giovedì 7 luglio 2022 - UAAR - A ragion veduta

Cervello, genere e sessualità

Il funzionamento del cervello umano è il complesso risultato di fattori biologici e ambientali. Le neuroscienze si interrogano sulle differenze tra individui di sesso maschile e femminile, senza dimenticare le persone transgender. Qual è lo stato dell’arte della ricerca? Ce ne parla il medico e ricercatore Tommaso Piccoli sul numero 6/21 di Nessun Dogma

La complessità del cervello umano si riflette nella grande variabilità del comportamento e delle personalità individuali ed è il risultato di fattori squisitamente biologici (il patrimonio genetico di ognuno di noi e ciò che esso comporta in termini metabolici) e ambientali, quali le esperienze accumulate a partire dal periodo di vita intrauterina e, successivamente, per tutto il decorso della nostra esistenza.

È ormai noto che i singoli neuroni e i circuiti cerebrali da essi formati rispondano a stimoli di vario tipo (quali la lettura di un libro, un rapporto sentimentale, un’emozione, per fare qualche esempio) adottando modifiche che si riflettono a livello molecolare, cellulare e di interazioni tra cellule, con quel fenomeno noto come plasticità neuronale. Un aspetto molto interessante è lo studio delle eventuali differenze esistenti tra i cervelli maschili e femminili.

Lo stimolo che muove questo interesse è la possibilità di comprendere sia i diversi comportamenti dei soggetti di sesso maschile e di quelli di sesso femminile, sia i meccanismi che sono alla base di alcune malattie in cui il sesso biologico rappresenta un fattore di rischio. Si tratta di patologie come la sclerosi multipla e la malattia di Alzheimer, più frequenti nei soggetti di sesso femminile, o la malattia di Parkinson e la sclerosi laterale amiotrofica, più frequenti nei soggetti di sesso maschile.

Queste sono patologie complesse, che non hanno un’unica causa riconosciuta, ma che sembrano essere il risultato dell’equilibrio tra fattori di rischio (patologie concomitanti quali l’ipertensione arteriosa o il diabete, e abitudini di vita quali il fumo o un’alimentazione non corretta) e fattori protettivi (alimentazione sana, attività fisica e intellettuale) che agiscono su un assetto genetico che può a sua volta predisporre o proteggere dalla malattia.

Prendiamo ad esempio la malattia di Alzheimer: questa è più frequente nelle donne rispetto agli uomini con un rapporto di 3 a 2. Chiarire il motivo di questa differenza può aggiungere qualche tassello alla comprensione della malattia stessa e favorirne la prevenzione. I fattori di rischio non giustificano la differenza, dato che l’ipertensione, il diabete e il fumo sono più frequenti nel sesso maschile, mentre abitudini di vita protettive, quali l’attività fisica e intellettuale, sono in generale svolti più frequentemente dai soggetti di sesso maschile.

Uno degli aspetti maggiormente presi in considerazione è il diverso assetto ormonale. In effetti, è stato dimostrato che: le donne che vanno in menopausa più precocemente sono maggiormente esposte al rischio di malattia; se la menopausa non è naturale (chirurgica) il rischio è addirittura raddoppiato; ma anche che se queste sono trattate con terapia ormonale sostitutiva, la differenza di rischio si annulla.

Studi su colture cellulari hanno inoltre mostrato come gli ormoni sessuali siano in grado di modificare la struttura delle cellule e possano avere un ruolo determinante nella morte cellulare; mentre studi su modelli animali ne hanno documentato un’influenza sullo sviluppo e la migrazione dei neuroni nelle fasi molto precoci dello sviluppo (vita intrauterina), ma anche durante tutto il resto della vita.

A tal proposito, una serie di ricerche condotte su animali hanno dato risultati molto interessanti. Nel cervello dei mammiferi, una delle aree filogeneticamente più antiche, chiamata nucleo sessualmente dimorfico (Nsd), che sembra avere un ruolo importante nella regolazione del comportamento sessuale, è stato trovato essere più voluminoso nei soggetti di sesso maschile rispetto a quelli di sesso femminile in tutte le specie studiate, compresa quella umana.

Il ruolo del testosterone nella regolazione del volume di questa struttura è sostenuto dall’evidenza che le femmine di ratto, trattate con testosterone, ne mostrano un incremento, mentre i maschi castrati un decremento. È chiaro che, soprattutto nella specie umana, l’esperienza, l’ambiente familiare, l’orientamento comportamentale indotto dai familiari durante l’infanzia, hanno un ruolo importante sui comportamenti che verranno assunti durante tutto il resto della vita, anche per l’effetto che producono sulla struttura e sulla funzione del cervello, tramite la già menzionata plasticità neuronale.

