mercoledì 25 settembre 2019 - Giovanni Greto

Charles Lloyd “Kindred Spirits” al Blue Note di Tokyo

Dopo l’esibizione alla XVIII^ edizione del Tokyo Jazz Festival, Charles Lloyd si è trasferito al vicino Blue Note per dar vita a quattro set in due giorni, secondo la consuetudine del rinomato locale giapponese.

In scaletta ci sono solamente quattro brani che darebbero vita già a un set unico di 76 minuti, a dimostrazione di una dilatazione dei pezzi quando sono suonati dal vivo e l’improvvisazione, se felice, induce i musicisti a prolungare il loro solo.

Charles Lloyd (Memphis, Tennesee, 15 marzo 1938) non sembra avvertire i sintomi della vecchiaia. Il suono è sempre sicuro. Non c’è ombra di tremolo. Le dinamiche sono eccellenti. Dal gridato si passa al sussurrato, al soffiato, senza fatica. Suona solo il sax tenore e il flauto traverso. Non si è portato il Tarogato né il sax soprano. Ma di che forza interiore è ancora dotato, e quanto desiderio di suonare ancora esterna. Non dice una parola, non presenta nessuno, ma regala due bis che portano il set a raggiungere un tempo complessivo di 115 minuti, quasi due ore quindi, una lunghezza mai verificatasi, presente chi scrive.

“Dream Weaver”, il brano di apertura, che dà il titolo ad un album del 1966, si apre con una lunga introduzione solitaria al sax tenore, che fa pensare a “Crescent” di John Coltrane. C’è molto lirismo, che ad un certo punto acquisisce gli stilemi del Free, per poi indirizzarsi verso un tema facilmente cantabile, grazie anche all’intervento degli ottimi partners : Gerald Clayton (Utrecht, 11 maggio 1974), al pianoforte, già ascoltato nel combo di John Scofield a maggio, sempre al Blue Note e al Padova Jazz Festival lo scorso ottobre; Julian Lage (Santa Rosa, California, 25 dicembre 1987), alla chitarra elettrica; la fedelissima sezione ritmica, vale a dire, Reuben Rogers (Saint Thomas, Isole Vergini, 15 novembre 1974), al contrabbasso ed Eric Harland (Houston, Texas, 8 novembre 1976), alla batteria.

“Of course, of course”, un titolo che risale al 1965, inizia con un’introduzione agguerrita di flauto, che sfocia in un tema esile e swingante, con parecchi stop e susseguenti misure di pausa, riempite da figurazioni di Harland su campanacci posizionati a destra e a sinistra sopra i tamburi e piattini e sonagliere lignee e metalliche sopra l’Hi-hat. C’è spazio per un solo di chitarra, in modo da capire il tipo di sonorità di Lage – abbastanza cristallina e con poco o assente utilizzo delle consuete “scatolette”, accese e spente dai piedi del musicista – ed uno di pianoforte, prima del rientro di Lloyd che porterà al tema finale.

Lloyd riprende il sax tenore per “The Song my Lady sings”, che però inizia con un solo di piano. Entrano poi le spazzole di Harland, il profondo basso di Rogers ed infine il tenore. Harland, che suona una batteria giapponese “Sakae”, di Osaka, ha stoppato il timpano, mentre certe figurazioni che scompongono il 4/4 potrebbero ricordare Elvin Jones, dal quale il giovane musicista rimase affascinato nel suo avvicinamento al Jazz.

E proprio alla coppia Coltrane/Jones si ispirano Lloyd e Hartland quando iniziano da soli a dialogare nel brano conclusivo “Tone Poem”, che poi si indirizza verso un Latin-Jazz che guarda al Calypso, anche se Hartland preferisce sempre agire su una base Funk. Osservo che per tutta la durata del concerto non toglierà mai la cordiera dello Snare. Si susseguono, concatenati fra loro, i solo di pianoforte e chitarra, una Fender Telecaster, la quale, ad un certo punto, sfumerà per lasciar spazio ad un solo di batteria. Da segnalare, nella composizione, l’abilità del quintetto a salire e scendere di suono con perfetto tempismo.

Il primo bis, “How can I tell you”, è una Ballad ad ampio respiro, mentre in “Ay Amor” Harland utilizza per la prima volta i mallets (i battenti con la punta feltrata) e il tamborin (tamburello senza pelle dotato di sonagli). Lloyd sembra non voler concludere il brano – durerà venti minuti – e verso la fine si china, danzando quasi, alternando suoni morbidi e striduli. Quando “Ay Amor” accenna a una simil Bossanova, Lloyd abbandona il sax tenore per agguantare un po’ di Shakers, e li scuote con movimenti ampi e veloci, finché i suoi partners si fanno da parte, contemporaneamente alle luci che illuminano soltanto lui, capace di improvvisare, estraniandosi,con piccoli strumenti a percussione dalla sonarità delicata e frusciante.

Foto: YUKA YAMAJI




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