testo di celebrazione eucaristica comunemente in uso nella Chiesa bizantina. I Canti non sono pensati dall’autore per accompagnare l’ufficio religioso, ma sono soprattutto espressioni di un riflesso interiore che si manifestano attraverso sonorità liriche e immateriali del coro, trattato come insieme di solisti contenuti sul piano espressivo . Nel descrivere il senso dei Canti, l’autore parla di un mondo che canta se stesso.

Dopo aver attraversato tutte le avanguardie, al pari di tanti suoi contemporanei dell’est europeo (da Schnittke a Pärt), Silvestrov è tornato alla sorgente della musica trovando la sua voce originale e raggiungendo così un pubblico sempre più numeroso, come testimoniano i tanti dischi prodotti dalla ECM di Manfred Eicher. “Non scrivo nuova musica. La mia musica è una risposta e un’eco di quello che è già stato scritto”. Come dare nuove parole al passato.

Come al solito, la Cappella è stata fermamente diretta da Marco Gemmani, nominato per questo importante incarico nel 2000, che si conferma uno dei massimi esperti nello studio e nell’approfondimento del repertorio musicale veneziano. Tra le voci corali, caratterizzate da un esemplare affiatamento, hanno eseguito interventi solistici la soprano Maria Clara Maitzegui, la contralto Monica Serretti, il tenore Enrico Imbalzano e il basso Marsin Wyszkowski.

Ritorno alla Sala delle Colonne per ascoltare il recital solistico della cantante e musicista albanese Elina Duni, che avevo avuto modo di apprezzare giusto sei anni fa, in un concerto in quartetto all’auditorium del Centro culturale Candiani. Questa volta, in solitudine, l’artista rischia di più, mostra tutta se stessa e riesce a conquistare il pubblico, facendosi amare e quindi applaudire con calore alla fine di ogni pezzo. Il recital dura 90 minuti, 15 in più di ciò che è segnato nel catalogo, e si intitola “Partir”, dal nome del CD uscito nel 2018 per ECM, nel quale la cantante e musicista affronta temi universali come la partenza, l’esilio, l’abbandono, attingendo al repertorio tradizionale balcanico, yiddish, armeno e del meridione italiano. Nelle note al programma la Duni scrive che questi brani sono l’eco della mia infanzia, del mio esilio e della mia riconciliazione con i due mondi che mi hanno formata.

Tredici sono le canzoni eseguite da Elina, a voce nuda o con uno strumento che si alterna : chitarra , pianoforte, Daf (tamburo a cornice del medio oriente), tamburo a sonagli che ricorda le Tammorre del sud-Italia, dimostrando innegabili doti anche strumentali. Elina si avvia verso il palco proveniendo dalla platea intonando “Kanga e Kubertit”, un canto tradizionale del Kosovo. Indossa un lungo abito azzurro e delle scarpe ballerine che si toglierà di lì a poco. Spesso prima di intonare un brano dice qualcosa : E tu cosa vorrai fare dopo? Partire, ma non è un mestiere. Tu vuoi partire, non importa per dove. Cantiamo nove partenze in nove lingue diverse. Tutto ciò che ci resta è l’ignoto che abbiamo davanti.

“Meu amor”, di Alain Oulman (1928-1990) , artista e autore di canzoni e Josè Carlos Ary Dos Santos (1936-1984), poeta, entrambi portoghesi, è il secondo pezzo, malinconico, come tutte le melodie del Fado.

Segue poi una canzone tradizionale albanese, “Vaj si kenka”, familiare ad Elina, perché suo padre la cantava sempre negli incontri di famiglia, arricchita da una parte senza testo con la tecnica, davvero apprezzabile, dello Scat. Particolare e densa di afflato “Lamma Bada Yatathanna”, melodia arabeggiante di Muhammad Abd al Rahim al Masloub, in cui Elina si accompagna soltanto con il Daf, percuotendolo e traendone suoni sfregando la pelle.

Segue “Amara Terra mia”, di Domenico Modugno ed Enrica Bonaccorti, tristissima e dolente canzone, che narra il dolore di chi sta per emigrare ma non vorrebbe essere costretto a farlo. Chi non è più giovanissimo, la ricorderà, in quanto sigla di uno sceneggiato RAI, quando gli apparecchi diffondevano un nitido bianco e nero, senza subire interruzioni di sorta.

Un canto tradizionale albanese dalla Macedonia, eseguito con il tamburo a sonagli, “Ani kaj lulije”, ha un andamento danzante e viene arricchito da uno Scat arrembante. Un altro brano tradizionale del Kosovo, triste e melodico, suonato al pianoforte, precede il dolce e malinconico “Baresha”, che potrebbe ricordare qualche melodia di Keith Jarrett. “Oyfn Veg” di Philip Laskowsky e Itzik Manger (1901-1969), poeta ebreo di origini austro-ungariche, ha una malinconica melodia con un piacevole Scat emesso da Elina sincronicamente alle note del pianoforte. Un blues alla chitarra, scritto nel 1932 da Ann Ronell, divenuto uno standard jazzistico , “Willow Weep for me”, precede “Schonster Abendstern” ,canto tradizionale della Svizzera, il Paese dove Elina si è trasferita a 10 anni. Una volta terminato, Elina passa al pianoforte per un bel pezzo conclusivo. Intona molto, molto lentamente, rendendolo ancora più straziante, “Amore che vieni, amore che vai”, di Fabrizio De Andrè e tocca il cuore del pubblico che le tributa un lungo applauso.

Si arriva così al bis, “Bukuroshe”, un brano tradizionale albanese, che lei definisce l’inno ufficiale del Paese, molto ritmico, accompagnato dalla chitarra, da una percussione sulla cassa armonica, in cui le parole si alternano allo Scat e che termina con un lungo acuto.

 




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