Tuttavia, sembra altrettanto chiaro che l’esposizione prenatale al testosterone abbia un ruolo molto importante nell’orientamento dei giochi del bambino: soggetti di sesso femminile, affetti da una rara malattia genetica che li espone a una elevata stimolazione di testosterone prima della nascita, hanno una preferenza spontanea a scegliere giochi tipicamente maschili, mentre soggetti di sesso maschile, con una sindrome che rende le loro cellule non responsive al testosterone, preferiranno giochi tipicamente femminili.

Alcune tecniche avanzate di risonanza magnetica consentono oggi di misurare con precisione millimetrica le dimensioni delle strutture encefaliche, mentre altre sono in grado di mostrarci il funzionamento del cervello in vivo. Queste sono state utilizzate per il confronto tra cervello maschile e femminile e i risultati hanno confermato quanto trovato in vecchi studi effettuati su reperti anatomici, ovvero che il cervello maschile ha un volume maggiore rispetto a quello femminile di circa l’11%.

Questo dato è facilmente spiegabile se teniamo conto del fatto che, mediamente, il corpo maschile è più grande di quello femminile. Più interessante è invece l’evidenza che specifiche regioni cerebrali mostrano differenze tra i due sessi, a volte a favore di uno, altre a favore dell’altro.

Una piccola struttura, chiamata “nucleo del letto della stria terminalis”, situata nelle zone più profonde del cervello e che ha funzioni quali il controllo della risposta alle minacce, del comportamento alimentare e di quello sessuale, è due volte più voluminosa nei maschi e contiene il doppio dei neuroni, mentre la stessa struttura, misurata in soggetti transgender MtF (da maschio a femmina) ha dimensioni simili a quelle femminili.

Nel 2010 Cordelia Fine, nel suo libro Delusions of Gender: How Our Minds, Society, and Neurosexism Create Difference, conia il termine neurosessismo per indicare l’atteggiamento di alcuni ricercatori che studiano e sostengono le differenze anatomiche e funzionali tra i cervelli dei due sessi del genere umano. Nello stesso anno si costituisce una rete di intellettuali di varia estrazione, denominata “The NeuroGenderings Network” che, in occasione della loro prima conferenza, propongono il termine neurofemminismo per indicare la necessità di una ricerca maggiormente attenta agli aspetti sociali e ambientali, ritenuti i maggiori responsabili delle differenze tra sessi trovate in molti studi.

Più in dettaglio, il neurofemminismo si prefigge «di identificare e mettere in discussione le ipotesi preconcette riguardo al sesso e al genere, quali l’equazione femminilità = passività, il fatto che i comportamenti tipicamente maschili siano considerati come “normativi” (e quindi da prendere come riferimento), la nozione secondo cui il sesso biologico determini i comportamenti sociali […] e che sesso e genere possano indirizzare lo sviluppo fisico e il comportamento esclusivamente verso il dimorfismo sessuale» (tradotto liberamente da Bryant, 2019).

La critica è rivolta prevalentemente nei confronti degli aspetti metodologici delle ricerche prodotte: queste sono, per lo più, condotte su un piccolo campione di soggetti (e questo rende statisticamente meno forti e riproducibili i risultati, a causa della grande variabilità interindividuale di anatomia e fisiologia del cervello umano), in contesti sperimentali (pertanto artificiali e non naturali) e non tengono conto dei processi socio-culturali che hanno condotto l’individuo studiato ad avere quel tipo di funzionamento.

Inoltre, la categorizzazione dicotomica maschio/femmina è artificiosa e non tiene conto, da un lato, della sovrapposizione di aspetti comportamentali tra i due sessi, dall’altro, di realtà in cui sesso e genere non corrispondono in modo categorico e dicotomico (ad esempio, nel transgenderismo). Sulla scorta di queste osservazioni, Bryant fornisce una serie di suggerimenti metodologici con lo scopo di ottenere delle ricerche che siano condotte con il maggior rigore possibile e che non risentano di quei preconcetti che sono alla base di risultati falsati.

Le osservazioni fin qui riportate sono teoricamente ineccepibili ma meritano, a mio avviso, alcuni commenti. Come già detto, che il funzionamento del cervello umano sia il risultato dell’azione combinata tra genetica e influenze ambientali è fuor di dubbio. Come è fuor di dubbio che ci sia, da parte dei genitori, una forte tendenza a orientare i comportamenti dei bambini secondo stereotipi preconcetti. Tutto ciò può, senz’altro, orientare lo sviluppo di aree e circuiti cerebrali, così come di comportamenti sessualmente orientati.

