giovedì 10 settembre 2015 - Carcere Verità

Carcere e abusi: quando il silenzio passa anche dai medici

Gli abusi in carcere spesso restano nascosti, per solidarietà tra agenti, per spirito di corpo, per la poca voglia di infilarsi nei guai. Purtroppo a volte capita che questi silenzi complici non arrivino solo da chi indossa la divisa, ma anche da chi ha il “camice”… perché, pur non condividendo ciò che si vede, si preferisce stare dalla parte del più forte, per comodità, per quieto vivere. Ma non bisogna mai dare per scontato chi sia “il più forte”…

Poi è uscito l’articolo sul “L’Espresso” e la storia delle registrazioni è diventata di pubblico dominio, così ho cominciato a parlare di lui, tra una cosa e l’altra…mi distraggo, perché la rabbia che provo pensando a quanto sia medievale il carcere, è talmente forte che mi spinge a scrivere sempre di lui e della sua disumanità, trascurando proprio Rachid.

Ma adesso, per un periodo, sarà lui il soggetto principale (o coautore) dei miei articoli: ho deciso di pubblicare il materiale che mi ha lasciato e che, purtroppo, continua a mandarmi (non tracce audio, ma querele, lettere,…)

Per farlo, voglio partire da una registrazione storica, che non avevo ancora trasformato in video, ma ora c’è e la propongo.

Documenta il colloquio di “ingresso in istituto”, tra Rachid e la psicologa: un “benvenuto”, arrivato con un certo ritardo, dato che questo primo (e forse unico) incontro tra i due, avvenne cinque mesi dopo il reale arrivo di Rachid a Parma.

La psicologa, come gli altri sanitari del carcere, sono assunti dal ministero della salute e non dal ministero della giustizia. Ovvero sono i colleghi dei medici che incontriamo in ospedale e che curano noi e le nostre famiglie. A volte sono proprio loro, come nel caso di questa dottoressa.

Ed è triste pensare che alcuni dei sanitari, a cui affidiamo noi stessi e i nostri cari, riescano, in una condizione particolare come quella del carcere, ad alienare la propria umanità e provare indifferenza, di fronte al dolore altrui.

Per motivare il ritardo con cui venne effettuato il colloquio, la dottoressa dice a Rachid di non averlo chiamato prima, perché già seguito dallo psichiatra (quello dell’altra traccia). Come a dire: “Non ti bastano gli psicofarmaci che ti prescrive il collega, per convivere con i tuoi problemi?”

Ma Rachid quelle medicine non le ha mai prese e non gli manca la lucidità per risponderle che uno psicologo non è come lo psichiatra: col primo si può parlare, mettere a fuoco i problemi e magari risolverli.

E i problemi glieli dice tutti.

I suoi soldi: dai 250€ che aveva a Napoli, si ritrovò a Parma con soli 25€ e le botte che prese, quando insistette nel dire che stavano sbagliando.

La notte quando morì un detenuto, senza che nessuno degli agenti in turno, si decidesse a chiamare il medico.

E le altre botte, quando rinfacciò per mesi ai poliziotti, che lo avevano lasciato morire.

La psicologa capisce, ammette che le violenze avvengono. Ammette e condivide: il carcere non serve a niente e andrebbe abolito. Non rieduca, al limite incattivisce.

Ma è così e non si può fare niente.

E la diagnosi e cura? Sono le ultime parole del video:

“NON E’ COSI’ FACILE. PER QUESTO LE HO SUGGERITO DI RINUNCIARE A COMBATTERE. PERCHE’ COMBATTERE QUA DENTRO COMPORTA USARE TANTISSIME ENERGIE, SFINIRSI E SCONTRARSI CONTRO DEI MURI. PICCHIARE LA TESTA CONTRO IL MURO. POI SI SFONDA IL MURO E CI SI TROVA NELLA CELLA ACCANTO, PER USARE UNA METAFORA. NON SI RISOLVE NIENTE. SI SPRECANO SOLO ENERGIE, CI SI FA MALE, CI SI FRUSTRA, CI SI STANCA, CI SI INCAZZA E NON SI RISOLVE MAI NIENTE. ALLORA E’ MEGLIO ASPETTARE E SOPPORTARE. PERCHE’ NON C’E’ USCITA”

Insomma: “in carcere, se vedi un male, fatti i fatti tuoi!”

Buona visione…

 

Foto: AlexVan /Pixabay




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