martedì 17 ottobre 2017 - Aldo Giannuli

Catalogna: qualche riflessione sulle cause remote dei fatti

La questione catalana sembra essersi impantanata, ma emergono i primi segni di cedimento del fronte indipendentista. Non sappiamo come andrà a finire, ma l’episodio ha comunque una sua gravità su cui conviene spendere qualche parola per capire come siamo arrivati a questa situazione e che lezioni trarne.

Personalmente sono un fautore convinto del diritto all’autodeterminazione dei popoli, quindi sto dalla parte dei catalani e della loro rivendicazione all’indipendenza ma la cosa è più complicata di quel che la semplice formula dell’autodeterminazione vorrebbe perché ha un problema non sciolto alla base: chi è il soggetto titolare di questo diritto e come delimitarlo. Pensavo al fatto di essere sempre stato ostile alle velleità secessioniste della Lega, perché non riconoscevo (e non riconosco) l’esistenza di un “Popolo padano” che esisteva solo nella mente di Bossi. E ciò, sia perché non c’è alcuna ragione storica o culturale per distinguere un popolo lombardo o veneto da un popolo toscano, laziale o campano (l’esistenza di stati preunitari non è affatto una ragione per farlo), sia perché ormai nel nord ci sono moltissimi meridionali che, con gli oriundi costituiscono la maggioranza degli abitanti di queste regioni), sia perché nell’improbabile entità padana ci sono diverse minoranze nazionali (valdostani, altoatesini, friulani e comunità più piccole come ladini, occitani ecc) che sono culturalmente, linguisticamente, storicamente altro da piemontesi, veneti e lombardi.

Per cui quella della Padania era solo una patacca priva di qualsiasi dignità politica o culturale. Ma, allora, perché uno spagnolo dovrebbe pensarla diversamente a proposito della Catalogna? Certo il caso catalano è molto più definito ed il popolo catalano è una entità decisamente più omogenea e storicamente fondata del popolo padano che non esiste (e, per la verità, non ha mai espresso alcuna volontà secessionista se non nelle frange più esagitate della Lega). Ma questo potrebbe valere anche per i baschi, per gli andalusi o per i galiziani che hanno una identificabilità più o meno netta (nettissima quella dei baschi, meno quella degli altri) ed allora, dove è la soglia oltre la quale possiamo identificare un popolo-nazione demarcato rispetto agli altri? Ad applicare la formula di Pasquale Stanislao Mancini (comunità di lingua, di religione, di cultura, di storia…) nessuno degli stati nazionali esistenti risulterebbe conforme ad essa e tantomeno nel tempo della globalizzazione basato su un intenso nomadismo.

Peraltro, la costruzione della Ue ha indebolito fortemente sia i poteri che la legittimazione degli stati nazionali, risvegliando antichi separatismi più o meno dormienti (ma quello catalano non è stato mai davvero dormiente). Questo ha messo a nudo tutte le debolezze della costruzione dei vari stati nazionali. In particolare, la Spagna non è mai esistita se non come dominio brutale della Castiglia su tutte le altre parti del paese. Una costruzione priva di ogni reale consenso e giustificata solo da un disegno imperiale, peraltro naufragato da secoli e sopravvissuto solo nell’immaginario legato ad una delle monarchie più squalificate d’Europa. E’ sintomatico che le spinte indipendentiste si siano attenuate durante le due brevi parentesi repubblicane (1873-74 e 1931-39) quando si posero le basi di un ordinamento di tipo para federalista.

Al contrario, il centralismo monarchico ha sempre ravvivato le spinte alla separazione. Certo, qualcuno potrà dire che anche lo stato italiano è nato come prodotto dell’espansionismo sabaudo e questo è vero, ma ho l’impressione che la storiografia democratica e di sinistra (che è chi ha proposto questa lettura del Risorgimento) abbia un po’ calcato la mano su questo aspetto e proprio la comparazione con il caso spagnolo lo dimostra.

Il Risorgimento ebbe anche una componente democratica e repubblicana che venne battuta dal “partito moderato” di cui dice Gramsci, ma che comunque ebbe un ruolo che ha caratterizzato in parte lo stato italiano, mentre, nel caso spagnolo, non c’è traccia di questa spinta dal basso (peraltro siamo nel XV secolo) e tutto è stato deciso solo come conquista castigliana.

In secondo luogo, la monarchia sabauda fu identificata con la sua regione di provenienza solo nel primissimo periodo (non è un caso lo spostamento della capitale a Firenze nel 1866 e poi a Roma cinque anni dopo). Ed il centralismo italiano fu sempre un centralismo imperfetto, nel quale hanno giocato un ruolo i mutevoli equilibri fra i diversi “partiti regionali”. Ne è conseguito che il “Partito moderato” ha sempre avuto caratteristiche più sociali (blocco delle classi possidenti, monarchia, esercito, burocrazia) che territoriali: l’esercito restava a lungo a preminenza piemontese ma la burocrazia divenne ben presto interregionale ed a centralismo romano, mentre le classi possidenti avevano la loro capitale nel sud (quelle agrarie) ed in Lombardia. Toscana e Piemonte (quelle industriali e finanziarie). Al contrario, in Spagna blocco sociale dominante e Castiglia sono un tutt’uno che attizza gli odii regionali.

Ma, soprattutto, l’Italia ha una storia di tipo inclusivo che ha spesso mediato (anche troppo), mentre la Spagna viene da una storia terribile di stermini (dei moriscos, dei marrani ebrei e da ultimo della guerra civile) che ben raramente ha incluso e mediato. Si pensi al franchismo che, contro l’immagine corrente, fu un fascismo non più moderato ma più feroce del nazismo che colpì dirigenti e parte degli attivisti socialdemocratici e comunisti, ma cercò (ed in buona parte riuscì) a riassorbire la base socialdemocratica e comunista nel suo sistema di consenso. Nei campi di sterminio finirono ebrei, omosessuali, zingari, ma solo in minima parte comunisti e socialisti.

Vice versa, il franchismo procedette all’insegna della “limpieza”, pulizia non etnica ma politica ed ideologica. La ferocia delle esecuzioni disgustò persino Galeazzo Ciano ed, ancora dopo la fine della guerra civile, il franchismo continuò per quadi 10 anni con la repressione il cui conto finale è ignoto ma che alcuni vorrebbero ammonti a 400.000 vittime. Cifra forse esagerata, ma anche se esse sono state la metà o un quarto, sufficiente a definire la guerra civile spagnola come la più feroce della storia moderna d’Europa.

E questo ha un peso anche sul presente perché la storia, anche quella più lontana, non è mai priva di conseguenze ed a maggior ragione nel caso di un paese che non ha mai fatto i conti con il suo passato dittatoriale.

In questa situazione arriva la globalizzazione, che dice che gli stati nazionali non hanno più senso ed in Europa questo si accompagna ad uno sconclusionato disegno di unità continentale che, in realtà è l’alleanza dei sistemi nazionali di potere nella loro staticità e trasferisce poteri ad un centro tecnocratico. E’ ovvio che questo si traduce in una delegittimazione degli stati nazionali, in una messa a nudo delle illegittimità dei loro sistemi di potere e si producono irrefrenabili spinte centrifughe.

E queste sono le premesse più lontane, nel prossimo articolo verremo al quelle più vicine.




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