Questo ragionamento non può però essere esteso del tutto a modelli animali dove, come già detto prima, si trovano differenze tra maschi e femmine. Il ragionamento per cui se l’animale è sottoposto a stimoli stressanti le differenze si riducono, depone a favore dell’influenza ambientale sulle strutture nervose, ma non risponde alla domanda sul perché ci siano differenze di base. Inoltre, le evidenze dell’azione degli ormoni sessuali, sia su modelli in vitro sia su modelli animali, oltre che su condizioni patologiche in cui gli ormoni prodotti in epoca prenatale hanno un’influenza sulle preferenze dei giochi, credo che depongano in modo convincente verso una interpretazione che non possa escludere le componenti “biologiche”.

Il problema della numerosità del campione è molto frequente in studi di questo tipo. Soprattutto quando si vogliano studiare questioni così complesse, quali il funzionamento del cervello umano, la variabilità individuale è tale che il rischio di falsi positivi è sempre concreto. Questo è il motivo per cui il ricercatore ha bisogno di categorizzare i gruppi che intende confrontare e di cercare di isolare i parametri da studiare per limitare al massimo influenze di variabili non controllate.

Questo problema metodologico riguarda qualunque categoria di soggetti: quando si fa uno studio su funzioni motorie o cognitive si tende ad arruolare esclusivamente soggetti destrimani oppure un ugual numero di destrimani e mancini, pur sapendo che esistono condizioni in cui la preferenza manuale non è così netta.

Una strategia per ridurre la variabilità è quella di incrementare il campione studiato. A tal proposito esistono esempi di studi che tentano di superare tale limite. Madhura Ingalhalikar, nel 2014, studia le connessioni anatomiche di un migliaio di soggetti giovani trovando che i cervelli dei soggetti di sesso femminile hanno connessioni prevalentemente tra i due emisferi cerebrali, mentre soggetti di sesso maschile hanno la maggior parte delle connessioni nel contesto dei singoli emisferi cerebrali. Cosa significhi questo in termini comportamentali non è dimostrato, ma il dato sembra chiaro.

Nello stesso anno, Amber Ruigrok, una ricercatrice impegnata nella comprensione delle differenze sesso-specifiche di aree cerebrali coinvolte nell’autismo, dimostra, con una importante revisione della letteratura scientifica, che proprio quelle aree correlate a patologie neuropsichiatriche in cui il sesso costituisce un fattore di rischio, hanno strutture differenti tra maschi e femmine. Ancora, Ashley Hill ha condotto una meta-analisi analizzando i dati ricavati da 59 articoli pubblicati, per un totale di 901 soggetti studiati, tutti sottoposti a un compito di memoria, trovando che, a parità di compito cognitivo, si attivano network cerebrali in modo sesso-specifico.

La questione della visione dicotomica dei due sessi riguarda anche il fenomeno del “transgenderismo”, nei confronti del quale sta crescendo un discreto interesse scientifico. Non è ancora chiaro se e in che misura ci siano differenze strutturali e/o funzionali tra i cervelli dei transgender e dei cisgender o tra i cervelli dei transgender MtF e FtM. Ciò che emerge da recenti studi è che i circuiti cerebrali deputati rispettivamente ai pensieri intimi e alla percezione del proprio corpo mostrano, nei soggetti transgender, una forza di connessione inferiore rispetto ai soggetti cisgender, mentre un altro studio dimostra che il trattamento ormonale può influenzare la connettività di specifiche regioni, rendendo il cervello dei soggetti FtM trattati più simile a quello dei cisgender di sesso maschile. Ancora una volta emerge il ruolo modulatore degli ormoni sessuali sui circuiti cerebrali.

In sintesi, i dati a nostra disposizione sembrano mostrare che effettivamente esistano caratteristiche morfologiche e funzionali sesso-specifiche. Che le influenze ambientali abbiano un ruolo importante è ampiamente dimostrato, ma ciò non esclude che queste lavorino su una base biologica innata (altrettanto dimostrata). Se alcuni ricercatori non riescono ad avere una visione oggettiva, ottenendo dati non veritieri, questi verranno sconfessati dal progredire delle conoscenze, come è sempre accaduto nella storia della ricerca scientifica; ma questo non può essere generalizzato.

Maschi e femmine di tutte le specie hanno caratteristiche morfologiche e comportamentali distintive e riconoscibili e negare le differenze significa rischiare di perdere informazioni utili alla comprensione della fisiologia ma, soprattutto, di non identificare elementi importanti potenzialmente utili per la prevenzione di malattie molto frequenti nell’essere umano.

Ciò non ha nulla a che fare con la sacrosanta lotta per la parità dei diritti, che anche i maschi di buon senso dovrebbero intraprendere quotidianamente.

Tommaso Piccoli

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