Cassazione, assolto don Lodeserto: le diocesi non devono rendere conto a nessuno
Dopo anni di avventure giudiziarie arriva una sconcertante assoluzione per don Cesare Lodeserto, parroco salentino gestore del centro immigrati "Regina Pacis" di San Foca a Melendugno (LE), accusato di aver distratto miliardi di lire che erano stati erogati dalle istituzioni pubbliche. La Cassazione ha infatti recentemente ribaltato la condanna a quattro anni per peculato comminata dalla Corte d’appello di Lecce nel 2011. Secondo la Corte non sussiste infatti il reato di peculato, perché la convenzione sottoscritta tra prefettura e arcidiocesi che prevedeva l’erogazione di fondi pubblici non comportava alcun obbligo di rendicontazione.
Un personaggio, Lodeserto, coinvolto in una serie di imbarazzanti situazioni e la cui gestione del centro ha destato roventi polemiche. Già arrestato nel 2005 con l’accusa di maltrattamenti sugli stranieri che vivevano nella sua struttura, è dallo stesso anno indagato insieme ad altri per la gestione poco trasparente dei fondi. La Corte dei Conti nel 2009 lo condanna a rimborsare circa 133mila euro, sentenza di cui si attende l’appello.
Viene condannato, nel 2007, a 5 anni e 4 mesi con interdizione perpetua dai pubblici uffici per calunnia, estorsione e sequestro di persona nei confronti delle persone alloggiate nel centro. Pena mai scontata perché l’ex arcivescovo di Lecce, Cosmo Francesco Ruppi, lo aveva mandato in missione fidei donum a Chisinau, in Moldavia, dove esistono altri centri legati al "Regina Pacis". Intanto la condanna è stata confermata in appello nel luglio del 2012. Nel 2010 arriva la condanna per truffa di un anno e quattro mesi per truffa, poiché aveva preso 230mila euro per attività — mai svolte — a favore di donne uscite dallo sfruttamento della prostituzione, reato in parte prescritto.
La gestione allegra di don Lodeserto è indicativa del malcostume e delle ambiguità che genera una sussidiarietà malata e orientata in senso confessionale, dove servizi che dovrebbero essere assunti dallo Stato o appaltati secondo direttive più stringenti finiscono in mano a persone potenti e a carrozzoni con modalità che favoriscono sprechi, malagestione e impunità. Dato che si tratta di soldi dei cittadini, usati (in teoria) per finalità sociali, appare francamente assurdo che non sia previsto l’obbligo di rendicontarne l’utilizzo. In certi casi si rischia solo il pagamento di eventuali penali. Per una cifra immensa: tra il 1997 e il 1999 lo Stato ha infatti erogato più di 11 miliardi delle vecchie lire per il Cpt diretto dal prete.
Sulla base dell’accordo con la prefettura, al centro veniva garantito un fisso al giorno per ogni migrante ospitato, senza che la struttura fosse tenuta a rendicontare, e nemmeno a restituire l’avanzo di gestione. Denaro interamente girato dallo stato a un ente religioso a fondo perduto, secondo l’accusa, Lodeserto “si era appropriato mediante fittizie operazioni contabili di 3 miliardi e 929 milioni versati su di un conto bancario personale” nonché “di altri 3 miliardi e 136 milioni in parte trasferiti su altri conti a lui intestati e nel resto corrisposte a vari soggetti, o destinati a consumi personali”.
La stessa Cassazione ha suggerito che sarebbe stato preferibile chiamare in causa Lodeserto per appropriazione indebita aggravata, a danno dell’ente ecclesiastico. Ma ormai quel che è fatto è fatto, con il denaro “entrato nel patrimonio della curia vescovile di Lecce che, a mezzo dei suoi esponenti a ciò incaricati, tra cui certamente il Lodeseto, poteva disporne senza rendere più conto all’amministrazione pubblica”. L’ennesimo regalo, tra i più imbarazzanti, dello Stato alla Chiesa cattolica, che può rientrare tra i costi della Chiesa a carico di tutti i cittadini italiani.
Siamo di fronte all’ennesimo lampante caso di favor religionis da parte delle istituzioni, dove la mancanza di criteri certi e di controlli seri torna a vantaggio della Chiesa cattolica e delle strutture che gravitano attorno a essa. Un andazzo che, non sorprende, porta a transazioni poco trasparenti, se non a veri e propri abusi, senza alcuna garanzia di efficienza.
Anche per questo il pregiudizio pro-religione che ammanta la retorica della sussidiarietà appare immotivato. E sarebbe proprio il caso di darci un taglio, specie in un periodo di crisi. In un paese civile non si attenderebbe un minuto. L’Italia, è sempre più evidente, non lo è proprio.