mercoledì 10 agosto 2016 - Antonella Policastrese

Capocolonna: tra mito e realtà

Mettiamo che Capocolonna diventi “Luogo del cuore 2016” e che il Fai spenda dei soldi per la sua valorizzazione; aggiungiamo i 900 mila euro previsti dalla legge di stabilità destinati agli interventi di restauro nel parco archeologico annunciati dal sottosegretario Dorina Bianchi. Un’altra milionata di euro deve essere spesa per l’efficientamento energetico del Museo sul Lacinio; qualche altro soldo potrebbe essere decurtato dai 67 milioni che servono a riportare alla luce l’Antica Kroton e investito sul promontorio sacro. Insomma, si tratterebbe di bei quattrini da mettere su Capocolonna; di cifre comunque ben lontane da quelle impiegate per la realizzazione del Parco archeologico e del Museo, inaugurati dieci anni addietro e che comunque lasciarono il sito archeologico crotonese allo stato attuale di incompiuta e senza che si ponesse la parola fine al regime di enfiteusi aggratis e interessi privati- presenti e futuri.

Perché Capocolonna è davvero un bel luogo, dove del suo passato affiorano, semi sepolti nella terra, sparuti lembi. A visitarli di notte, quei luoghi, è come se si avvertisse nitido il respiro di un cavallo sepolto che nessuno aiuta a liberarsi dalla terribile morsa. Però quello è affanno più che respiro; rantolo ancorché sussurro di millenaria esistenza in vita.

In sostanza, Capocolonna va scavata, da cima a fondo; centimetro per centimetro e non un solo chiodo va piantato sul sacro suolo della storia; non un solo cucchiaio di cemento va versato su tutto il promontorio, da Capo Alfiere a Torre Nao. Il ricordo dell’estate 1987 non è poi così lontano, quando a scavare ci provarono la soprintendente Elena Lattanzi e il direttore Roberto Spadea dell’Ufficio scavi (prima che tale presidio fosse trasferito a Roccelletta di Borgia in cambio di un posto per un archeologo crotonese). Scavarono in un raggio di pochi metri tra la colonna e il muro di cinta di “Casa Albani” e fu lì che – “…Comparvero altri blocchi di calcarenite che si aggiunsero a quelli già scoperti. Fu possibile così liberare una sorta di basamento quadrato che non si prestava ancora ad alcuna interpretazione…Aumentava contemporaneamente il numero del materiale votivo, tipico del santuario”.  

Stava dunque per venire alla luce il cosiddetto “Edifico B” e senza che l’iniziativa di scavo fosse stata preceduta da saggi e prospezioni; bastò l’osservazione a occhio nudo del suolo . Così prosegue il diario di quei giorni dell’estate 1987: “…Ci trovavamo al centro di un edificio del quale si cominciavano a percepire i muri, disposti a formare un lungo rettangolo (alla fine le dimensioni saranno mt 19,70 di lunghezza e mt 9,50 di larghezza…” E nel perimetro interno di quei muri, la mattina del 14 luglio 1987, un collaboratore di Spadea aveva rinvenuto un oggetto luccicante e lo aveva coperto con un secchio; il racconto del direttore dell’Ufficio scavi così prosegue: “Erano circa le 10 del mattino…Enrico sollevò il secchio e apparve un brulichio di palline dorate. Capii che si trattava di uno straordinario gioiello…Al termine della ripulitura si sarebbe riconosciuto un diadema, coronato da un doppio serto di foglie, caratterizzato da una fascia rettangolare in cui era stata ricavata a stampo una treccia a rilievo…”.

Sicuramente altri avevano fatto a Capocolonna quanto si fece all’epoca della reggenza Lattanzi-Spadea; esattamente cento anni prima ci avevano provato gli studiosi Clarke ed Emerson dell’Istituto Archeologico Americano. Essi avviarono delle sommarie ricerche sui luoghi, ma le autorità italiane negarono le necessarie autorizzazioni a scavare. Ci volle il 1909 affinché qualcuno venisse in soccorso di un patrimonio immenso che stava per essere dilapidato per sempre. Giunse dunque a Crotone l’archeologo Paolo Orsi e gli scavi sul promontorio Lacinio ebbero inizio nel 1910. Non è dato sapere quanti soldi siano stati spesi per la scoperta dell’Edificio B e per il recupero del Diadema di Hera e gli altri stupendi oggetti votivi che erano sepolti tra quei ruderi; ma l’Ufficio scavi aveva una sua funzione e soprattutto una sua autonomia gestionale con risorse umane pagate comunque dallo Stato.

Sembra di narrare avvenimenti di un altro pianeta, ma quella era Capocolonna neppure trenta anni addietro. I crotonesi avevano smesso da tempo di mangiarsi l’anguria sotto “Il masso”, perché una notte d’inverno quello era caduto, e persero l’abitudine di scolpire cuoricini con le proprie iniziali sulla “pelle” della povera colonna, perché dall’ora in poi fu posta seriamente sotto tutela e consolidata. Ora su promontorio c’è di tutto e di più; si hanno mille idee; come fare la festa al povero faro, per esempio, che dal 1872 non ha mai smesso di accarezzare dolcemente col suo fascio di luce il mare che portò cotanta civiltà ed i resti di ciò che di essa rimane. 

Pure la strada che conduce a Capocolonna fu costruita sul finire del 1800 , ma rischia seriamente di precipitare sotto l’irto se nessuno interverrà, adesso che, essendo la sua manutenzione di competenza provinciale, l’ente che doveva farsene carico non ha i soldi neppure per la benzina che occorre per un sopralluogo tecnico. E non basta; i lampioni che illuminavano il cammino dall’irto sino a Capocolonna, piazzati dalla Provincia, sono spenti da tempo; non ci sono i soldi per pagare la bolletta della luce che serve per dargli ragione e vita, e restano lì ad arrugginire, tristi e tentanti per i cacciatori di rame. Ecco, alla fine di questa breve storia, alcune altrettanto brevi riflessioni.

A Capocolonna tutto quello che c’era da costruire è stato costruito, compreso un anfiteatro che è un ricettacolo di bestiole notturne e scarafaggi e che andrebbe demolito e rifatto diversamente. Tutte le ipotesi di gestione per la valorizzazione consegnate in mano a enti o privati, sono state espletate senza successo, quantunque senza risultati che travalicassero l’irrisorio. Per arrivarci in quel “luogo del cuore” occorre una situazione di viabilità accettabile e quella attuale non lo è, soprattutto per i vistosi franamenti del manto stradale. L’illuminazione stradale su quel tratto di costa erano qualcosa di bello, ben fatto e andrebbe ripristinata. Ora: abbiamo in cassa, stando alle cifre annunciate dai politici, un montante finalizzato per Capocolonna, di quasi un due milioni di euro (compreso l’efficientamento energetico del Museo). Ebbene, si tratta pur sempre di bruscolini rispetto al bisogno e forse sono a malapena sufficienti mettere in sicurezza qualche tratto della strada che rischia di cadere giù.

Se poi arrivassero altri soldi, non sarebbe male ripristinare l’illuminazione stradale; ne avrebbero il beneficio di non essere spiaccicati sull’asfalto del rettifilo finale, buio come il lutto, anche cani, gatti, ricci e volpi che popolano di notte, dai tempi di Pitagora, noto animalista, quella contrada. Ed è proprio pensando a Pitagora e alla metempsicosi, a tutto quanto altro si vorrebbe fare in suo onore,che sarebbe opportuno evitare quella strage di animali tra l’irto e Capocolonna, onorandone la memoria partendo da quell’aneddoto di Senofane che lo riguarda: “Si dice che un giorno, passando vicino a qualcuno che maltrattava un cane, Pitagora, colmo di compassione, pronunciò queste parole: 'smettila di colpirlo! La sua anima la sento, è quella di un amico che ho riconosciuto dal timbro della voce”.

Foto: -Siby-/Flickr

 




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